Era una discarica, oggi accoglie circa 600 persone bloccate nella cittadina bosniaca al confine con la Croazia: ultima frontiera per entrare in Europa. Nel campo manca tutto, dall’acqua potabile ai servizi igienici. C’è chi prova ad andare via tentando il game, ma viene respinto al confine, spesso con violenza.
La mappa all’ingresso avverte di stare attenti: tutte le aree intorno sono disseminate di mine inesplose durante l’ultima guerra. Ma chi vive qui dice di non aver più paura di niente: i piedi fasciati, le cicatrici sulla schiena, sulle mani, sul volto, tradiscono le violenze subite al confine. Un confine segnato da una foresta impervia, abitata da animali selvatici e pattugliata giorno e notte dalla polizia, che non si fa scrupoli a usare il pugno duro con chi prova ad arrivare in Croazia. Lo chiamano il “game” il tentativo di passare la frontiera e arrivare, di confine in confine, almeno fino all’Italia, coltivando il sogno di Francia, Germania e i paesi del nord Europa. Ma i vincitori sono pochi e molti dei vinti ora si trovano nella nuova giungla nel cuore dei Balcani, a Vucjak, cittadina bosniaca ai piedi del monte Pljesevica, a circa 20 chilometri da Bihac, nel cantone Una-Sana. Come la Serbia qualche anno fa, è oggi la Bosnia l’ultima frontiera per entrare in Europa. Il paese è diventato fondamentale nello scacchiere internazionale per tenere fuori i migranti dai paesi Ue, seguendo quella che i ricercatori chiamano la strategia di esternalizzazione delle frontiere.
E così i numeri aumentano: secondo le stime, dall’inizio dell’anno, sono transitate nel paese più di 21mila persone, almeno 5.000 si trovano bloccate nella regione Una-Sana, vicino al confine croato. Ed è qui che sorge il “jungle camp” un’ex discarica, ripulita in pochi giorni e riconvertita a campo informale. Tolti i rifiuti nell’area sono state trasferite a metà giugno più di 600 persone. In colonna, scortati dalla polizia, i migranti hanno camminato per ore per arrivare fino a qui: l’obiettivo era alleggerire la pressione migratoria a Bihac, fuori dai capannoni di Bira (una ex fabbrica di frigoriferi ora centro di accoglienza) e a Velika Kladusa, fuori dall’ ex residence Miral. Negli ultimi mesi alcuni episodi di violenza e la crescente ostilità della popolazione locale hanno convinto le autorità a creare questo nuovo sito dove ricollocare parte delle persone nonostante le Nazioni Unite abbiamo sconsigliato l’area, sia per la presenza di gas metano nel sottosuolo, che potrebbe dar vita ad incendi ed esplosioni, sia per la mancanza di acqua potabile, elettricità e servizi igienici. Il campo, gestito dalla Croce rossa locale che fornisce i pasti e una prima assistenza medica, è già in condizioni pessime, specialmente dal punto di vista igienico-sanitario.
“Lo chiamano ‘jungle camp’ perché è all’interno della foresta, ma anche perché non è un buon posto per vivere – spiega Aaron, il coordinatore del team Croce Rossa. Le condizioni non sono buone, noi proviamo per quanto possibile a migliorare la situazione. All’inizio era più difficile, le persone erano aggressive con noi perché erano state portate qui nel nulla. Ora collaborano perché hanno capito che siamo qui per aiutarli”.
La maggior parte dei migranti del jungle camp arriva da Afghanistan, Pakistan, Siria e Iraq. Alcuni si sono organizzati per rendere la vita all’interno del campo più vivibile: c’è un piccolo market in cui vengono venduti cibo e bevande, ci sono le tende adibite alla preghiera, c’è chi si offre come barbiere per poche monete. “Sono tutti uomini in transito: alcuni non hanno trovato posto negli altri centri o sono stati portati qui dalla polizia perché giravano in città, a Bihac – spiega ancora Aaron. Ci sono poi persone che provano a passare il confine, c’è chi ha tentato il game anche 20 volte. Le autorità li respingono e tornano qui”.
La polizia bosniaca pattuglia la foresta prima della frontiera con la Croazia, quella croata si occupa del tratto successivo: se qualcuno riesce ad entrare nel paese viene respinto e riportato indietro, spesso con la forza. Ad ammetterlo è stata la stessa presidente croata Kolinda Grabar-Kitarović in un’intervista, che ha fatto molto discutere, anche perché, secondo una recente inchiesta, queste pratiche illegali sarebbero portate avanti anche utilizzando i fondi destinati dall’Unione europea alla Croazia per l’ammodernamento delle frontiere in vista dell’ingresso del paese nell’area di libera circolazione Schengen. Secondo un collettivo di ong (di cui fanno parte No name Kitchen, Are you syrious e il Center for peace studies di Zagabria), che monitora le violenze sulla rotta balcanica dal 2016 con il progetto Border violence i respingimenti (anche quelli collettivi) sono continuati anche negli ultimi mesi, frutto della volontà politica di operarli verso la Bosnia, che diventa così un limbo da cui è difficile uscire.
“E’ un gioco pericoloso, non sappiamo se tra qualche mese nei boschi verranno ritrovati i corpi di chi non ce l’ha fatta – aggiunge Sabina, un’altra giovane operatrice della Croce Rossa. Ogni giorno c’è un gruppo di ragazzi che parte, zaino in spalla. Noi li salutiamo, ma spesso li vediamo tornare. Ci riprovano dopo qualche settimana, non appena le ferite sui piedi si rimarginano. E’ un tentativo continuo”.
Solo qualche giorno fa il corpo di un giovane ragazzo palestinese, Salah, è stato ritrovato nel letto di un fiume al confine. Aveva lasciato Gaza con la speranza di un futuro migliore in Europa, ha trovato la morte nella foresta. Anche Amhad, originario dell’Afghanistan, ha provato il game cinque volte. Dalla jungle alla frontiera con la Croazia sono solo dieci chilometri, si arriva con qualche ora, mentre per arrivare fino a Trieste ci vogliono almeno dieci giorni di cammino. “Una volta ce l’avevo quasi fatta: ero riuscito ad arrivare in Slovenia, stavo per passare il confine con l’Italia ma mi hanno bloccato – racconta seduto nella tenda in cui vive insieme ad altri connazionali. Ci hanno prima portato in Croazia, qui la polizia ha distrutto il mio cellulare e mi ha preso i vestiti e le scarpe. E poi siamo dovuti tornare in Bosnia. Riproveremo, non possiamo stare qui, si impazzisce a stare qui, nel nulla, lontano da tutto”. Il suo sogno è arrivare in Germania, racconta: “chi ha soldi può provare ad arrivare con una macchina o un taxi, ma io non ne ho e quindi provo e riprovo a piedi. I passeur offrono passaggi fino alla frontiera, ma il costo può arrivare anche a duemila euro per pochi chilometri e il risultato non è assicurato: potrebbero comunque bloccarti dopo”.
C’è chi prova a chiedere di fare domanda di protezione internazionale, una volta messo piede in Croazia, ma è praticamente impossibile: “ti respingono e basta, anche se provi a chiedere asilo – aggiunge Abdoul, 20 anni, originario del Pakistan che ha provato 12 volte a passare: “ci si prova e basta, a volte il gioco è con la foresta, a volte è con le guardie. Se ti prende la polizia ti toglie tutto, se ti prende la foresta è ancora peggio, ma non abbiamo alcuna alternativa. Ho lasciato il mio paese per costruirmi un futuro migliore: finchè non riesco ad arrivare in Europa, proverò e riproverò ancora, ancora, ancora”.
In copertina: l’ingresso del campo di Vucjak, la nuova jungle dei Balcani. Foto di Eleonora Camilli