Purtas e gli altri volontari della Fundacja Wosp, Wielka Orkiestra Świątecznej pomocy o Great Orchestra of Christmas Charity, stanno facendo l’inventario. Ospiti nel cortile della scuola di Michałowo, poco più di tremila abitanti a meno di trenta km dalla frontiera, da qualche settimana hanno allestito un presidio umanitario per raccogliere beni di prima necessità destinati a chi riesce a oltrepassare il confine con la Bielorussia. In uno dei due container sono stipati scatoloni di generi alimentari a lunga conservazione, acqua, barrette di cioccolato, latte in polvere, buste con i loghi della Croce Rossa e della Mezzaluna Rossa con il necessario per i pasti di emergenza di una giornata; nell’altro ci sono maglioni di lana, cappotti imbottiti, sacchi a pelo, coperte, kit di primo soccorso medico e tutto ciò che può servire a resistere a temperature che da giorni scendono abbondantemente sotto lo zero.
Ogni cosa è classificata e divisa per tipologia, in modo che sia più facile da recuperare di volta in volta, prima di ogni intervento, in una situazione imprevedibile da un momento all’altro.
La Great Orchestra è una delle più solide organizzazioni umanitarie della Polonia, e dal 1993 organizza ogni anno un evento musicale di beneficenza per finanziare progetti per le scuole e dotazioni per gli ospedali. In questa occasione ha scelto di non occuparsi direttamente delle attività di salvataggio nei boschi e dunque di non avere contatti diretti con i migranti in transito, ma di offrire una sorta di punto di contatto fra le altre associazioni, i media, le realtà internazionali politiche e umanitarie, e gli abitanti dei villaggi e dei paesi lungo il confine, coloro che materialmente agiscono sul campo, e sfidano controlli e denunce pur di portare un aiuto.
“Negli ultimi tempi c’è stata una crescente criminalizzazione della solidarietà– spiega Purtas Pur, coordinatore del presidio – e chi vuole rispettare il principio della solidarietà umana di fronte ad una crisi collettiva di queste proporzioni si mette a sua volta a rischio, come se stesse commettendo un reato.”
Negli ultimi giorni sono arrivate qua diverse Ong da mezza Europa, per capire la situazione e chiedere come poter dare una mano. “Noi rispondiamo sempre che l’unico modo per aiutare, in questo momento, è raccontare quanto sta accadendo – continua Purtas – perché abbiamo bisogno che si faccia pressione sul nostro governo affinché non ci siano più zone interdette agli aiuti e all’informazione, e si possa raggiungere il confine liberamente per salvare più persone possibili e documentare la situazione dal vivo.”
Dal presidio Wosp sono passati anche Dunja Mijatović, commissaria per i diritti umani del Consiglio d’Europa, e gli europarlamentari italiani Pietro Bartolo, Brando Benifei e Pierfrancesco Majorino, che hanno denunciato la presenza della zona rossa, preclusa agli osservatori internazionali ma soprattutto alle persone costrette a organizzare i soccorsi di nascosto, a causa delle pressioni che ricevono.
Per questo il punto di aiuto è diventato un approdo sicuro, dove oltre ai container di stoccaggio si offrono posti letto, docce calde e una sala riunioni per incontrarsi e organizzarsi senza troppo clamore.
Le due reti di riferimento sul territorio sono Grupa Granica e Fundacja Ocalenie: la prima, che letteralmente significa Gruppo di confine, è nata dall’associazione di diverse realtà che si occupano stabilmente di diritti umani e immigrazione, e che con la crisi migratoria sorta al confine con la Bielorussia nell’agosto scorso, e aggravatasi progressivamente nell’ultimo mese e mezzo, hanno deciso di lavorare insieme. L’altra, fondata nel Duemila, sostiene l’integrazione di rifugiati e immigrati in territorio polacco e gestisce dei centri di assistenza a Varsavia e Łomża, oltre a collaborare con scuole e istituzioni pubbliche a programmi di accoglienza e lotta alla discriminazione.
All’International Aid point Wosp vengono a rifornirsi anche i gruppi di medici e paramedici che si occupano dei casi più critici: nei boschi si incontrano persone con problemi di assideramento, oltre che vittime di infortuni dovuti a cadute, e situazioni di debilitazione generale come conseguenza della privazione di cibo e di acqua, o dell’assunzione di acqua dei torrenti, non potabile ma l’unica disponibile. I primi a organizzare una missione sanitaria sono stati gli operatori di Medycy na granicy, i medici di confine, che hanno terminato il loro incarico lo scorso 19 novembre e che non solo hanno documentato i numerosi salvataggi e le condizioni delle persone coinvolte, ma anche gli atti di intimidazione dei militari al confine. Ora il testimone è passato al personale sanitario di Pcpm, Polskie Centrum Pomocy Międzynarodowej o Polish center for international aid, specializzato in aree di crisi e con una lunga esperienza in Siria e Iraq nei campi profughi.
“Il vero problema è che nessuno, che si tratti di personale sanitario, di volontari, di organizzazioni internazionali o media, può accedere alla zona interdetta dal governo, una fascia che si estende lungo tutto il confine con la Bielorussia, e profonda circa tre km – spiega un’attivista – quindi i nostri contatti sono gli abitanti di queste aree, unici autorizzati a transitare, e in grado di segnalarci le persone, e a volte organizzare in autonomia delle raccolte di viveri e materiali da distribuire o da lasciare sotto gli alberi in posizioni concordate. Il tutto facendo fronte al rischio di essere denunciati, soprattutto se decidono di ospitare in casa un cittadino straniero o di accompagnarlo in auto fino alla zona di libero accesso, dove noi possiamo prenderlo in carico.”
Insomma è tutto un lavoro di rete, dove si vive in bilico fra la voglia di aiutare e la paura di pagarne le conseguenze.
“La cosa più grave è che non si sa con certezza cosa stia accadendo al confine in questo momento – aggiunge Purtas – perché a nessuno è permesso arrivare al filo spinato, capire realmente quante sono le persone ammassate lì e in quali, immaginabili condizioni. Il comportamento pur condannabile della Bielorussia non può giustificare trattamenti inumani da questo lato della barricata, come i respingimenti sommari, anche violenti, contrari a qualunque principio internazionale.”
Di notte, in questi piccoli paesi immersi nel freddo, qualcuno accende una luce verde in giardino o in casa, in modo che sia visibile delle finestre: è il segnale che si è pronti ad aiutare, che davanti a un essere umano non ci si volterà dall’altra parte.
I migranti che superano la “zona rossa” senza essere intercettati dalle forze di polizia o dall’esercito, sono poi accompagnati dai volontari delle organizzazioni nei centri di accoglienza e supportati anche dal punto di vista legale per l’ottenimento di un’assistenza provvisoria in nome della Convenzione europea dei diritti civili, che impone il non respingimento in Bielorussia.
Chi raggiunge questa fase è una minoranza rispetto alle centinaia di persone che restano bloccate lungo la frontiera, senza possibilità di tornare indietro e con scarse prospettive andando avanti. I casi valutati singolarmente sono pochissimi, e non importa se quasi tutte le persone che percorrono questa rotta provengano da paesi in guerra, dai quali è impossibile uscire legalmente con un passaporto valido e un visto Shengen che oggi non è mai concesso a un siriano o un iracheno.
L’ultimo rapporto pubblicato da Grupa Granica riporta che soltanto fra il 20 e il 28 novembre 532 persone, fra le quali 19 bambini, sono state supportate dai volontari. Nove sono state invece le segnalazioni di scomparsa di cittadini stranieri dei quali si sono perse le tracce nell’attraversamento del confine polacco-bielorusso. Oltre 70 invece i viaggi organizzati dalle associazioni del gruppo a chi ha chiesto assistenza umanitaria, medica e legale.
La situazione non è peggiorata da un giorno all’altro, ma di sicuro i numeri dello scorso anno, in termini di ingressi in Polonia e richieste di protezione internazionale, non sono paragonabili a quelli attuali.
Secondo i dati dell’Unhcr, nel 2020 il paese ha ricevuto 2 mila e 803 domande di asilo, per la maggior parte di cittadini russi, ucraini e bielorussi; di queste ne sono state accettate 392. Nel 2021, tra l’inizio di luglio e la fine di ottobre, le domande sono state 4 mila e 500, provenienti soprattutto da cittadini afghani, molti dei quali evacuati subito dopo la ripresa di Kabul da parte dei talebani, seguiti da bielorussi e iracheni. Dai dati rilasciati dall’agenzia di frontiera polacca, da agosto agli inizi di novembre sono stati più di 16 mila i tentativi di attraversamento del confine con la Bielorussia, contro i 120 dello scorso anno. La prima risposta del governo di Varsavia è stata l’istituzione dello stato di emergenza, entrato in vigore lo scorso 2 settembre.
Il 14 ottobre il Parlamento polacco ha poi approvato un emendamento alla legge sull’immigrazione che, di fatto, autorizza i respingimenti sommari alla frontiera per chi è sorpreso ad attraversare illegalmente il confine, con conseguente divieto d’ingresso per un periodo compreso fra sei mesi e tre anni.
Il nuovo provvedimento consente anche di lasciare in stand-by le domande di protezione presentate dagli stranieri sorpresi immediatamente dopo l’ingresso irregolare. L’unica eccezione per la valutazione della domanda è prevista per chi giunge direttamente da un paese in guerra, senza aver fatto tappe intermedie; situazione che non può verificarsi, nello specifico, in assenza di possibilità di avere un visto regolare per l’Europa direttamente dal paese di provenienza.
Il 30 novembre scorso il ministro dell’Interno Kamiński ha confermato anche il divieto totale di accesso a tutta l’area di confine con la Bielorussia, fatta eccezione per i residenti e chi lavora e studia al suo interno. Il provvedimento è entrato in vigore il primo dicembre con validità di tre mesi, e rappresenta un’estensione dello stato di emergenza. Le proposte di modifica presentate dal Senato per consentire ai media il libero ingresso sono state respinte: ufficialmente, secondo quanto riferito dal ministero, per consentire alle guardie di confine di lavorare meglio, e soprattutto di facilitare la costruzione, che dovrebbe cominciare a breve, della barriera che sostituirà l’attuale filo spinato posto fra i due paesi.
Motivazioni che sembrano simili a quelle che hanno portato a rifiutare l’aiuto di Frontex, l’Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera, proposto dall’Unione Europea, per mostrare di essere in grado di fronteggiare la situazione, e di fatto essere liberi di respingere sommariamente senza osservatori esterni. Ma le parole di condanna dell’Ue, alle quali è seguito l’annuncio di nuove sanzioni, sono state tutte per la Bielorussia, causa di questo ricatto politico definito più volte un attacco deliberato e non una crisi migratoria alle porte più esterne dell’Unione.
Nei confronti della Polonia l’Ue non ha saputo finora imporre soluzioni, nonostante l’urgenza di un intervento umanitario coordinato: perché questo ennesimo blocco di una frontiera è funzionale a tutti, anche se nessuno ne approva i metodi apertamente, ma neppure esplicitamente li condanna.
In copertina: foto di Ilaria Romano come tutte quelle presenti nell’articolo.