Lily non sta mai ferma: attorno a lei si muovono bambini, genitori, colleghe. Intanto accoglie, saluta, racconta. “Sono oltre mille i bambini che ruotano attorno a questo centro. Studiano, conoscono loro coetanei, cerchiamo di tenerli impegnati, di farli studiare, ma anche e soprattutto di farli divertire”. Fuori dalle finestre dell’appartamento di Costanza, romantica città della Romania sul Mar Nero, oltre il mare, si potrebbe vedere Odessa nei giorni senza foschia.
“Costanza e Odessa sono sorelle, da sempre. Non le volteremo le spalle certo adesso”, racconta Cornelia, che lavora per il comune rumeno.
Costanza è allo stesso tempo vicina e lontana dai venti di guerra che devastano l’Ucraina. Proprio per questa vicinanza – poco più di 500 chilometri via terra, circa 650 chilometri di confine condivisi – la Romania è stata una destinazione naturale per molti cittadini in fuga dalla guerra. Vicina e nell’Unione europea. E questo per gli ucraini significa molto a livello di garanzie personali, cosa che purtroppo non vale spesso per persone in fuga dall’Asia, dall’Africa e dal Medio Oriente.
Dei circa 2,4 milioni di ucraini entrati in Romania dall’inizio della guerra, attualmente oltre 86mila rifugiati ucraini sono rimasti nel Paese, la maggior parte donne e bambini. L’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, UNHCR, sostiene i rifugiati in tutto il Paese fornendo consulenza legale e supporto psicologico, nonché denaro contante per le famiglie arrivate di recente. “La salute mentale è un’area in cui è ancora necessario un maggiore sostegno”, ha affermato Pablo Zapata, rappresentante dell’UNHCR in Romania. “Molti rifugiati dall’Ucraina, in particolare bambini, hanno vissuto e assistito a cose terribili”.
Il governo rumeno, con una procedura mai utilizzata prima nell’Unione europea, ha nominato una coordinatrice del Piano nazionale di integrazione degli ucraini a medio e lungo termine, nello specifico Maria-Mădălina Turza, Consigliere di Stato del Primo Ministro.
“Che non abbiano più bisogno di fare affidamento sugli aiuti statali o delle ONG, perché non sono sostenibili a lungo termine, per nessuno”, ha dichiarato a Courier des Balkans. È stato stanziato un budget di 200 milioni di euro all’anno, con l’obiettivo di sostenere gli ucraini registrati nel Paese attraverso il Meccanismo europeo di protezione civile.
Il piano prevede misure in sei aree considerate essenziali per l’integrazione: salute, istruzione, lavoro, alloggio, bambini e persone vulnerabili, oltre al supporto psicologico e all’assistenza alle comunità locali dove queste famiglie vengono dislocate. Il governo di Bucarest ha mantenuto anche il programma 50/20, che consente alle persone che ospitano i rifugiati di ricevere in cambio un sostegno finanziario: 50 lei (10 euro) a notte per ogni persona e 20 lei (4 euro) al giorno per il cibo.
Tuttavia, il sistema ha i suoi limiti: alcuni proprietari ne approfittano per lucrare sui rifugiati e rifiutano persone sole, che hanno difficoltà a trovare un posto dove vivere. Inoltre, blocca le possibilità di trovare alloggio ai romeni, in particolare agli studenti, che quest’anno sono tornati all’università in presenza. E questo ha suscitato molte polemiche nel Paese, come racconta Alexandra Crivilaru, del Jesuit Refugee Service Romania, responsabile del Regional Integration Center and Ukraine crisis response. “La misura è buona e necessaria, ma non sufficiente. E noi, come tanti operatori sociali – a livello personale e collettivo – viviamo sempre nella precarietà dei progetti e qui ci sono ragazzi e ragazze ucraine che hanno iniziato un percorso scolastico, ma non bastano le aule e la logistica è sempre complicata. Noi qui facciamo scuola, ma non siamo un edificio scolastico. Questi ragazzi hanno bisogno di certezze e di stabilità”.
Lily intanto racconta della sua vita, della sua fuga dalla guerra, e si vede che nell’aiutare i suoi connazionali ha trovato un senso. “Settimana scorsa abbiamo organizzato anche una festa in piazza, perché non è solo una questione di avere un rifugio, questi bimbi hanno bisogno di avere leggerezza”, racconta Lily, a sua volta appassionata di balli tradizionali ucraini. “Qui a Costanza i primi flussi sono iniziati nel 2014, ma non erano numeri significativi come adesso. La città con noi è stata accogliente e protettiva, ci può essere qualche problema, ma noi qui stiamo bene e chi è tornato indietro lo ha fatto per la lingua o per riunirsi ai familiari da qualche altra parte”.
Sull’accoglienza della Romania per i profughi ucraini si è tutto sommato detto poco a livello di stampa internazionale, ma è stato fatto un gran lavoro. “Nelle prime fasi del conflitto c’è stata una grande solidarietà, a Costanza e in tutto il Paese”, racconta il professor Răzvan Pantelimon, storico, docente universitario presso la Facoltà di Storia e Scienze Politiche dell’Università di Ovidius di Costanza, allo stesso tempo la memoria storica di una città dove si sommano gli strati di culture e passaggi di popolazione e un attento osservatore della Costanza di oggi.
“In principio son stati, prima ancora delle autorità, i cittadini semplici che aprivano le loro casa. Con il tempo, invece, l’opinione pubblica lentamente è cambiata, in particolare nel complesso mondo dei social network. Sono iniziati i discorsi contro i rifugiati, perché alcuni hanno macchine costose, vanno nei ristoranti, negli alberghi e anche per quella visione strana secondo la quale dovrebbero restare a casa a combattere. Non c’è nulla di forte, ma è cambiato un po’ il vento, particolarmente in rete, non nelle autorità e nei media. In Romania mancano formazioni politiche che attaccano direttamente i rifugiati, ma strisciante in rete c’è un disagio, una polemica. E la solita richiesta: aiutiamo prima i nostri vecchi e i nostri bambini”, racconta lo storico, che conclude: “Partiamo da una buona situazione, perché da noi la Balkan Route non è un argomento, né nei media, né nelle istituzioni e neanche nell’opinione pubblica. I rumeni hanno memoria delle loro migrazioni, per quanto per vie differenti, ma con queste persone non hanno sviluppato un’ostilità, perché sono tutto sommato pochi in Romania e nella stragrande maggioranza dei casi non si fermano qui. Però, da parte delle autorità, in questi anni, è mancata una chiara ed efficace comunicazione sul tema. Si sono concentrati sull’aspetto tecnico, burocratico, dell’accoglienza, trascurando quello della comunicazione, che è invece importante per far chiarezza nell’opinione pubblica e contrastare i discorsi d’odio e le fake news in rete”.
La Romania, rispetto alla rotta, ha vissuto il suo momento di celebrità nel 2020, quando l’arrivo di persone in Romania dai paesi limitrofi è aumentato del 238%, ma solo una minima parte si è fermata. In genere, dopo un periodo di riposo o con un lavoretto per tirar su un po’ di soldi, si ripartiva per tentare ‘il game’ lungo la rotta. Oggi i numeri in Romania sono in calo, ma resta un hub di passaggio per tutti quelli in fuga da fame e guerre, solo che sono guerre lontane.
Qui a Costanza la guerra non è lontana. Mentre la vita scorre tranquilla nei caffè e nei ristoranti della cittadina, con i turisti persi tra gli strati della storia, che fanno bella mostra nei mosaici e nelle chiese e moschee in città si possono incrociare molti militari statunitensi. La 101a divisione aviotrasportata dell’esercito Usa, unità di fanteria leggera, soprannominata “Screaming Eagles”, è stata riposizionata in Romania, vista la vicinanza della minaccia russa – così si esprimono i vertici militati del Patto Atlantico – così vicina al territorio della NATO, è il motivo per cui è stata inviata una delle divisioni d’assalto più elitarie, con alcune attrezzature pesanti.
Perché Odessa è là, oltre il mare, vicina e lontana, sospesa. Come le vite di Lily e di tutti gli altri.
In copertina: Siret, frontiera Romania Ucraina, bus in attesa della partenza. Foto di Daniele Napolitano.