L’ultimo sgombero del campo nel deserto
Accanto ad alcuni vecchi e malconci autobus bianchi e celesti, la guardia nazionale tunisina prepara il trasporto di decine di migranti. Li carica a bordo e li porta via da una distesa di sabbia su cui si delineano alcune tende bianche ridotte peggio dei pullman. È quello che è rimasto del campo di Choucha, nel sud della Tunisia, a metà strada tra la cittadina di Ben Guardane e il passaggio frontaliero con la Libia di Ras Jedir.
Allestito all’inizio del 2011 dall’Alto Commissariato Onu per i Rifugiati (Unhcr), il campo di Choucha è stato chiuso due anni dopo lasciando diverse decine di persone nel limbo di chi è senza identità documentata: c’è chi ha tentato senza successo di prendere il mare per andare in Europa, e chi si sente in pericolo e non vuole rientrare nel proprio paese di origine.
Il campo è stato oggetto di un tira e molla tra governo tunisino e Unhcr per diversi anni; nel 2014 le autorità di Tunisi avevano già tentato di smantellarlo, sino a quando lo scorso 19 giugno, cioè per ironia della sorte nella Giornata mondiale del rifugiato, l’esercito tunisino ha portato via le ultime decine di migranti rimasti. Il Ministero degli Interni tunisino non ha voluto rilasciare dichiarazioni, ma la motivazione ufficiale è che la zona dovrebbe diventare un’area di libero scambio economico.
L’area su cui sorgeva il campo, inoltre, è da sempre una zona critica dal punto di vista geopolitico. Ben Guardane, paese a pochi chilometri dall’ex insediamento, è uno dei maggiori centri di esportazione di “foreign fighters” tunisini. La Tunisia, infatti, è il primo paese per numero di combattenti che si sono uniti all’IS, che secondo le Nazioni Unite si aggirano tra circa le cinque e le seimila unità.
A mostrarmi il video dello sgombero del 19 giugno sul suo cellulare è Diarra Kalilone, 36 anni, cittadino della Costa d’Avorio. Ha passato a Choucha gli ultimi cinque anni della sua vita. Nel 2012 un autobus dell’Organizzazione Mondiale per le Migrazioni (Iom) lo ha evacuato dalla Libia dove aveva trovato rifugio sei anni prima: “sono scappato dal mio paese nel 2006 perché mio padre era rimasto ucciso durante la prima guerra civile”, racconta. “Anche mia madre ha tentato di lasciare il paese, ma non ci è riuscita; ora si trova in un campo profughi in Costa d’Avorio al confine con il Mali”. Dopo due mesi di viaggio clandestino attraversando tre paesi, è arrivato in Libia senza documenti e lì ha svolto diversi lavori in nero sino alla caduta di Gheddafi e al conflitto civile che ne è seguito.
La colonia di La Marsa
Incontro Diarra Kalilone pochi giorni dopo lo sgombero del campo da parte delle autorità tunisine. Sembra ancora incredulo, sbigottito di fronte all’ennesimo carico di incertezza che ora è rappresentato dalle candide mura e dagli infissi celesti di una colonia di proprietà del Ministero della gioventù tunisina a La Marsa, cittadina di mare a 18 chilometri a nord-est di Tunisi. “La vita al campo era dura, nel deserto il sole rendeva le tende invivibili, c’erano serpenti e scarafaggi ovunque. Vivevamo delle baguette che un cittadino libico ci portava quasi tutti i giorni”, mi spiega Diarra. “Sono rimasto anche dopo la chiusura del campo perché la mia domanda di asilo è stata rifiutata. Con la fine della guerra in Costa d’Avorio sono diventato un semplice migrante economico. Ma io ho ancora paura, non voglio tornare a casa, non mi sento sicuro. In Libia lavoravo in nero, ma qui per colpa della crisi è difficile trovare qualcosa”.
Il governo tunisino ha deciso di ricollocare a La Marsa 34 dei circa 40 migranti che ancora vivevano nel campo, dove dopo la chiusura decisa dall’Unhcr non c’erano più acqua corrente né cibo né elettricità. I 34 stranieri, quasi tutti provenienti dall’Africa centrale, possono entrare e uscire dalla colonia, ma l’ingresso è vietato ai giornalisti e ai civili. “Dormiamo in tre o quattro per camera, ma non sappiamo cosa sarà di noi”, racconta Diarra in una piazzetta a poche centinaia di metri dalla struttura in cui ora alloggia. “Li vedi questi vestiti? Me li hanno portati dei miei amici, altri mi danno i soldi per le sigarette. Questa situazione è insostenibile, come posso continuare a vivere così?”.
La sindrome da stress post traumatico e gli abusi a Choucha
Nella placida La Marsa, intanto, sembra tutto uguale a com’era prima del 19 giugno. È Ramadan, molti negozi sono chiusi, i pochi in attività sono sonnolenti e quasi vuoti. La quiete stride con la drammaticità delle storie che si concentrano nella colonia che guarda il mare. Il clima fra le autorità locali è teso, schiacciato fra i movimenti sociali incandescenti in varie parti del paese, lo stato d’emergenza che è in vigore dal 2015 dopo gli attacchi dell’IS a Sousse e a Tunisi, e il ritorno dei “foreign fighters” tunisini da Libia, Siria e Iraq.
Su una panchina accanto a noi c’è un uomo che dorme, con la faccia coperta da un cappello. Anche lui arriva da Choucha, anche lui vive nella nuova colonia. È un cittadino somalo. “Ha perso tutta la famiglia nel viaggio verso la Libia, è arrivato al campo ma non ha mai parlato con nessuno, credo che come molte altre persone che ho incontrato nel campo soffra di sindrome da stress post traumatico”, mi spiega Diarra.
La PTSD, sindrome da stress post traumatico, riguarda la maggior parte dei migranti che sono passati per il campo di Choucha. Lo conferma Raphael Delhalle, capo missione per la Tunisia di Medici Senza Frontiere, che ha fornito assistenza psicologica ai migranti di Choucha. “Molti di loro hanno subito forti choc a causa della guerra o delle torture da parte dei trafficanti che li hanno portati in Nord Africa. Ci sono diversi casi di depressione e abbiamo registrato anche episodi di autolesionismo”, spiega Delhalle. “La scelta di sgomberare il campo in poche ore si è rivelata un danno enorme per chi era sotto terapia”. L’azione dei militari è arrivata all’improvviso e nessuna delle organizzazioni umanitarie che operavano a Choucha è stata informata, se non a posteriori. “Le autorità non hanno scelto un percorso graduale, e quindi i nostri pazienti hanno visto le loro poche cose portate vie o distrutte”, continua Delhalle. “Anche se le condizioni erano miserevoli, quel posto rappresentava per loro l’unico punto di riferimento. Msf al momento non svolge attività nella capitale tunisina, quindi stiamo passando il testimone a Medicin du Monde affinché il loro percorso di riabilitazione psicologica possa continuare anche a La Marsa”.
Il campo di Choucha è sempre stato attentamente monitorato dalle organizzazioni per i diritti umani. Nel 2011 Amnesty International censiva 3.800 persone e condannava le “dure” condizioni da cui alcuni di loro erano fuggiti, facendo addirittura ritorno in Libia. Nel maggio dello stesso anno, Human Rights Watch aveva denunciato la morte di sei migranti uccisi negli scontri avvenuti a Choucha tra i richiedenti asilo, avanzando anche l’ipotesi che l’esercito tunisino fosse stato complice di alcuni attacchi contro gli occupanti del campo.
Negli ultimi anni l’Unhcr ha sempre difeso la chiusura del campo, sottolineando che i migranti a cui era stato rifiutato l’asilo erano stati sottoposti a una procedura impeccabile e trasparente. Nel 2014 un rapporto dell’Oxford Monitor of Forced Migration ha però rilevato diverse irregolarità nelle interviste che l’Alto Commissariato per i Rifugiati aveva fatto ai richiedenti asilo. Tra queste la mancanza di interpreti qualificati per alcune nazionalità; per questo, secondo il rapporto, i migranti provenienti dal Pakistan hanno dovuto sostenere le interviste in inglese e non nella loro lingua madre. Nel caso dei migranti provenienti dal Ciad, invece, l’ambasciata del paese d’origine ha assistito alle interviste, mettendo a rischio l’incolumità dei perseguitati politici.
A Choucha “era una situazione estrema”, racconta Chaka Konate, 39 anni, anche lui migrante da Khoroko, villaggio nel nord della Costa d’Avorio. A differenza di Diarra ha lasciato il campo di Choucha nel 2015 ed è andato a vivere a Tunisi, dove condivide un appartamento con alcuni amici. Lo incontro su Avenue Bourguiba, il viale portante del quartiere costruito dai francesi durante la colonizzazione e luogo simbolo della rivoluzione che nel 2011 destituì Ben Ali. Ce lo ricorda una pagina del New York Times che racconta il giorno della fuga del dittatore tunisino in Arabia Saudita, affissa nell’ascensore dell’hotel Carlton a pochi passi dal Ministero dell’Interno e dalla torre dell’orologio. “Sono arrivato nel 2011, mio padre è morto sotto i colpi dei ribelli allo scoppio della seconda guerra civile”, dice Konate. Ho attraversato il deserto verso il nord in due mesi e sono arrivato in Libia, dove ho tentato di prendere il mare ma sono stato fermato, espulso dal paese e portato nel campo di Choucha. La mia domanda è stata respinta perché io sono della stessa etnia del presidente ivoriano”.
Secondo quanto riportato nel rapporto Tunisia 2016 del Dipartimento di Stato americano, 300 persone erano rimaste nel campo dopo la chiusura nel 2013. La Croce Rossa ha documentato che il numero dei migranti era sceso a 98 nel 2014; di questi, 45 senza permesso di soggiorno avevano rifiutato di essere spostati in altri campi del paese, mentre gli altri 53 avevano fatto ricorso dopo che la loro richiesta di asilo non era stata accettata dall’Unhcr. Negli ultimi tre anni è stato sempre più difficile ottenere dati precisi, ma secondo le ricostruzioni della stampa locale, il numero delle persone rimaste si aggirava tra le 40 e le 50 unità: un dato confermato dai nostri interlocutori.
Chaka ha avuto il coraggio di andare via e provare a ricostruirsi una vita a Tunisi, lavora la pietra e realizza oggetti di artigianato. Li promuove tramite una pagina Facebook e sogna un giorno di aprire una sua attività. “Ora non posso farlo perché sono senza documenti”, ci racconta. “Io vorrei restare qui, non voglio più tentare di prendere il mare, ma vorrei avere la possibilità di lavorare e muovermi come un residente, senza nascondermi”.
Secondo i dati dell’Iom, le 350 mila persone (di cui 97 mila tunisini) che hanno lasciato la Libia tramite la Tunisia nel 2011 sono state per la maggior parte ricollocate o hanno fatto ritorno nel loro paese d’origine. Nel 2015 il numero dei migranti si attestava intorno allo 0,5% della popolazione, circa 56.500 persone. A questi si aggiungono i migranti irregolari arrivati tramite i trafficanti e che spesso lavorano in nero, i minori non accompagnati e chi arriva in Tunisia per ragioni medico-sanitarie. L’Observatoire Maghrébin des Migrations ha inoltre rilevato che gli sbarchi di migranti in Italia dalla Tunisia dal 2015 al 2016 sono passati da 569 a 820, con un aumento del 45 per cento. Di questi solo il 31 per cento è cittadino tunisino, mentre la restante percentuale arriva dall’Africa sub-sahariana.
Accordi e procedure
Lo scorso febbraio l’Italia ha firmato con la Tunisia un accordo-quadro per il contrasto dell’immigrazione irregolare, analogo a quello sottoscritto con la Libia, che prevede il rimpatrio dei cittadini tunisini arrivati sulle coste italiane e il rilascio di permessi solo per chi è già sbarcato e non per chi sbarcherà in futuro in Italia dalla Tunisia.
Come affermato nel rapporto 2016 della Maison du Droit et des Migrations, la legislazione tunisina sull’immigrazione, risalendo agli anni Settanta, è molto datata. Le leggi non sono dunque in grado di far fronte all’evoluzione delle migrazioni avvenuta in quello che non è più solo un paese di transito. Secondo l’Osservatorio Tunisino per gli Studi Strategici, infatti, dal 2010 la Tunisia può essere definitiva “stato di destinazione”. Ma l’ottenimento dei visti di lavoro è quasi impossibile a causa di procedure complicate e farraginose che coinvolgono più ministeri. Il governo tunisino non si fa carico delle spese di rimpatrio, mentre sono stati riportati vari casi di espulsione alla frontiera algerina di persone irregolari sul territorio, coinvolgendo talvolta anche rifugiati statutari. Accordi bilaterali firmati con alcuni governi africani, per esempio la Nigeria, permettono la permanenza senza visto per tre mesi, dopo di che è prevista una multa di 20 dinari a settimana – circa 8 euro.
“La Tunisia non ha ancora approvato una legge sull’asilo, in discussione da anni, e in aggiunta a questo, le autorità non riconoscono lo status di rifugiato. Pertanto anche i rifugiati statutari vivono in una situazione vulnerabile, privati della possibilità di lavorare regolarmente e accedere ai servizi”, “, dice un operatore umanitario che da anni si occupa di Choucha ma che preferisce restare anonimo. E ricorda che dopo la chiusura del campo di Choucha da parte dell’Unhcr nel 2013, il governo tunisino aveva promesso procedure speciali per i migranti di Choucha ai quali era stata rifiutata la richiesta di asilo nel 2011: “per esempio il rilascio di carte di soggiorno provvisorie e l’esenzione della penalità prevista in Tunisia per ogni settimana di soggiorno illegale nel paese. Queste facilitazioni non ci sono state”. La società civile tunisina e internazionale si è mobilitata per chiedere alle autorità tunisine e alle organizzazioni internazionali di trovare soluzioni durature che rispettino le preferenze e i bisogni individuali di ognuno. “È necessario che le autorità tunisine possano garantire l’ottenimento della carta di soggiorno per coloro che desiderano restare nel paese”, continua l’operatore. “Le organizzazioni internazionali responsabili sono chiamate a offrire soluzioni alternative per coloro che non possono rientrare nei loro paesi di origine e hanno sofferto discriminazioni e tentativi di espulsione alla frontiera in Tunisia”.
A differenza della maggior parte dei migranti passati per Choucha, Chaka e Diarra vogliono riprendere in mano la loro vita in Tunisia e trovare una stabilità dopo anni di violenza e incertezze. “Molte persone che ho conosciuto a Choucha sono arrivate sane e salve in Europa, di altre non ho saputo più nulla. Per questo io non voglio più prendere il mare”, dice Chaka. “Devono trovare un modo, è assurdo”, conclude Diarra. “La comunità internazionale si preoccupa di come fermare gli sbarchi in Europa, ma noi che invece vogliamo restare in nord Africa siamo condannati a una vita di stenti. Siamo condannati a non avere un futuro”.