“Alif, ba, ta: chi sa dirmi una parola che inizia con ‘alif’?”. È una domenica mattina, e una ventina di donne etiopi ripassa le prime tre lettere dell’alfabeto arabo. Vivono in Libano da diversi anni, ma non hanno mai imparato a leggere in questa lingua: l’unica cosa che importa ai loro datori di lavoro è che capiscano gli ordini. Del resto passano la maggior parte delle loro giornate chiuse in casa ad occuparsi delle faccende domestiche. Le donne che incontriamo nel centro gestito da Amel, una Ong libanese che oltre a corsi di formazione offre anche supporto legale e advocacy, sono in realtà tra le più fortunate, perché hanno la domenica libera. Molte loro colleghe lavorano invece sette giorni su sette. Ma l’aspetto forse più preoccupante è la diffusione di violenze fisiche e verbali: se denunciano rischiano la deportazione. Insomma le condizioni di vita delle lavoratrici domestiche in Libano sono spesso di semi-schiavitù, come ha denunciato già nel 2011 Human Rights Watch.
Il sistema della “kafala”, l’origine di tutti i problemi
Sono almeno 250mila, provenienti da una ventina di paesi diversi (tra cui Etiopia, Filippine, Kenya, e Nepal). Lavorano fino a 18 ore al giorno, per 150 dollari al mese: se fino agli ’70 le lavoratrici domestiche erano un lusso che solo le famiglie più agiate si riservavano, oggi nella maggior parte degli appartamenti residenziali di Beirut accanto alla cucina è prevista una stanza di pochi metri quadrati (di solito appena lo spazio per il letto e un armadio) destinata appunto alla “maid”.
Si occupano delle faccende domestiche, ma anche della cura di bambini e anziani. Escluse da qualunque trattativa sindacale, non hanno un orario né un paga minima garantiti per legge. E in questi anni sono cresciute anche le denunce di violenza fisica e di molestie, casi spesso difficili da documentare, perché, come racconta un altro report di Human Rights Watch avvengono sempre “a porte chiuse”. Il 20% di loro, infatti, vive rinchiusa in casa, senza poter uscire. In molti casi il datore di lavoro sequestra il passaporto.
L’origine di tutti i problemi è uno: il permesso di soggiorno delle lavoratrici domestiche è legato allo “sponsor”, cioè alla persona fisica per cui lavorano. Il sistema, in vigore non solo in Libano, ma anche in Giordania e nei paesi del Golfo, è noto in arabo come “kafala”.
Il business delle agenzie di reclutamento
Nonostante il garante diretto sia il datore di lavoro, il sistema funziona grazie ad una rete di agenzie di reclutamento nei paesi di origine ed in Libano che fungono da intermediari e alle quali sia i migranti che i datori di lavoro pagano diverse centinaia di dollari di commissione.
Secondo i dati dell’Organizzazione internazionale del lavoro (ILO), oltre il 65% delle lavoratrici domestiche afferma di essere stata ingannata riguardo al tipo e alle condizioni di lavoro.
“È un rapporto di lavoro che troppo spesso parte da subito col piede sbagliato”, afferma Zeina Mezher, dell’ILO. In Libano, il contratto di lavoro tra la lavoratrice domestica e il datore di lavoro viene registrato davanti ad un notaio. Ed è spesso in questo momento che le lavoratrici scoprono che le condizioni di lavoro e di retribuzione non corrispondono affatto a quanto è stato loro promesso. Ma non hanno nessun margine di negoziazione: se rifiutano, sono obbligate a tornare nel paese di origine, dopo aver investito migliaia di dollari per il viaggio e il visto. E questo succede anche se hanno firmato un contratto con l’agenzia di reclutamento nel paese di origine, un contratto che in Libano non ha alcuna validità. “A questo si aggiunge il fatto che le agenzie di reclutamento spesso ‘consigliano’ ai datori di lavoro di trattenere i primi tre mesi di stipendio, come compensazione per i costi dell’agenzia stessa”, nonostante questa pratica sia considerata illegale, continua Mezher.
Quasi tutti paesi di origine delle lavoratrici hanno imposto ai propri cittadini il divieto di recarsi in Libano e in altri paesi dell’area, un divieto che è effettivo solo in presenza di accordi bilaterali tra il paese di destinazione e quello di origine. È il caso ad esempio dell’Etiopia, ai cui cittadini le autorità libanesi non rilasciano più i visti di ingresso dalla fine del 2018. Una politica considerata più dannosa che efficace dall’Ilo: “Non solo i divieti non fermano i migranti”, spiega Mezher, “ma rendono più pericoloso e costoso il loro viaggio”, e quindi più redditizio per gli intermediari. “Le politiche di contrasto allo sfruttamento – conclude – dovrebbero piuttosto avere come obiettivo primario gli interessi dei lavoratori e risolvere il problema del reclutamento”
Nessuna protezione per chi denuncia
Gli abusi da parte dei datori – e datrici – di lavoro sono endemici. Almeno il 50% delle “maid” lavora più di 85 ore a settimana e il 40% lamenta il mancato pagamento degli stipendi. Per andare a lavorare in un’altra casa le colf devono ottenere una lettera di manleva da parte del datore di lavoro. Se questi si oppone, di solito giustificandosi con la necessità di proteggere l’investimento fatto, cioè i soldi versati all’agenzia di reclutamento, le lavoratrici domestiche non hanno alternative: se decidono di scappare diventano automaticamente migranti irregolari, a rischio di detenzione e deportazione.
Sono previste solo tre eccezioni: violenza fisica, tre mesi consecutivi di mancati pagamenti, o l’obbligo – illecito – da parte dello sponsor di lavorare in un ambito diverso dal lavoro domestico, ad esempio in un ristorante. “Ma c’è un ostacolo enorme: come lo dimostri? Nel migliore dei casi è la parola di una donna straniera contro quella di un datore di lavoro libanese”, dice Ghida Al Andary di Kafa, una Ong libanese che si occupa di tratta e di violenza di genere. Paradossalmente, se una donna denuncia una violenza da parte di un datore di lavoro, rischia di essere incriminata e deportata, per aver lasciato lo “sponsor”. Kafa dispone di un centinaio di posti in case protetti per i casi più vulnerabili e offre loro anche un supporto legale: “Il problema è che abbiamo casi pendenti in tribunale dal 2010 e se nel frattempo le donne non riescono a trovare un nuovo sponsor diventano irregolari”, aggiunge Al Andary.
Il numero di lavoratrici domestiche ‘irregolari’ è stimato in 75mila: tra loro c’è chi ha trovato impiego in altri settori e chi lavora come “freelance” facendo le pulizie in più case, grazie ad agenzie di intermediari o ad una rete di conoscenze – un’opzione che è attualmente vietata dalla legge libanese ma che Kafa e altre organizzazioni auspicano che sia presto regolarizzata. Una speranza alimentata il marzo scorso dal nuovo ministro del Lavoro, Camille Abousleiman, che ha annunciato la creazione di un comitato per superare il sistema della “kafala”.
“Il lavoro domestico è lavoro”
“Il punto è che non si tratta di cambiare una legge, ma di smontare un intero sistema”, chiarisce Rahaf Dandash, attivista del Movimento anti-razzista (ARM). Il movimento, racconta Dandash, è nato nel 2010, quando alcuni video che documentavano le discriminazioni subite da alcune lavoratrici sono diventati virali. “In Libano muoiono due lavoratrici domestiche alla settimana”, afferma Dandash. “E non riusciamo quasi mai a capire se si tratta di suicidi o di incidenti sul lavoro, perché non ci si sono indagini”. Uno degli ultimi episodi in ordine di tempo è quello riportato da “This is Lebanon”, un’organizzazione attiva soprattutto su Facebook: il 9 aprile una donna etiope è morta dopo essere caduta dall’ottavo piano del palazzo in cui lavorava a Tripoli. Forse si è buttata, forse stava pulendo i vetri ed è caduta. O forse è stata spinta.
ARM conta oggi tra i 3 e i 400 membri e ha aperto un centro nel quartiere di Achrafieh dove si tengono corsi di lingua, di computer e di altre attività proposte dalle donne. Ma soprattutto le lavoratrici si riuniscono qui ogni domenica per organizzarsi. Anche quest’anno, in occasione della festa del Lavoro, le lavoratrici domestiche hanno in programma una manifestazione: non il primo maggio, perché per loro non è festa, ma la domenica successiva. E come ogni anno, la richiesta principale sarà l’abolizione della “kafala”, a cui si aggiunge una richiesta specifica: essere incluse nella legislazione sul lavoro, con diritti e garanzie come per le altre categorie di lavoro, perché “Anche il lavoro domestico è lavoro”. “Non a caso, i settori esclusivi da questa legislazione sono due: lavori domestici e agricoltura, professioni tradizionalmente femminili”, dice Dandash, sottolineando la componente femminista del Movimento anti-razzista.
L’esclusione dalla legislazione sul lavoro limita anche la possibilità per le donne di riunirsi in un’organizzazione sindacale: ci hanno provato nel 2015 con l’“Unione delle lavoratrici domestiche (DWU)”. Ma all’attivismo delle lavoratrici le autorità hanno risposto in modo preoccupante: nel dicembre 2016, Sujana Rana e Roja Limbu, tra le fondatrici dell’Unione, sono state arrestate e deportate. Originarie del Nepal, vivevano in Libano da 14 anni ed erano in entrambe in regola con i documenti. Ventidue organizzazioni, tra cui Human Rights Watch, avevano condannato l’arresto e ne avevano chiesto il rilascio: un appello caduto nel vuoto.
Da una costola della Dwu, si è quindi costituita l’Alleanza delle lavoratrici domestiche migranti. Nata con il supporto della Federazione sindacale internazionale e dell’Organizzazione internazionale del lavoro neanche questa è stata ancora riconosciuta dal ministero del Lavoro libanese, e si appoggia quindi a Fenasol, la federazione sindacale libanese.
Intanto le agenzie di reclutamento sembrano essere di nuovo un passo avanti, come racconta Al Andary: recentemente per una donna etiope che si è rivolta a Kafa è stato particolarmente difficile trovare un interprete, al punto che si sono dovuti rivolgere a qualcuno che si trovava in Etiopia. Il motivo? La donna era originaria di una regione particolarmente remota: “I reclutatori puntano proprio su questo”, afferma Al Andary, “cercano donne che vengono da regioni sempre più povere ed isolate, che non sanno nulla del Libano, che non parlano nessuna lingua a parte il dialetto locale e che quindi sono molto più vulnerabili”. Insomma, conclude, una modifica del sistema dello sponsor non può che partire proprio dal sistema di reclutamento.
Foto di copertina: donne originarie dell’Etiopia seguono una lezione di cucito al Centro Amel per lavoratori domestici migranti a Chiya, Beirut. (Foto di Daniela Sala come tutte quelle presenti nell’articolo).