Guardando una mappa dall’alto, anche a occhio nudo, si può notare come Pristina, la capitale del Kosovo, si trovi esattamente a metà strada tra Berlino e Aleppo. E il Kosovo, come un cuore, è piantato proprio al centro di quella Balkan Route che – anche se svanita dai media mainstream – resta una delle ultime vie di fuga praticabili dall’inferno della Siria. Eppure, rispetto a quanto accade in Bosnia-Erzegovina, i numeri dei profughi che passano dalla giovane repubblica (il Kosovo ha proclamato la sua indipendenza nel 2008) è molto basso. Come mai?
Pristina esplode di luci e colori, le bandiere del Kosovo e dell’Albania (nello stato attuale delle cose circa il 90 percento della popolazione è di lingua e cultura albanese) si saturano a vicenda, ovunque, mentre un mare di giovani, in un paese che ha un’età media di 25 anni, per capirci 20 in meno di quella italiana, è in continuo movimento. Ma questa frenesia, in fondo, nasconde una sorta di ansia collettiva.
Basta guardare le code perenni davanti alle ambasciate occidentali per rendersene conto. Un dato, su tutti, fa riflettere: secondo le autorità kosovare, a fronte dell’attuale popolazione di 1,7 milioni di persone da ultimo censimento, entro il 2021 si potrebbe scendere a 1,5 milioni di persone.
Perché dal Kosovo, i kosovari, vogliono andare via.
Erol Arduc è il capo della missione Unhcr a Pristina. Una missione storica, nata negli anni Novanta, al tempo delle guerre nella ex-Jugoslavia. Il dirigente turco, affabile e disponibile, guida uno staff che non è paragonabile – per numero – a quello dei primi anni Duemila, ma l’esperienza così recente in tema di profughi in Kosovo è notevole.
“È fondamentale parlare con i media, spiegare il nostro lavoro. Ed è strano, se ci pensate: siamo qui dalla fine degli anni Novanta per la storia che tutti conoscono, ma a volte bisogna spiegare di nuovo, dall’inizio. Eppure le dinamiche sono le stesse, anche le storie, a volte, sembrano le stesse”, spiega in un inglese impeccabile Arduc. “Il nostro lavoro, per tutto il dopoguerra, è stato quello di gestire il processo del ritorno. Dalla Macedonia, dal Montenegro, dalla Serbia, dalla Bosnia-Erzegovina, dall’Albania. L’Unhcr si è concentrata sui rientri volontari che, negli anni, sono stati oltre 28mila. Adesso, però, si registra un brusco calo. I motivi sono tanti, ma è sicuramente importante in questo senso il calo di interesse da parte della comunità internazionale e le difficoltà nella gestione dei casi controversi di proprietà terriera, che va verificata, sia nella condizione esistente che in quella del passato. Queste procedure, rispetto al sistema legale in Kosovo, sono molto lente. Noi supportiamo questi progetti di vita e lavoriamo con ong e governo per gestire – nel miglior modo possibile – questo processo. Siamo per altro molto concentrati sul programma housing e sul supporto economico, perché non basta una casa: c’è pochissimo lavoro in Kosovo e le condizioni non sono ideali per le minoranze: serbi, roma, askhali, gispy, hanno uno stigma, non molto benvoluti. Lavoriamo anche a questo, ma è un processo culturale, lungo e complesso. La situazione non è critica, ma qualche incidente c’è, e bisogna lavorare sulla società civile e sui media per ottenere risultati”.
Lavorare sui rifugiati, in Kosovo, è come viaggiare nel tempo. Mentre si parla dei profughi di ieri, che tornano, anche se meno di prima, ci sono quelli di oggi. “Mentre calano i ritornanti, aumentano i richiedenti asilo”, spiega il direttore di Unhcr. “All’inizio del 2019, fino a febbraio, sono state presentate 159 domande di asilo politico. Dal 2010, sono 1.941, in stragrande maggioranza uomini, provenienti per lo più da Siria, Marocco, Algeria, Libia, Pakistan, Afghanistan, pochi dall’Iran, e i Turchi. Ma i miei connazionali non arrivano qui di persona, lo chiedono attraverso canali politici”.
Il governo del Kosovo ha attrezzato per queste persone l’Asylum Seekers Center di Magura, a Lipljan, a pochi chilometri da Pristina. “Un buon centro, ma piccolo, che può ospitare fino a 100 persone, anche se è uno dei migliori che ho visto in giro nella mia carriera”. Per quelli che non richiedono l’asilo c’è il Detention Center for Foreigners a Vranidoll. “Anche qui, di base, compresi quelli che applicano per lo status di rifugiato, non restano, non aspettano, ripartono, con il solito sogno dell’Ue. Non ci sono paragoni con altri paesi dell’area, qui sono circa duecento persone all’anno, ma quelli che restano vanno aiutati ed è difficile. C’è molta collaborazione, tra noi e altre agenzie Onu, con le autorità locali e le ambasciate. Il quadro normativo, per esempio, ha un’ottima base legale, solo che la condizione particolare del Kosovo nel quadro del contesto internazionale rende molto complicato il lavoro. Pensate, rispetto ai paesi che non riconoscono il Kosovo, come si può organizzare un rimpatrio. Ecco, vanno sbloccate queste situazioni, perché il numero è in aumento (il 2018 con 595 persone è stato l’anno più impegnativo e ci aspettiamo un 2019 in crescita) e gli stati limitrofi sono aiutati maggiormente, mentre qui – al momento – non ci sono gli stessi supporti alla gestione delle frontiere. È un limbo. Per i richiedenti asilo e per i kosovari stessi”. Solo il 12,8% delle richieste di asilo in Kosovo sono state accolte, ricevendo una risposta in un tempo tra i 6 e i 9 mesi.
Dopo l’indipendenza del 2008, infatti, per i kosovari la sbornia è durata poco. Al di là della drammatica situazione occupazionale (a gennaio 2019 il tasso di disoccupazione era oltre il 30%) c’è la situazione dell’essere bloccati qui. Ecco che si crea una situazione surreale: in un paese che ancora lavora ad accogliere i profughi del conflitto del 1999 che tornano, mentre cresce il numero dei profughi delle guerre di oggi in transito, nel periodo tra il 2008 e il 2018 (secondo i dati dell’European Policy Institute of Kosovo) sono state 203.330 le richieste di asilo politico di cittadini kosovari verso paesi Ue. Un numero impressionante. Sono stati 141.330 i cittadini kosovari entrati illegalmente nell’Ue nello stesso periodo, un numero che non tiene conto degli ingressi legali. Un esodo di massa. “Un terzo della popolazione, in modi differenti, cerca di abbandonare il paese”, ha dichiarato Tauant Kryeziu, direttore dell’European Policy Institute of Kosovo.
Alcuni hanno mezzi privilegiati rispetto agli altri e, in questa condizione, mancando un accordo internazionale valido per l’espatrio dei kosovari, c’è chi fa valere la possibilità di accedere almeno alla cittadinanza onoraria albanese che ora permette di entrare nell’Ue senza visto. Parenti e amici delle personalità più importanti del Kosovo, compresi presidente e primo ministro, hanno chiesto la doppia cittadinanza. Ma la gente comune non può farlo. E questo, in una strana combinazione tra residenti e transitanti, alimenta il traffico di esseri umani. La maggior parte dei migranti, secondo fonti della polizia kosovara, entra dal valico di Vërmica, con l’Albania, mentre quelli che attraversano la Macedonia entrano da sentieri nei pressi del punto di attraversamento di Hani i Elezit.
Secondo un rapporto della Global Initiative Against Transnational Organised Crime, il Kosovo in generale e Pristina in particolare sono un ‘hotspot’ del crimine transnazionale. “Sono tutti luoghi di transito, intersezione e di confine, con una forte vulnerabilità economica, ad esempio alti tassi di disoccupazione, e infine sono caratterizzati dalla presenza di istituzioni deboli. Viene inoltre sottolineato che la maggior parte dei gruppi che operano in queste aree sono “poli-criminali”, cioè dediti ad attività illegali diversificate che vanno dal contrabbando di esseri umani a quello di armi, droghe, veicoli e sigarette” spiega il rapporto. “Le consegne arrivano in container il cui contenuto viene poi suddiviso all’interno di autobus, macchine e camion attraverso il Kosovo, la Serbia e la Bosnia verso l’Europa centrale. Una sorta di “triangolo delle crisi” tra il Kosovo, la Macedonia del Nord e il sud della Serbia: è una zona prevalentemente montuosa e di difficile controllo da parte dei rispettivi governi, presenta un’economia molto debole con alti tassi di disoccupazione – un terreno fertile per il reclutamento di giovani criminali – ed è caratterizzata da instabilità politica. Questi tre fattori la rendono particolarmente attrattiva per le attività criminali. È rinomata per il contrabbando di bestiame, cibo, oro, droga e sigarette e si crede sia anche una zona di produzione di droghe sintetiche e contrabbando di esseri umani”.
Il rapporto si concentra anche sul nord del Kosovo, una sorta di zona grigia – né pienamente controllata dalle autorità kosovare né da quelle internazionali. Ciò nonostante riceve ingenti fondi dallo stato, dalla Serbia e dall’UE. La combinazione di questi due fattori (insufficiente autorità istituzionale e ricezione di fondi) rende la regione un ambiente favorevole per il crimine e la corruzione. Il rapporto mette inoltre in evidenza come le diversità etniche e i confini non impediscano la cooperazione tra criminali kosovari e serbi.
Una rete di reti che si nutre delle vie legali chiuse. Nonostante un destino comune, la percezione dei rifugiati siriani o di afgani non è positiva. “Le autorità sono estremamente collaborative”, racconta il capo missione Unhcr, “ma ahimè l’opinione pubblica molto meno. Si sono registrati casi di personalità celebri kosovare che, nel comune ricordo del loro recente passato, hanno lanciato appelli per accogliere questi nuovi rifugiati, ma la reazione popolare è stata molto fredda quando non negativa. Anche qui, come altrove, la narrazione è priva di volti, nomi, storie, ma si concentra solo sui numeri, che pure sono risibili. Ed è, anche qui, dove la memoria dell’essere profughi dovrebbe essere molto viva, tutto un fiorire di fake news. L’ultima delle quali, rispetto alle malattie che porterebbero i profughi, ne complica l’inserimento scolastico”.
Ad aggravare la situazione, proprio rispetto alla guerra in Siria, c’è il problema dei foreign fighters. Per restare fedeli alle contraddizioni del Kosovo sul tema, basti pensare che le autorità nazionali hanno annunciato – all’inizio del 2019 – la conclusione delle operazioni di rimpatrio di 110 cittadini che si trovavano in territorio siriano: nella maggior parte dei casi si tratta di donne e bambini (questi ultimi sarebbero almeno 74), perlopiù mogli e figli di kosovari morti combattendo al fianco dello Stato islamico; ma in patria sono tornati anche alcuni reduci del jihad, che le autorità hanno annunciato di voler perseguire. Secondo alcune stime delle autorità kosovare e di think tank internazionali, sarebbero circa 400 i cittadini del Kosovo che, a vario titolo, risultano essere coinvolti in inchieste riguardanti l’aver raggiunto la Siria per unirsi allo Stato Islamico. Un numero elevato, considerato che secondo gli ultimi dati la popolazione totale residente in Kosovo non supera i due milioni di persone. Questo ha contribuito, nell’opinione pubblica del Paese, a creare una certa diffidenza verso le persone che arrivano dalla Siria e dall’Afghanistan, perché oltre allo stigma internazionale per i connazionali che si sono uniti alle milizie di Daesh, si è diffusa la convinzione che i profughi portino con loro una visione estremistica dell’Islam anche se nessun dato reale conferma questa lettura. Il dato, però, resta rilevante e – secondo molti commentatori in Kosovo – questo potrebbe rallentare ancora di più la liberalizzazione dei visti da parte dell’Ue.
Immagine di copertina: binari della vecchia stazione di Fushe Kosove/Kosovo Poljie (foto di Camilla De Maffei)