Del milione e 400 mila abitanti che popolavano la città prima della guerra, ne sono rimasti poco meno della metà: si calcola che almeno in 600 mila se ne siano andati con i treni, e che altre decine di persone siano fuggite in macchina durante il primo mese di guerra. Chi è rimasto difficilmente andrà via ora, perché ha deciso di restare e sostenere l’esercito oppure non ha proprio alternative, mentre i quartieri popolari della periferia nord si sono trasformati in una linea del fronte dove le artiglierie si fronteggiano in mezzo ai palazzi, o a quello che ne resta. I territori intorno, finiti sotto il controllo russo, sono stati parzialmente recuperati dagli ucraini negli ultimi giorni, ma la situazione cambia di ora in ora.
“Se sentite le sirene in altre città è possibile che qualcosa arrivi giù dal cielo – spiega Volodymyr, titolare di uno dei pochi caffè che ha riaperto in centro – se le sentite qui, soprattutto di notte, è sicuro che ci sarà un bombardamento. Ogni giorno, quando fa buio, qualcosa viene colpito, e qualcuno ne paga le conseguenze. Non sappiamo chi e dove, ma sappiamo che succede.”
Charkiv è la città degli eroi, un titolo che si è guadagnata sul campo, durante la Seconda guerra mondiale, per la resistenza contro i nazisti. Dal 2014 in poi ha vissuto anche un periodo di tensione con manifestazioni della parte russofona degli abitanti, e alcuni attentati terroristici. Oggi combatte per restare ucraina.
“Ho mandato mia moglie e i miei tre figli in Germania e sono rimasto qui con i cani e il mio caffè – racconta Volodymyr – il governo locale, dopo la ritirata dei russi dalla città, ci ha chiesto di riaprire le attività e per quanto possibile lo stiamo facendo.”
Il suo locale, dove si servono dolci e piatti caldi, oltre a caffè e te, è diventato il punto di ritrovo dei soldati e dei pochi clienti che hanno ancora voglia di sedersi al tavolino di un bar, spesso con le sirene antiaeree in sottofondo, e i colpi dell’artiglieria a meno di due chilometri.
“Qualche giorno fa sono arrivati quattro razzi anche a casa mia – ricorda – non hanno centrato l’edificio ma sono caduti in giardino. Le schegge hanno distrutto la camera dei miei figli che per fortuna era vuota. Preferisco non avere qui la mia famiglia, non potrei lavorare con il pensiero di saperli in casa. Uno dei miei cani è stato ferito leggermente, e da allora è in stato confusionale, credo che abbia anche perso l’udito. Io comunque non me ne vado, e avrei la possibilità di farlo, ma questa è la mia città e poi, come avevo previsto, la mia parte di distruzione l’ho ricevuta e direi che può bastare.” Volodymyr sdrammatizza, ricorda le vacanze al mare, in Sardegna, e i dolci più buoni di quelli che servono nel suo locale. Arriva da lui un operatore umanitario che ha bisogno di trovare dei medicinali; cercano di capire come portarli a destinazione. Vengono interrotti da due soldati che sono passati a salutare prima di tornare al fronte.
Due chilometri più avanti, lungo il viale alberato che costeggia quello che resta di un piccolo parco giochi, alcuni anziani siedono sulle panchine davanti all’ingresso del loro palazzo, il terzo di una lunga fila di edifici popolari con le porte in ferro, le aiuole con i tulipani, quasi tutti i vetri rotti. Nemmeno sussultano più quando partono i colpi dell’artiglieria, a ripetizione, e sempre più vicini. Restano seduti a chiacchierare e a guardare i muri e le porte già segnate, come se volessero accertarsi che siano in grado di reggere i prossimi colpi.
“Negli scantinati è troppo umido, in casa è inutile ripararsi perché le schegge ti possono raggiungere comunque – dice Anton, ottant’anni, i capelli bianchissimi e un vecchio cappotto di lana di qualche taglia in più che accentua la sua magrezza – questo è ciò che mi è arrivato sul letto.” Di fianco ha un pezzo di ferro accartocciato che peserà tre o quattro chili: “è entrato dalla finestra, se fossi stato lì mi avrebbe ucciso. Al secondo piano sono morte delle persone, e nessuno riusciva a entrare per portarle via, così sono rimaste dentro casa per giorni. In questa zona ci siamo solo noi, le famiglie con figli piccoli sono partite, ma io non saprei dove andare, non ho un mezzo, non ho contatti fuori da Charkiv e neanche i soldi per affittare una casa altrove. Non ho scelta.”
Con lui c’è un uomo più giovane, che si sposta a fatica con una stampella, e che vive nell’edificio accanto: qui il portone in ferro, che è stato lacerato dalle schegge, ormai non si chiude più. “Ma che differenza fa – dice – i razzi non hanno bisogno di aprire la porta.”
Alcuni isolati più avanti ci sono le postazioni militari. Il quartiere è ridotto a un ammasso di macerie e palazzi con le facciate annerite dal fuoco, crollate in più parti, che riversano nei giardini cascate informi di quello che prima era nelle case.
“Usano i droni per identificare di tutto ciò che si muove – spiega un soldato – quando si sente un sibilo bisogna cercare di stare vicino ai muri, senza mai fermarsi nello stesso posto per troppo tempo. Qui sono andati via tutti, tutti tranne una babushka, una signora anziana.”
Larisa compare da un piccolo viale, con in mano una scopa, una paletta di latta e una busta di tela per la spesa. Ha 86 anni e vive al settimo piano. Ogni giorno attraversa il quartiere incurante di colpi che si sparano sopra la sua testa e dopo aver preso dell’acqua e se possibile qualcosa da mangiare, comincia a pulire l’ingresso del suo condominio.
“Ho molto tempo libero adesso perché in casa mia non c’è più niente da pulire o da mettere a posto, non posso più cucinare perché non ho il gas e quindi esco fuori – spiega – hanno già distrutto tutto, cos’altro possono fare qui, sono rimasta solo io. Chi aveva bambini piccoli è scappato i primi giorni. Quando è cominciata la Seconda guerra mondiale avevo due anni e mezzo, e di quella guerra mi ricordo bene, ora ne ho 86 e quello che ho visto qui è stato molto peggio di allora.”
A Charkiv c’è anche chi vive sottoterra da oltre due mesi. In metropolitana ma anche negli scantinati di alcuni edifici. In una scuola ci sono ancora un centinaio di persone, un decimo di quelle che si erano rifugiate lì nei primi giorni di guerra e che poi sono partite. Una rampa di scale porta in questo labirinto che sa di terra umida, con i soffitti così bassi che in alcuni spazi non si può nemmeno stare in piedi. Per passare da una “stanza” all’altra si scavalcano tubi dell’acqua e della fogna. La corrente c’è ma solo in alcuni momenti della giornata, e per i servizi igienici bisogna risalire al piano terra.
“Non tutti possono partire – spiega Taras, un ragazzo di vent’anni che qui ha frequentato le elementari – chi come me ha gli animali ha problemi a spostarsi, ci sono dei limiti di spazio sui mezzi, e poi non sappiamo dove andare. Io partirei lo stesso, ma mia madre non se la sente di affrontare un viaggio del genere. Anche se stiamo sopportando i bombardamenti da due mesi, questa è sempre la nostra città, e speriamo ancora che la guerra finisca. E poi non è detto che chi parta stia meglio: da qui siamo riusciti a far evacuare una signora anziana, è arrivata in Croazia dove vive la figlia, ma nel frattempo ha contratto il Covid, e sta ancora molto male.”
Taras racconta che lì sotto il Covid lo hanno avuto quasi tutti e con sintomi importanti: quando si sono rifugiati in questo sotterraneo, fuori la temperatura toccava i venti gradi sotto zero, l’umidità e la mancanza di aria hanno favorito il contagio. La mancanza di farmaci e un’alimentazione di sussistenza hanno fatto il resto. “Tanti hanno avuto la febbre per giorni, non c’erano medicine, e anche solo procurarsi del cibo è sempre più difficile; di solito vengono dei volontari a portarci qualcosa, altre volte usciamo da qui a turno e cerchiamo di raggiungere qualche negozio rimasto aperto ma anche i risparmi cominciano a scarseggiare. Io una volta al giorno torno a casa, dove ho riportato il mio pappagallo che qui dentro, costretto in una gabbia piccolissima, si è fatto male a un’ala. E poi ha bisogno di luce.”
Tutti loro soffrono la mancanza di luce: quando escono in cortile a prendere una boccata d’aria si scoprono pallidi, con gli occhi gonfi e arrossati, con un odore di terra umida che gli ha impregnato gli abiti e la pelle. Ci sono anziani, giovani, famiglie con figli adulti, nessun bambino. “Non sappiamo mai che giorno è, abbiamo perso la cognizione del tempo, dello spazio – dice Taras – non è vita la nostra ma che altro possiamo fare?”
Nella periferia est c’è anche un’altra scuola che ospita una ventina di persone, e che è diventata un centro di raccolta degli aiuti umanitari, gestita da volontari. “Hanno tutti la casa distrutta – spiega Sasha, un giovane antiquario che aveva la bottega nel mercato centrale, il più grande d’Europa, abbattuto dai missili il 15 marzo scorso – e allora abbiamo creato dei posti letto qui nello scantinato, altrimenti queste persone sarebbero per strada. Ci occupiamo anche di raccogliere cibo e vestiti, li teniamo nella palestra e provvediamo a distribuirli a chi ha bisogno. Io per ora ho ancora una casa, questa zona non è stata direttamente colpita, e adesso le nostre forze stanno riguadagnando terreno. In ogni caso non me ne vado, la mia attività qui è andata in pezzi ma ho ancora dei contatti in rete. Prima facevo i video sui pezzi di antiquariato per spiegare come riconoscere gli autentici dai falsi, ora sul mio canale racconto Charkiv, quando va a fuoco e quando resiste.”
In copertina: un edificio colpito dai razzi a Charkiv. Foto di Ilaria Romano.