Pubblicato originariamente su The Conversation
Il controllo dell’immigrazione è un fenomeno globale. I giovani che giungono alle frontiere dei paesi in cerca di sicurezza e stabilità sono soggetti ai capricci di «soluzioni» d’ogni sorta. Talvolta vengono accolti, altre volte respinti. In alcuni casi, scopriamo dalle nostre ricerche, si vedono offrire aiuto per poi essere rimpatriati appena raggiungono la maggiore età. Finiscono per vagare da un paese all’altro, oppure rinchiusi in centri d’accoglienza senza comprendere il sistema che ce li ha portati.
Fra i giovani che ogni anno arrivano nei paesi occidentali, molti sono minori non accompagnati. A volte gli viene concesso un permesso di soggiorno limitato, e possono quindi risiedere nel paese durante l’adolescenza. Ma poi devono andarsene. Può succedere quando un giovane diventa legalmente «adulto» (sul piano istituzionale e politico, all’età di diciott’anni) e perde quindi le protezioni e i diritti di cui ha goduto da minorenne.
Una volta esaurito il diritto d’appello/impugnazione, può intervenire il rimpatrio forzato verso il paese d’origine, dal quale poi — messi di fronte a condizioni di vita insostenibili e pericolose — molti giovani decidono di ripartire. Respinti da una regione del pianeta, vanno a cercare rifugio da un’altra parte, inseguendo quella vita migliore che continua a sfuggirgli.
Persi nel sistema
Il nostro studio ci ha portato a incontrare giovani che, dopo aver trascorso gli anni formativi in alcune città del Regno Unito, sono stati detenuti/arrestati e rimpatriati in Afghanistan. La pericolosità e l’assenza di prospettive del loro paese d’origine li ha quindi costretti ad abbandonarlo di nuovo. Temendo che un ritorno nel Regno Unito provocasse un nuovo rimpatrio, si sono messi in viaggio verso altri paesi, dell’Europa e non solo.
Pur non conoscendo le vere dimensioni del fenomeno (ma avendo un’idea del numero di rimpatri effettuati dal Regno Unito), riteniamo sia importante riconoscere le implicazioni dei percorsi migratori tracciati da questi giovani nel mondo. Abbiamo conosciuto giovani che dal Regno Unito si sono spostati in Europa per evitare il rimpatrio. Altri che, dopo essere stati rimpatriati in Afghanistan dal Regno Unito, sono tornati in vari paesi d’Europa a chiedere nuovamente asilo per gli orrori e alle persecuzioni che hanno subito dopo il ritorno forzato. Alcuni hanno tentato di raggiungere l’Australia, e nel farlo sono rimasti intrappolati in un’altra piega del sistema d’asilo globale.
L’Australia delega il controllo delle sue frontiere ad altri paesi, come l’Indonesia, che ha allestito diversi centri di detenzione per immigrati. Centri che dovrebbero aiutare a registrare, proteggere e trovare «soluzioni durature» per queste persone senza che mettano piede sul territorio australiano. E poco importa che la capacità dell’Indonesia di svolgere questo ruolo in modo umano sia [quantomeno] discutibile. La realtà è che i richiedenti asilo vengono trattenuti a tempo indeterminato.
Un messaggio dall’Indonesia
Abbiamo parlato con due ragazzi che si trovano in questa situazione. Ecco come descrivono le loro condizioni di vita: sovraffollamento, scarsa igiene, detenzioni infinite e nemmeno l’ombra di una «soluzione duratura». Dopo aver trascorso gli anni formativi in una città delle Midlands inglesi, sono oggi cosiddetti «cittadini globali del mondo», e non possono reclamare alcun diritto presso quel governo britannico che pure ne è stato il «genitore istituzionale».
Jamal, un hazara di 23 anni, spiega che si è sentito dimenticato:
La procedura è lenta, sono già nove mesi che aspetto. Nessuno chiede di noi, non ci sono colloqui, non succede niente. Qui il nostro futuro è un’incognita. A poco a poco sto perdendo le speranze, e comincio a preoccuparmi per tutto. Non so cosa sta succedendo, quanto ci metteranno a decidere se mandarmi da qualche altra parte. Non so cosa mi aspetta.
Abdul ha 25 anni, e dopo averne passati più di sei nel Regno Unito è stato rimpatriato in Afghanistan, dove ha cercato di sopravvivere. Ma la sua incolumità era sempre più a rischio, e così ha deciso di ripartire per un luogo più sicuro. Come Jamal, anche lui è finito in Indonesia, dove da due anni vive rinchiuso in un centro di detenzione per immigrati.
Abbiamo chiesto ragguagli sulla situazione indonesiana ad alcune importanti organizzazioni internazionali, le quali ci hanno confermato che è pressoché impossibile stabilire una media del tempo necessario a elaborare una richiesta d’asilo: può trattarsi di un paio di mesi, così come di un paio d’anni. Le procedure di questo sistema globale non sono sottoposte a monitoraggio né trasparenti, e questo nonostante la Convenzione delle Nazioni Unite sullo status dei rifugiati vieti la detenzione a tempo indeterminato per i controlli sull’immigrazione.
Che dire poi della mancanza di responsabilità mostrata dal Regno Unito in questi casi? Un paese che accoglie dei bambini vulnerabili e poi, appena compiono 18 anni, si disinteressa completamente del loro benessere sul lungo periodo. Se la «soluzione duratura» per i minori non accompagnati è la detenzione infinita in un avamposto sperduto del mondo, quali sono le prospettive per il futuro dell’umanità?
Traduzione di Matteo Colombo