In fondo, l’8 agosto 1991, il viaggio della nave Vlora fu un ritorno in Italia. Perché il mercantile, all’inizio degli anni Sessanta, era stata costruita nei Cantieri Navali Riuniti di Ancona. Varata con il nome di Ilice, era stata commissionata dalla Società Ligure di Armamento di Genova, e poi venduta, nel 1961, alla Societè actionnaire sino-albanaise de la navigation maritime Chalship di Durazzo, ribattezzata Vlora (Valona) e battente bandiera albanese. Ma nessuno lo ricordava, come se fosse l’ennesimo atto di un rapporto stretto e rimosso che caratterizza le relazioni tra Italia e Albania.
Al timone, stremato, il comandante Halim Milaqi. Secondo la sua ricostruzione di quei giorni, il 7 agosto 1991 – di ritorno da Cuba carica di zucchero di canna, da cui il soprannome di ‘nave dolce’ – durante le operazioni di sbarco del carico nel porto di Durazzo, venne assalita da una folla di circa 20 mila persone che costrinsero il comandante a salpare per l’Italia.
“La Vlora era ancorata al molo 5, stavamo scaricando lo zucchero cubano, fuori dal porto vidi un gran movimento: non passò molto tempo prima che la gente sfondasse i cancelli del porto. La nave si riempiva, non potevo fare manovra, decisi di allontanarmi dalla banchina…ma usando le cime riuscivano ad arrampicarsi, anche quelle che gli lanciavano i primi che erano saliti!”.
Così racconta, nello splendido documentario Anija – La nave, di Roland Sejko, forse il più bel prodotto di un racconto collettivo che esista sulla vicenda. In una successiva intervista per l’edizione barese della Repubblica, Milaqi raccontò che alcune delle persone a bordo erano armate e lo avevano costretto a partire contro la sua volontà. La versione si contraddice un po’ con il passato, ma la memoria è liquida come il mare, e a volte inganna o si modifica con i sentimenti e gli anni. “Io sono rimasto con la Vlora nel porto di Bari per 45 giorni quell’agosto, poi l’ho riportata con il mio equipaggio in Albania e ho continuato a fare trasporto merci fino al dicembre del ’94 – conclude Milaqi – La nave ha fatto altri viaggi nel ’95 ma poi ho ne perso le tracce”. L’ultimo viaggio avvenne il 17 agosto 1996, quando arrivò ad Aliaga, in Turchia, per essere demolita presso il bacino Bereket Ithalat Ihracat.
Chi quelle tracce non le ha perse mai sono le decine di migliaia di persone a bordo. Alcune sono diventate famose, come il ballerino Kledi Kadiu, che nel documentario La nave dolce di Daniele Vicari, dedicato all’evento, dirà: “Solo a pensarci ho ancora sete; finii per bere acqua salata e andai fuori di testa perché la sete aumentò”. Aveva sedici anni. “Ero in spiaggia, una manciata di secondi, non c’è stato neanche il tempo di pensare. Con quattro amici, abbiamo visto la nave, era un po’ più grossa delle altre, hanno detto che partiva per l’Italia. Un po’ anche solo per andare a vedere cosa accadeva…cosa c’era dall’altra parte…senza rendersi bene conto di quello a cui si sarebbe andati incontro”, racconta Kledi. Oppure il calciatore Edgar Cani, che sbarcò dalla Vlora che aveva a un anno e 17 giorni, con i genitori. Anni dopo, in una convulsa lotta per la promozione in serie A, proprio lui, con la maglia del Bari, segna una storica doppietta al Novara trascinando la squadra ai play-off, chiudendo un romantico cerchio della vita. Oppure come Eva Meksi, che seguì il marito, ricordando come si arrampicò sulla fune e affrontò il viaggio senza dormire, senza bere, senza mangiare, ed oggi è stata candidata alle ultime elezioni per il Comune di Bari.
Con loro, però, c’erano anche tante persone comuni. In questi giorni, su vari gruppi della diaspora albanese su Facebook, si sono rincorse storie, ricordi. Uno di questi gruppi è ScopriAlbania, che ha pubblicato nei giorni scorsi una foto che ritrae un ragazzino appeso a una cima della nave Vlora, mentre si cala in acqua, come fecero molti estenuati dall’attesa delle operazioni di sbarco dopo un viaggio massacrante. Nel commento alla foto, è scritto: “Quel ragazzo sono io, quella fune era per me la fune della vita, aggrappato al mio futuro migliore, e come alpinisti che scalano Everest, e per me lo era. E ora vivo nella bella Toscana, nelle colline più belle del mondo quelle di Siena”. I ricordi sono tanti, come le storie che sono diventate vite.
Questa idea dell’improvvisazione, della decisione all’ultimo momento, ritorna in molte delle testimonianze del tempo. E lo confermano le immagini, della partenza e dell’arrivo, che ritraggono persone in ciabatte, costumi da bagno, pantaloncini. Un testimone, con un accento barese nel parlare italiano, sempre nel film di Vicari, non ha dubbi: “Hanno detto che il porto era aperto, ma quando sono arrivato io c’erano ancora dei militari. Ma la folla premeva e alla fine hanno buttato via i fucili e sono venuti con noi”.
Quel che può ingannare, oggi, è quasi la ‘leggerezza’ del racconto e del ricordo. Come tutte le traversate di persone che non hanno niente da perdere, però, è stata drammatica anche quella della Vlora. “Ho un terribile ricordo. Venti ore di viaggio stretti uno sopra l’altro, come delle bestie. Ricordo la stanchezza, la fame e la sete. Ho visto tanti morire [anche se la vittima accertata ufficiale è solo una ndr] . Disperati che si sono accoltellati per un tozzo di pane e per una bottiglietta d’acqua”.
Così ricorda Ali Margjeka, che era su quella nave, aveva 29 anni e in Albania aveva lasciato i genitori e i suoi quattro fratelli. Oggi vive a Bari, ha moglie, tre figli, un lavoro e un ricordo troppo pesante. “La scelta di portarci nello stadio in una giornata così calda fu sbagliata. La colpa fu del governo che non era attrezzato con campi di accoglienza. Ad un certo punto iniziarono a rimpatriare gente con l’inganno. Dicevano che li avrebbero spostati in un altro campo, invece li rispedivano in Albania. Io allora sono scappato. Siamo scappati dall’Albania perché c’era la dittatura, io sono salito su quella nave per cercare un futuro migliore. Avevamo poche informazioni, morivamo di fame e immaginavamo un’Italia grande, ricca e colta. Se in questa storia c’é qualcosa di dolce, sicuramente é la gente che ci accolse. Nonostante la situazione difficile i baresi si dimostrarono molto umani nei nostri confronti”.
Una solidarietà che, nel tempo, ha pagato un prezzo salato alla fabbrica del terrore della politica e alla criminalizzazione dei migranti e alle speculazioni politiche sulla loro pelle. Un prezzo che, per anni, è stato quello di raccontare solo masse, senza volti e senza nome. Gli ‘albanesi’ erano un unicum, ma non era così. Su quella nave c’era di tutto: agenti di polizia e soldati come ex detenuti, uomini e donne, adulti e bambini, perseguitati dal regime ed ex privilegiati dello stesso. Una sola moltitudine, che anche al suo interno aveva delle differenze. Ardian Vehbiu, scrittore e giornalista albanese, era già in Italia quando arrivò la Vlora. Aveva un contratto all’Orientale di Napoli, faceva il lettore, era arrivato con una borsa di studio. Quando alcuni degli albanesi sbarcati in quei mesi vennero mandati in un campo profughi in Campania, venne chiamato come interprete.
“Il mio libro che considero una lettera d’amore all’Italia è La Scoperta Dell’Albania: Gli albanesi secondo i mass media (Edizioni Paoline ndr),scritto con Rando Devole: due giovani albanesi nell’Italia che provava a spiegarsi il nostro arrivo”, racconta lo scrittore. “Io sono fortunato, appartenevo a una parte privilegiata della società albanese. Ero venuto, nel 1986, alla Sapienza di Roma come lettore di lingua, ma non mi passava neanche nella testa di restare, nonostante amassi l’Italia, che pure avevo scoperto essere molto diversa da quella che sognavo attraverso la Tv che guardavo in Albania. Temevo ritorsioni per la mia famiglia, non immaginavo che sarebbe finito tutto, pensavo solo che dopo la morte di Enver Hoxha ci sarebbero state aperture liberali. E anche quando tutto è esploso, nel 1990, io ero già in Italia, grazie a un lavoro che avevo trovato all’Orientale di Napoli. La rivoluzione albanese, la fuga di massa, mi ha raggiunto in Italia. Ho fatto il mediatore, a Capua, in un campo dove erano stati sistemati migliaia di albanesi. Ho scoperto così il mio paese, perché quelle persone venivano da contesti rurali che avevano patito tanto il regime, io no, ero diverso da loro e mi sentivo quasi in colpa. Allora decidemmo di provare a raccontarvi la complessità dell’Albania, con il nostro libro”.
Gli anniversari si ammalano sempre di retorica, per loro natura; la memoria è una zona di confine scivolosa, ma quello che resta è un suggerimento su come guardare il presente. I volti e le storie di coloro che, passando per quell’esperienza traumatica, sono oggi felici e realizzati non deve cancellare il dolore che i progetti migratori portano con loro, ma sono una mappa per capire come la retorica dell’invasione si nutre anche del lavoro di racconto, che troppe volte rinuncia alla responsabilità della complessità, mettendo tutto sullo stesso piano. E da qui si deve ripartire, per altri viaggi e per altri porti, che oggi come ieri accoglieranno i migranti di oggi e di domani.
Immagine di copertina: particolare della nave Vlora. Foto via Twitter.