Oggi è stato pubblicato il rapporto Mapping Refugee Media Journey: Smartphones and Social Media Networks, uno studio realizzato da Open University: la ricerca, condotta in collaborazione con France Médias Monde, ha individuato gravi lacune nella disponibilità di informazioni e notizie utili, affidabili e tempestive ai rifugiati tramite tecnologia mobile.
Per i rifugiati che scappano da paesi distrutti dalla guerra, come la Siria o l’Iraq, lo smartphone è essenziale tanto quanto il cibo o un tetto sopra la testa. Gli apparecchi mobili sono allo stesso tempo una benedizione e una maledizione: le tracce digitali che lasciano, infatti, espongono i profughi a sorveglianza, intimidazioni e sfruttamento da parte di organizzazioni ufficiali e non. La paura per la propria sicurezza e privacy costringe così i richiedenti asilo a fare affidamento su informazioni alternative e poco affidabili messe in circolazione dai trafficanti sui social media. L’opzione della clandestinità digitale – ad esempio tramite l’uso di applicazioni chiuse e criptate come Whatsapp – espone i profughi a rischi ancora maggiori, esacerbando ulteriormente la grave situazione di crisi umanitaria.
Il rapporto chiede alla Commissione Europea di agevolare la collaborazione tra stati membri, agenzie di informazioni, aziende tecnologiche, associazioni non governative ed altri soggetti interessati, al fine di orchestrare una strategia informativa sostenibile e aggiornata, basata sui principi individuati nello studio legati alle buone pratiche in corso.
Il rapporto esprime preoccupazione circa questa carenza di notizie e informazioni, che potrebbe risultare in violazione della Convenzione ONU sui Diritti del Rifugiato del 1951: fornire ai rifugiati le informazioni di cui hanno bisogno, in maniera efficace e tempestiva, sarebbe infatti un vero e proprio obbligo morale. Secondo lo studio, la cosiddetta “crisi dei rifugiati” è un argomento talmente scottante che le agenzie informative e quelle governative starebbero rifuggendo le responsabilità imposte loro dalla Convenzione ONU per paura di essere accusati di facilitare il flusso di profughi verso l’Europa. Si è così giunti a una situazione di paralisi che solo un’organizzazione come la Commissione Europea potrebbe contribuire a sbloccare.
Condotta tra il settembre del 2015 e l’aprile del 2016, la ricerca ha analizzato l’uso di smartphone e social media da parte di profughi che tentano di raggiungere un luogo sicuro in Europa, fuggendo da paesi come la Siria e l’Iraq. Lo studio si è avvalso di diverse competenze di accademici e operatori del settore, usando una varietà di metodologie, tra cui: la conduzione di una serie di interviste con rifugiati siriani ed iracheni a Parigi, Lesbo, Londra e Swansea, l’analisi dell’uso dei social network (soprattutto Facebook e Twitter) da parte dei rifugiati, condotta da esperti informatici, i colloqui con lo staff della Commissione Europa ma anche con giornalisti internazionali ed operatori di organizzazioni non governative. Non mancano poi un’analisi dei contenuti prodotti dai media e un esame critico della letteratura scientifica in materia, che tracciano le implicazioni fondamentali per decisori politici e professionisti dell’informazione.
La ricerca sottolinea l’assenza di coordinamento nel fornire in formato digitale notizie e informazioni utili, affidabili e tempestive ai rifugiati – soprattutto da parte dei mezzi di informazione, che troppo spesso vedono i rifugiati come l’oggetto di cui parlare e non il soggetto a cui rivolgersi.
Nonostante vi sia un numero crescente di risorse digitali messe a disposizione dei rifugiati, molte di queste non sono studiate in maniera accurata o sostenibile nel lungo periodo e potrebbero in realtà fare più male che bene, diffondendo disinformazione. Non bastano insomma soluzioni tecnologiche “veloci”, soprattutto in un contesto in cui tanto i governi europei quanto le agenzie informative stanno venendo meno al proprio dovere di aiutare i profughi coinvolti nella grave crisi umanitaria che sta avendo luogo, poiché tanto gli uni quanto gli altri temono di essere visti come facilitatori dei flussi migratori verso l’Europa. Le esperienze dei profughi, le politiche in materia e la loro implementazione stanno cambiando velocemente ed è necessario valutare come creare buone pratiche per la gestione digitale delle migrazioni.
Lo studio si conclude quindi fissando 8 principi di buone pratiche [sulle soluzioni da usare, NdT], che si possono così riassumere:
1. Centrato sull’utente: il coinvolgimento dei rifugiati nella progettazione e nell’implementazione è fondamentale;
2. Sicuro e privato: l’affidabilità è un requisito indispensabile;
3. Degno di fiducia: è necessario fidarsi delle risorse per usarle;
4. Accessibile: le risorse devono essere facilmente accessibili da tutti i punti di vista (economico, tecnologico, linguistico);
5. Strategico: la produzione di risorse tecnologiche deve avere un chiaro obiettivo strategico;
6. Pragmatico: meglio il riutilizzo e la riprogrammazione di risorse esistenti che la creazione di nuove;
7. Unico: occorre monitorare le risorse esistenti per appurare che il progetto non sia una replica di altre iniziative e sia un elemento esclusivo del settore (il cosiddetto Unique Selling Point, USP);
8. Sostenibile: la pianificazione a lungo termine – anche dal punto di vista di risorse e mantenimento – è vitale per garantire che il progetto non venga lanciato e poi subito abbandonato.
(Traduzione di Corallina Lopez Curzi)