“Chiudere le frontiere vuol dire distruggere il nostro sistema di protezione sociale”, ha affermato il presidente dell’Inps Tito Boeri il 4 luglio. Boeri ha spiegato, con una simulazione del rapporto annuale dell’Inps, che se i flussi di entrata dovessero azzerarsi per i prossimi 22 anni, al 2040 avremmo un saldo netto negativo di 38 miliardi per le casse dell’Inps (e cioè: 73 miliardi in meno di entrate contributive a fronte di soli 35 miliardi in meno di prestazioni sociali da erogare agli immigrati). Una presa di posizione che ha fatto discutere e che offre un buono spunto per tirare le fila del complesso discorso su immigrazione e economia.
OM: La previsione di Boeri è sembrata ad alcuni troppo semplificante. Quello che dice Boeri è tutto vero? C’è qualcosa di inesatto? Sono confermabili anche le proiezioni che ha fatto sul futuro?
FLM: Prevedere gli scenari economici e sociali futuri è per definizione incerto, per il gran numero di variabili in gioco. Ma le dinamiche demografiche richiedono molti anni per modificarsi, quindi a partire dalle tendenze attuali si può ipotizzare qualche scenario. Ed è su queste tendenze che si basano le previsioni Inps. Ad oggi, la minor età media degli stranieri rispetto agli italiani (33 anni contro 45) fa sì che gli immigrati abbiano un minor impatto sulla spesa pubblica (che in Italia è indirizzata fortemente verso sanità e pensioni, ovvero verso la popolazione anziana). Considerando le varie voci in entrata (tasse e contributi) e in uscita (quota parte per l’utilizzo dei servizi e del welfare), si può stimare un saldo positivo per oltre 2 miliardi di euro, stabile negli ultimi anni. Dunque, come sostiene il Presidente dell’Inps, oggi gli immigrati residenti in Italia (5 milioni, di cui 2,4 milioni occupati) danno un contributo sostanzialmente positivo a livello economico, fiscale e previdenziale. Certamente, però, questo meccanismo richiede una condizione: che i nuovi arrivi (260 mila nel 2016, soprattutto ricongiungimenti familiari e motivi umanitari) si integrino in tempi rapidi nel tessuto economico e produttivo (e quindi contributivo) italiano. Questo vale anche per i profughi che arrivano in Italia in maniera irregolare (180 mila nel 2016). In questo modo, il costo iniziale per l’accoglienza può tradursi in un beneficio economico e fiscale.
OM: Secondo i dati del vostro ultimo rapporto, nel 2014 i lavoratori stranieri erano 2,3 milioni e versavano 10,9 miliardi di contributi previdenziali, pagando la pensione a 640 mila italiani. Che valori ci potremmo immaginare per il 2024 ed il 2044 (se non chiudiamo le frontiere, ovviamente)?
FLM: Dall’inizio della crisi, nonostante gli ingressi in Italia per motivi di lavoro siano molto limitati, il numero di lavoratori stranieri ha continuato a crescere, superando quota 2 milioni nel 2011, così come è aumentata l’incidenza sul totale lavoratori, da 7,9 per cento nel 2009 a 10,5 per cento nel 2014. Questo aumento è dovuto, dunque, non all’arrivo di nuovi lavoratori dall’estero, ma all’ingresso nel mercato del lavoro di donne arrivate in Italia per motivi familiari o di persone entrate con permessi umanitari. Ipotizzando che il quadro normativo non cambi nei prossimi anni (non sono previste sanatorie né aperture agli ingressi per lavoro), si può prevedere che il volume di contributi versati dagli immigrati si attesti intorno agli 11-12 miliardi di euro all’anno.
OM: Ma questi lavoratori stranieri non stanno in questo modo, come si dice da più parti, rubando il lavoro ai lavoratori italiani?
FLM: Potrebbe sembrare così, confrontando (in modo superficiale) il numero di disoccupati italiani (2,6 milioni) e il numero di occupati stranieri (2,4 milioni). Tuttavia, pur ipotizzando l’idea (puramente teorica, dato che stiamo parlando di persone regolarmente residenti nel nostro paese) di mandar via tutti gli occupati stranieri, non risolveremmo il problema della disoccupazione: la maggior parte degli immigrati occupati trova lavoro come personale non qualificato (35,6 per cento), mentre tra gli Italiani questa quota scende all’8,2 per cento. Osservando i titoli di studio degli occupati, tra i giovani italiani il 30,7 per cento è laureato, mentre tra gli stranieri questa quota scende all’11,3 per cento. Gli italiani, dunque, tendono a fare (e cercare) professioni più qualificate, lasciando scoperti i lavori manuali (cura della persona, lavoro domestico, operaio, ecc.). Di conseguenza, tra i giovani italiani il 36,3 per cento svolge mansioni qualificate e tecniche e solo il 6,8 per cento è personale non qualificato: quasi esattamente l’opposto della situazione degli immigrati: 6,7 per cento qualificati e 35,6 per cento non qualificati. Per riassumere: la forza lavoro degli stranieri, ad oggi, non è concorrente a quella degli italiani, ma complementare.
OM: Se diciamo che gli stranieri fanno i lavori che gli italiani non vogliono, non stiamo comunque implicando un impatto negativo? Stando ai dati Istat, spesso gli immigrati in Italia, oltre che poco qualificati, sono sottopagati, il che riduce la dignità del lavoro e i salari…
FLM: È sbagliato dire che gli immigrati fanno i lavori che gli Italiani “non vogliono” fare. Non è una questione di volontà, quanto di sbocchi professionali legati alle competenze e alle carriere scolastiche e formative. È naturale che un giovane laureato in medicina ambisca a fare il medico anziché l’operaio o la badante. Ma, se consideriamo che attualmente, tra gli occupati di età 55-64 (coloro che andranno in pensione nei prossimi anni), il 30,6 per cento svolge lavori manuali (operai, artigiani e personale non qualificato), va da sé che nei prossimi anni servirà manodopera per svolgere quei lavori. Il tema del riconoscimento dei titoli e delle competenze rientra invece in un più ampio discorso sulla legalità, che deve valere per tutti – italiani e immigrati.
OM: Si è parlato di un “tesoro sommerso”: i migranti sfruttati per il lavoro in nero nei campi, nei cantieri e nelle case sono più di mezzo milione e producono miliardi. C’è chi ha detto che è questa incapacità di arginare il fenomeno dello sfruttamento lavorativo degli stranieri la vera falla del ragionamento di Boeri. Ma quanto ci perdiamo esattamente e come si può migliorare la situazione (ad esempio, che effetto avrà la nuova legge sul caporalato)?
FLM: A partire da alcune rilevazioni Istat, abbiamo stimato che nel 2015 gli occupati stranieri irregolari a livello nazionale fossero 558 mila, pari al 20 per cento degli occupati stranieri totali. L’incidenza maggiore sugli occupati stranieri è invece al Sud, dove gli irregolari rappresentano oltre un terzo (33,9 per cento). Nell’agricoltura è irregolare più di un terzo (36,8 per cento). Questa componente produce circa 12 miliardi di euro, pari a quasi un punto di Pil. Oltre alla mancata tutela dei diritti dei lavoratori e alla distorsione del mercato, lo sfruttamento lavorativo (in questo caso di manodopera immigrata) determina anche una perdita per le casse dello stato sotto forma di mancato gettito fiscale. Considerando il coefficiente della pressione fiscale fornito dall’Istat (43,6 per cento), si può stimare che il mancato gettito fiscale per le casse pubbliche sia di 5,5 miliardi di euro.
Questo dato testimonia come lo sfruttamento della manodopera immigrata danneggi non solo i lavoratori stessi – a cui sono negati diritti e tutele – ma anche il sistema economico nel suo insieme. A nostro avviso questo non toglie nulla alle previsioni del presidente dell’Inps: il contributo degli immigrati è positivo nonostante questo fenomeno. Contrastare l’irregolarità, semmai, porterebbe ulteriore beneficio per il sistema economico.
OM: Parliamo di “fuga di cervelli”: quanto ci costano tutti quei laureati e diplomati persi? E perché non riusciamo a valorizzare i laureati e diplomati stranieri che arrivano in Italia?
FLM: La segregazione occupazionale di cui abbiamo già parlato non consente di far emergere le eccellenze tra gli immigrati: il tasso di “sottoinquadramento” è molto alto (anche chi ha un titolo di studio elevato si ritrova a svolgere mansioni non qualificate) e la mobilità sociale ancora bassa (ci vogliono molti anni per cambiare professione o livello). Questo è un problema del nostro paese, incapace di attrarre manodopera qualificata. Non è così, invece, in Germania o negli Stati Uniti, dove l’immigrazione porta innovazione e nuove competenze (basti pensare agli ingegneri indiani o cinesi nella Silicon Valley). Inoltre, la capacità di attrarre immigrati qualificati è legata alla capacità di trattenere i giovani autoctoni migliori: da un nostro studio è emerso come i paesi con le maggiori opportunità riservate ai giovani in termini occupazionali, formativi e sociali (soprattutto quelli del Nord Europa) siano anche quelli che attirano più giovani laureati dall’estero.
OM: Gli immigrati fanno bene all’economia italiana, ma anche a quella dei paesi d’origine. Oltre ad aumentare il Pil e contribuire al sistema previdenziale in Italia, i lavoratori stranieri giovano ai paesi d’origine grazie alle rimesse inviate in patria. In media ogni immigrato ha mandato 1000 euro a casa nel 2016, con numeri da record per i bangladesi, che mandano quasi 5 mila euro annui. È corretto dire che in questo modo i lavoratori stranieri “si aiutano (anche) a casa loro”?
FLM: “Aiutiamoli a casa loro” è uno degli slogan più diffusi, secondo l’idea che gli investimenti nei paesi d’origine potrebbero rallentare i flussi migratori. Posto che questa teoria possa funzionare nel lungo periodo (mentre nel breve periodo potrebbe addirittura stimolare le emigrazioni, dando più risorse a chi desidera partire), bisogna considerare che questo principio richiede investimenti corposi e probabilmente poco popolari. L’Italia ad oggi investe circa 4 miliardi di euro in Aiuti Pubblici allo Sviluppo (Aps), cioè lo 0,22 per cento, ben lontano dagli obiettivi fissati dalle Nazioni Unite allo 0,70 per cento. Le rimesse inviate in patria dagli immigrati residenti nel nostro paese superano invece 5 miliardi (0,30 per cento del Pil). Con una battuta, possiamo dire che “in attesa dei nostri aiuti, sono gli immigrati ad aiutarsi da soli”.
Le rimesse continuano insomma ad essere uno strumento di sostegno alle economie dei paesi d’origine degli immigrati. L’impatto di questi flussi in molti casi supera il 10 per cento del Pil, ed è di certo superiore rispetto agli aiuti pubblici stanziati dai paesi occidentali. Emblematica la Moldavia, in cui le rimesse ricevute (1,4 miliardi) rappresentano quasi un quarto del Pil (23,5 per cento), mentre gli Aps si fermano al 5,8 per cento.
OM: Per concludere, una domanda di sistema. Come non perdere di vista i valori etici e morali dell’accoglienza se si imposta il discorso in termini di costi e benefici economici?
FLM: L’accoglienza di richiedenti asilo e rifugiati, oltre a un dovere etico, è un dovere giuridico sancito dalla Costituzione e dagli accordi internazionali. Allo stesso modo, l’integrazione degli immigrati può essere considerato un valore a prescindere dall’utilità economica.
Tuttavia, in questo momento storico, l’opinione pubblica ha generalmente una percezione negativa del fenomeno migratorio, visto come una minaccia che mette a rischio la sicurezza economica, sociale e culturale. Ciò non toglie che, ad oggi, il sistema di accoglienza presenti molte ombre: innanzitutto la distribuzione sul territorio (solo 500 comuni su 8 mila gestiscono progetti SPRAR) e i tempi di valutazione delle richieste. Sono due cause del sovraffollamento del sistema, con il ricorso continuo ai centri di emergenza (Cas). L’approccio della Fondazione Leone Moressa è quello di analizzare i numeri, i dati statistici ufficiali, per dare una lettura il più possibile scientifica della questione. In questo modo, intendiamo portare il dibattito su un terreno oggettivo e misurabile. Altrimenti, rimanendo su posizioni ideologiche (a favore o contro) si rischia di credere a qualsiasi teoria, anche se non supportata da dati reali.
Facciamo un esempio. Parlando di sbarchi e di sistema di accoglienza, si parla spesso di “emergenza” e di “sistema al collasso”. Tuttavia, se consideriamo il dato reale (170 mila persone accolte nei centri sul territorio) e immaginiamo di ripartirlo tra gli 8 mila comuni italiani, avremmo circa 20 migranti per ogni comune. Dunque, i numeri aiutano a capire la dimensione reale dei fenomeni e consentono di verificare i fatti in maniera seria. Questo dovrebbe essere il punto di partenza per qualsiasi analisi.
E se la questione demografica è la meno dibattuta, è forse invece la più rilevante per i prossimi decenni. Chiudendo le porte all’immigrazione, 22 dei 27 paesi dell’Unione subirebbero consistenti perdite di popolazione tra il 2015 e il 2050 e un ulteriore forte invecchiamento demografico. Per l’Italia, la diminuzione sarebbe di 8 milioni per la popolazione totale (-13,4 per cento), di 2,3 milioni per i bambini e giovanissimi sotto i 20 anni (-21,3 per cento), di 12,2 milioni (-31,7 per cento) per la popolazione attiva tra i 20 e i 70 anni. Per contro, la popolazione anziana, oltre i 70 anni, aumenterebbe di 6,5 milioni (+66,7 per cento), e l’età mediana della popolazione si innalzerebbe dagli attuali 46 a 54 anni.
La Fondazione Leone Moressa ha osservato la crescita demografica nelle province italiane negli ultimi 10 anni (2007-2016), evidenziando come complessivamente la popolazione italiana stia invecchiando e presenti quindi un saldo naturale (nati – morti) negativo. Il saldo naturale negativo degli italiani è compensato da quello positivo degli stranieri, che continuano a fare figli. Ancora più significativo il contributo dei nuovi arrivi immigrati (soprattutto ricongiungimenti familiari). Come ribadito dal Presidente Boeri, l’Italia oggi ha bisogno degli immigrati anche per ragioni demografiche. Tuttavia, i nuovi arrivi dall’estero non possono rappresentare l’unica soluzione al calo delle nascite, che invece richiede misure strutturali a favore dei giovani e delle nuove famiglie.
Foto di copertina: Tito Boeri al Festival dell’Economia (via Wikimedia).