Cosa lega i recenti nubifragi in Germania, le ondate di calore e gli incendi forestali in Italia, la desertificazione che avanza dal Sahel, la penuria di pesce negli oceani, le piroghe verso le Canarie e i naufragi nel Mediterraneo? Fenomeni diversi eppure correlati, spesso presentati con retoriche allarmiste e spaventevoli, soprattutto in Europa, sintomi di un cambiamento più grande, che riduciamo a climatico, ma che è intimamente legato alle disuguaglianze strutturali di un capitalismo globale, i cui effetti ricadono sul locale. Dove per locale si intendono tutte le regioni del mondo.
Per decentrare la prospettiva, proviamo a guardare l’intensificarsi di questi fenomeni estremi dall’altra parte del confine, in uno dei paesi più ricchi di risorse e potenzialità eppure più a rischio di fuga dei giovani, che combattono contro la siccità che rende aride le terre e i laghi, che porta alcuni a rischiare la vita nelle lunghe traversate verso le Canarie o nel Mediterraneo centrale. L’immagine si posiziona in Senegal, precisamente a Dakar e St. Louis. A ogni luogo il suo silenzio, ad ogni storia le sue voci. Per provare a comprendere – attraverso le parole di Madame Mbaye, Habib Fall, Feugudjaay, Omar e Aliou – come la relazione tra cambiamento climatico, migrazione, degrado ambientale e disuguaglianze sociali entri in modo prorompente nella loro più intima quotidianità.
Tra gli anni ‘70 e ‘80, tutto il Sahel è stato colpito da una terribile siccità, spingendo la popolazione rurale che viveva all’interno del Senegal a spostarsi verso le aree costiere, dove l’umidità dell’aria sembrava continuare a supportare l’agricoltura di sussistenza. Tuttavia, l’aumento della pressione demografica sulle coste portò a un eccessivo sfruttamento del suolo e della falda freatica che alimentava l’area fertile che abbracciava tutta la costa senegalese, dal Capo Verde fino a Saint Louis – i Niayes – trasformando una terra precedentemente fertile e abbondante in un territorio afflitto dalla siccità e dalla fame. Gli alberi che popolavano un tempo la grande foresta costiera iniziarono a seccarsi, e quelli che restavano venivano abbattuti dalla crescente popolazione di questa zona, per soddisfare il proprio fabbisogno di legname per cucinare o per costruire imbarcazioni. Così, mentre le condizioni climatiche divenivano sempre più difficili anche per l’agricoltura, a fronte di un mancato investimento nell’aggiornamento tecnologico, la scomparsa degli alberi esponeva le coste a un’erosione marina incontenibile. Questo sovrasfruttamento delle aree costiere, sia nella loro componente terrestre che marina – la pressione demografica costiera ha significato, infatti, anche un’intensificazione della pressione sulle risorse ittiche – ha portato a un progressivo depauperamento delle risorse naturali di un’area un tempo fertile, ricca e abbondante.
Nei Niayes a nord di Dakar si trova il Lago Rosa, che negli anni ‘70 e ‘80 rappresentava un importante bacino di attrazione per le migrazioni interne, richiamando lavoratori che aspiravano ad entrare nell’industria del sale o nel settore turistico, essendo il lago un elemento di interesse naturalistico, ma anche, a partire dal 1979, internazionalmente rinomato per l’arrivo della famosa corsa Parigi-Dakar.
Madame Mbaye, una bella signora vestita di un giallo solare, tenendo d’occhio il bimbetto che le sgambetta attorno, ricorda di avere iniziato a lavorare qui all’inizio degli anni ’80, e di avere incontrato qui suo marito. Entrambe le loro famiglie, originarie di Touba, erano emigrate nella periferia di Dakar nel corso degli anni ’70. Giornalmente entrambi si spostavano verso il lago, lui per raccogliere il sale e lei per vendere cibo ai minatori, accompagnando la zia. Dopo che si sono sposati nel 1986, anche lei ha iniziato a lavorare nell’industria del sale, trasportando il prezioso minerale dalle rive del Lago, dove il marito lo scaricava, fino all’area dove veniva lavorato, fatto asciugare e poi insaccato per essere caricato sui camion. “Ogni giorno portavo 50-70 ceste di sale sulla testa, avanti e indietro per centinaia di metri, e ognuna pesava circa 25 kg, ma poteva arrivare anche a 40 kg, con un guadagno di 25 franchi CFA a cesta”. Il che significa un salario giornaliero complessivo di circa 2000 franchi CFA (3 euro). Il marito, invece, con le sue ferite da esposizione al sale ben visibili su braccia e gambe, trascorre ore immerso fino al petto nell’acqua rosa, calda e salata – “385 grammi per litro di acqua, mentre nel mare ce ne sono appena 35!” sottolinea lui stesso – per estrarre il sale che la moglie trasporta, contribuendo anche lui al reddito familiare giornaliero con altri 2000 franchi CFA.
Entrambi ricordano che negli anni ’80 il valore del sale era più alto e “c’erano più opportunità di lavoro, inoltre il lago era molto più ampio ed era meno salato, tant’è che si poteva anche pescare” sottolinea la donna, ma l’eccessivo sfruttamento e il perdurare della siccità lo hanno prosciugato sempre più, portandolo a restringersi e rendendo anche meno proficua la raccolta di sale, che oggi è ben poco regolamentata, esponendo così i lavoratori a una competizione incontrollata da parte di nuovi migranti che continuano ad arrivare nell’area da diverse zone del paese.
Fino al 2007 gli abitanti dell’area trovavano grandi opportunità di impiego anche nel turismo, essendo il Lago il luogo di arrivo del famoso rally Parigi-Dakar, che richiamava non solo tecnici e piloti, ma anche tanti turisti. In seguito all’aggravarsi dell’instabilità geopolitica nell’area mauritana, il rally ha cambiato rotta e l’intera economia turistica del lago è crollata, aggravando enormemente le condizioni di vita di tutta la popolazione locale. Per i lavoratori del sale, infatti, i turisti rappresentavano una fonte di reddito complementare, fornendo loro brevi tour del lago negli stessi barchini usati per la raccolta del sale, vendendo loro piccoli oggetti, o talvolta semplicemente ricevendo un po’ di elemosina.
Qui l’agricoltura viene praticata ancora oggi, ma le condizioni sono molto difficili e il terreno attorno al lago è caratterizzato da un’alternanza di aree aride, coperte di croste di sale, e piccoli campi dove vengono coltivati prevalentemente ortaggi per la commercializzazione e la sussistenza, puntellati da rudimentali pozzi o da piccoli crateri per la raccolta delle acque piovane, in paesaggio dall’aspetto lunare.
La migrazione interna non ha solo portato al sovrappopolamento e al sovrasfruttamento delle aree costiere – e i Niayes rappresentano un chiaro esempio della complessità delle relazioni socio ambientali che si sono venute a creare – ma ha anche creato, a partire dagli anni ’80, le condizioni per rendere più accessibile, soprattutto ai giovani, la decisione di cercare fortuna più lontano, guardando all’Europa.
Habib Fall, ad esempio, è uno di questi. Lo incontriamo sulla spiaggia di Guet Ndar, a Saint Louis, con giacca a vento, pantaloni e scarpe inzuppati di acqua e pesce. Guarda il mare attraversato dalle piroghe che scaricano casse di pesce, mentre ci racconta che lui in Europa ci ha vissuto diversi anni. Quando è arrivato a Marsiglia con un visto turistico era l’anno dei mondiali, quelli dell’86. Che nella canzone di Venditti assume la fisionomia di ‘Paolo Rossi era un ragazzo come noi’. E ancora ‘Sta crescendo come il vento questa vita tua/Sta crescendo questa rabbia che ti porta via/L’estate è nell’aria brindiamo alla maturità/l’Europa è lontana partiamo viva la libertà’. Habib, mosso dallo stesso istinto di tanti ventenni, sognava di ‘diventare Giulio Cesare’ (questo il titolo della canzone citata) e il fatto che la convenzione di Schengen non esistesse ancora (firmata nel 1990 ed entrata in vigore nel 1995) gli ha permesso di raggiungere Marsiglia in aereo, con un visto turistico, e da lì andare poi in auto a Genova con un amico.
Prima del cosiddetto “acquis di Schengen”, che istituisce lo “spazio (…) senza frontiere interne, in cui sia assicurata la libera circolazione delle persone” e al contempo irrigidisce ed esternalizza i confini per i non europei, non era così difficile per i senegalesi entrare in Europa. Molti riuscivano ad ottenere il visto per un lavoro stagionale, altri arrivavano con un visto turistico e cercavano poi un lavoro che gli permettesse di avere un visto regolare. Ne sono prova i tantissimi senegalesi emigrati grazie al supporto della confraternita sufi Mouridyya, giunti tra gli anni ’60 e ’90 in primis verso la Francia e le sue industrie automobilistiche, e poi in Germania, Spagna e Italia. Habib è dunque uno dei protagonisti delle “migrazioni muridi”, e insieme ad altri connazionali lavora dapprima tra Genova e Napoli come venditore ambulante, poi si sposta tra Foggia e la Sicilia, alternando la raccolta dei pomodori a quella delle arance. Nel suo miscuglio di buon italiano e spagnolo, Habib racconta sorridendo di esser stato un Modou modou, come in wolof sono chiamati i senegalesi emigrati in Occidente. Un termine celebrativo, che nell’immaginario locale corrisponde alla figura sociale di successo, ad una sorta di eroe contemporaneo che incarna la mobilità sociale. I Modou modou non sono solo quelli che ce l’hanno fatta, ma soprattutto coloro che forniscono un aiuto finanziario alle famiglie attraverso le rimesse, e ostentano la ricchezza nei loro ritorni temporanei, vestendosi e comportandosi ‘all’occidentale’.
Ma questo succedeva ieri, nei mitici anni ’80, quando Habib poteva viaggiare tra Genova e Madrid, dove ha anche avuto un figlio da una ragazza spagnola, con la quale però ha rotto i rapporti. Oggi la situazione è diversa, racconta, perché è costretto ad alzarsi all’alba per aspettare le piroghe in arrivo col pesce. Lui ne compra 4 o 5 (i migliori) che poi va a rivendere ai ristoratori o al mercato con un sovrapprezzo che gli permette di guadagnare circa 5 euro e con quelli sfamare la moglie e i 3 figli che vivono nell’entroterra. Quando gli chiediamo perché è tornato si fa scuro in volto: ‘In seguito ad un incidente d’auto, in Spagna, mi hanno messo un ferro nella gamba destra e allora mio padre mi ha ordinato di tornare a casa, dicendo che anche lui non stava tanto bene e minacciando di disconoscermi se fosse morto senza vedermi’. Così Habib si è ritrovato ‘incastrato’ a Guet Ndar, straziato dal desiderio di tornare in Europa ma consapevole che questa volta avrebbe dovuto tentare il gaalu looco, come in wolof definiscono la traversata in piroga verso le isole Canarie. Da quando, infatti, la Fortezza Europa ha rafforzato i controlli frontalieri nello stretto di Gibilterra, anche attraverso gli accordi Ispano-Marocchini del 2005, le nuove traiettorie dei migranti sono diventate irregolari e pericolose. E i rimpatri forzati sempre più frequenti. Habib ha tentato l’impresa mortale solo una volta, nel 2006, quando migliaia di senegalesi (ma non solo) hanno preso la via del mare, con i cosiddetti “barconi della speranza”. ‘Ho pagato 300.000 CFA (circa 400 euro), ma un incendio al motore ha fatto rovesciare la barca, molti sono annegati e io mi sono risvegliato sulle coste della Mauritania grazie a due pescatori che mi hanno salvato’.
Da quel momento, “Barça ou Barsakh” (l’Europa o la morte) – lo slogan coniato dai migranti clandestini che rischiano la vita per fuggire alla miseria – non è più il suo credo. Il terrore di ritrovarsi nell’Aldilà lo tiene inchiodato alla costa, ma non scalfisce la forte aspirazione di inviare i suoi figli in Europa. Dunque – gli chiedo – vorresti che tuo figlio diventasse un Modou modou? ‘Inshallah!’ risponde illuminandosi in viso. ‘Gli amici che hanno i figli in Europa si sono sistemati, perché con i soldi che inviano ci vive tutta la famiglia. Qui purtroppo non ci sono opportunità. E come dice un proverbio wolof: una busta vuota non rimane a terra’.
[Qui la seconda puntata: ].
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Le autrici e l’autore hanno potuto realizzare questa ricerca grazie al loro coinvolgimento come team di ricerca dell’Università di Bologna all’interno del progetto “End Climate Change, Start Climate of Change. A Pan-European Campaign to build a better future for climate induced migrants, the human face of climate change”. (2020-2023, CODE OF THE PROJECT CSO – LA/2019/410-153) con capofila WeWorld e cofinanziato dalla Commissione Europea nell’ambito del programma DEAR (Development Education and Awareness Raising).
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In copertina: Lago Rosa. Foto di Curioso Photography via Unsplash.