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Homepage >> Approfondimento >> Il diritto alla salute nei Cpr. 5 domande a Nicola Cocco

Il diritto alla salute nei Cpr. 5 domande a Nicola Cocco

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7 luglio 2025 - Open Migration
La Società italiana di Medicina per la Migrazione (SIMM) è un’organizzazione scientifica no profit dedicata alla promozione e alla protezione della salute e dei diritti umani. Fondata da professionisti della salute che operano all’intersezione tra sanità pubblica e migrazione, SIMM promuove politiche e pratiche sanitarie migliori per le popolazioni migranti, in particolare nei contesti di vulnerabilità ed esclusione. Il loro lavoro si concentra sull’integrazione della salute dei migranti all’interno del più ampio quadro della sanità pubblica e fanno attivamente campagne contro pratiche che minano la dignità e il benessere dei migranti.

Nell’ultimo anno, SIMM ha lanciato una campagna volta a certificare l’inidoneità dei migranti alla detenzione nei Centri di permanenza per il rimpatrio (CPR). Questa campagna invita i professionisti sanitari a rifiutarsi di certificare l’”idoneità” dei migranti alla detenzione, alla luce delle condizioni gravi e dannose presenti in questi centri, ampiamente documentate come fattori di rischio significativi per la salute fisica e mentale delle persone detenute. L’iniziativa ha attirato notevole attenzione all’interno della comunità medica, sollecitando i professionisti della salute a dare priorità alla salute e alla dignità umana dei migranti rispetto alle richieste istituzionali. Recentemente, SIMM ha esteso i propri sforzi con un nuovo appello alla Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri (FNOMCeO), chiedendo di assumere una posizione forte contro il coinvolgimento dei professionisti sanitari nei CPR, richiedendo che venga dichiarato che nessun professionista sanitario, agendo in conformità con l’articolo 32 della Costituzione italiana e con il Codice Deontologico Medico, possa prestare, né essere costretto a prestare, la propria opera professionale nei CPR al fine di consentirne il funzionamento, sia in Italia che all’estero, poiché i CPR mancano delle garanzie essenziali per le persone detenute e sono contrari all’etica professionale della cura.

Per sostenere questa iniziativa, abbiamo intervistato Nicola Cocco, medico specialista in malattie infettive, membro di SIMM, già consulente del Garante Nazionale dei Diritti delle Persone Private della Libertà Personale e attivista per l’abolizione della detenzione amministrativa.”

 

1. Quali sono i problemi di salute fisica e mentale che osserva più frequentemente nelle persone detenute nei CPR? In che modo le condizioni di detenzione contribuiscono al deterioramento della salute fisica e psicologica della persona migrante? 

Durante la mia visita ai Centri di Permanenza per il Rimpatrio (CPR) italiani, sia in qualità di consulente del Garante Nazionale dei Diritti delle Persone Private della Libertà Personale (Mauro Palma) sia come collaboratore di parlamentari e/o consiglieri regionali, ho sempre incontrato persone con problemi di salute. Problemi legati a malattie infettive, malattie cronico-degenerative e, soprattutto, problematiche di salute mentale. Questi problemi vengono segnalati ogni giorno anche dalle persone detenute nei CPR, ad esempio al centralino SOS CPR dell’associazione Naga e alla rete Mai più lager No ai CPR di Milano. Il contesto dei CPR amplifica le condizioni patologiche, peggiorando ad esempio i problemi dermatologici, a causa del forte degrado igienico-sanitario dei luoghi, o anche per la gestione inadeguata di malattie croniche come il diabete mellito e le sue conseguenze. Per quanto riguarda la salute mentale, la detenzione amministrativa di per sé è un fattore fortemente depressivo, ansiogeno e in alcuni casi genera vere e proprie psicosi. Tutti questi quadri si inseriscono in un contesto di degrado, sofferenza, violenza e abbandono, che spesso sfociano in disperazione, manifestandosi ad esempio con atti di autolesionismo e tentativi di suicidio. Da questo punto di vista, io credo che una deriva manicomiale stia prendendo piede nei CPR italiani, e questo nel Paese di Franco Basaglia rappresenta una vergogna sociale prima ancora che un’emergenza di sanità pubblica. Sono semplicemente luoghi patogeni e psicopatogeni. 

2. L’uso sistematico di farmaci psichiatrici è ormai ben documentato. Dal suo punto di vista, si tratta di una risposta clinicamente giustificata da reali esigenze terapeutiche, oppure di un modo per gestire e contenere il disagio psicologico causato dalla detenzione stessa? Quali rischi comporta questa pratica per la salute e la dignità delle persone detenute? 

Durante le mie visite, ho avuto modo di accertare che almeno il 70% delle persone migranti detenuti nei CPR assume almeno un farmaco psicotropo, a fronte (almeno in teoria) di uno 0% di diagnosi psichiatriche confermate e prese in carico come tali, dal momento che la normativa vigente stabilisce che le persone con “disturbi psichiatrici” non dovrebbero trovarsi nei CPR. Questo significa che la maggior parte di quel 70% riceve una sedazione pura e semplice. La sedazione nei CPR rappresenta un enorme problema medico-etico, poiché il personale sanitario dei centri, assunto direttamente dai gestori privati che hanno l’appalto, non possiede competenze psichiatriche per gestire e monitorare la maggior parte di queste terapie, che di fatto si traducono in mera sedazione. Questo sistema è funzionale e direi anche strumentale ai bisogni delle forze di polizia, per le quali è chiaramente preferibile un CPR sedato piuttosto che un CPR in protesta. L’aspetto drammatico è proprio questo: nell’uso e abuso improprio del farmaco psicotropo a fini sedativi convergono gli interessi del gestore, delle forze di polizia e, drammaticamente, anche delle persone detenute stesse. Esausti per le condizioni di vita nei CPR, spesso mi hanno detto “Dottore, vorrei solo non svegliarmi domattina”.  

3. Si può parlare di una deriva manicomiale dei CPR? In che modo le attuali pratiche di gestione sanitaria e l’uso di psicofarmaci rischiano di trasformare ulteriormente queste strutture, già nate con una funzione di contenimento e controllo, in spazi a vocazione psichiatrica? 

Come già detto, la normativa non prevede la possibilità di trattenere nei CPR persone con problemi di salute mentale. Ciò è indicativo della consapevolezza del sistema di detenzione-esclusione dei CPR di non poter rappresentare un luogo di cura per le persone con problemi di salute mentale (tra i quali, a mio avviso e dal punto di vista della salute pubblica e della medicina penitenziaria, andrebbero inclusi anche i problemi di tossicodipendenza). Invece, le persone con malattie mentali o che sviluppano sintomi e patologie mentali anche complesse durante la detenzione sono presenti in numero considerevole in tutti i CPR ogni giorno. Questo nonostante il rinvio spesso inefficace a valutazioni psichiatriche specialistiche e, peggio ancora, il ricorso a collaborazioni ad hoc con psichiatri del Servizio Sanitario Nazionale (SSN) che entrano periodicamente nei CPR, normalizzando di fatto la presenza di persone con disagio mentale nei centri stessi. Per citare Franco Basaglia, la somma di sbarre, psicofarmaci e “tecnici” (psichiatri) non fa un “detenuto felice”, ma dà luogo a un manicomio. In questi termini ribadisco che c’è una deriva manicomiale nei CPR italiani, che può essere risolta solo chiudendoli e abolendo la detenzione amministrativa. Questi luoghi non possono essere luoghi di cura psichiatrica, perché sono di per sé psicopatogeni.

4. In qualità di medico, quali sono le più gravi implicazioni etiche, deontologiche e legali del notificare o dichiarare l’idoneità medica alla detenzione nei CPR, date le condizioni all’interno dei centri?

Per essere inviati nei CPR, la legge prevede che i migranti debbano essere valutati da un medico del Servizio Sanitario Nazionale (ad esempio in un pronto soccorso) e certificati come “idonei” alla vita nel CPR stesso. Questo aspetto, pur essendo presentato dalle istituzioni come una tutela delle persone più vulnerabili (con una strumentalizzazione del concetto di vulnerabilità che persiste ad esempio nella gestione dell’invio delle persone ai centri istituiti per l’Accordo Italia-Albania), di fatto chiede a medici che non conoscono le persone o i centri a cui sono destinate di avallare un percorso di detenzione-espulsione. Le caratteristiche di questa valutazione, che ad esempio non prevedere praticamente mai il consenso informato e nemmeno la mediazione linguistico-culturale, la configurano di fatto non come un atto medico, ma come un nihil obstat richiesto dalla polizia. Ciò mina numerosi principi etici della medicina, dall’indipendenza del professionista alla tutela della salute come obiettivo primario del lavoro medico. Inoltre, alla luce delle evidenze di patogenicità e psicopatogenicità dei CPR e della detenzione amministrativa, sorgono seri dubbi sulla legittimità etica di poter rilasciare certificati di idoneità per l’invio in centri che sono stati definiti internazionalmente “ambienti di tortura”. L’articolo 32 del Codice Deontologico Medico italiano prevede espressamente che il medico debba proteggere il proprio paziente, soprattutto se vulnerabile, da luoghi che ne mettano a rischio la salute e la dignità umana. Oltre a queste importanti implicazioni etiche, sorgono anche dubbi medico-legali: qual è la responsabilità, ad esempio, del medico che rilascia un certificato di idoneità alla vita nel CPR per una persona che dopo pochi giorni manifesta un problema di salute, anche grave, o addirittura atti di autolesionismo o di suicidio (come purtroppo abbiamo avuto modo di vedere negli ultimi anni)? È una domanda a cui i magistrati e le associazioni mediche dovrebbero rispondere. Come SIMM, ASGI e Rete Mai più lager No ai CPR, da un anno abbiamo lanciato una Campagna per i medici “certificatori” a cui chiediamo, sulla base delle richieste sopra descritte, di considerare non idonei tutti i migranti che vengono portati da loro, poiché nei CPR la loro salute e la loro vita sarebbero a rischio.

5. Qual è stata la risposta della comunità medica, e più in generale del settore sanitario, all’appello della SIMM di rifiutare qualsiasi forma di coinvolgimento professionale che supporti il funzionamento dei CPR, compreso il rilascio dell’idoneità medica alla detenzione? L’appello ha contribuito ad accendere il dibattito pubblico e a sensibilizzare l’opinione pubblica sui gravi problemi di questi centri?

Sia la già citata Campagna per i medici “certificatori” , sia il recente appello che come SIMM abbiamo rivolto alla Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici, Chirurghi e Odontoiatri (FNOMCeO) hanno come scopo principale la sensibilizzazione degli operatori sanitari sulle enormi criticità presentate dal sistema dei CPR e della detenzione amministrativa. Questo ci ha permesso di portare la discussione in numerosi luoghi in cui sono emerse le perplessità dei medici italiani, a partire dai pronto soccorso, dai reparti medici coinvolti nelle visite di idoneità, fino alle università e alle organizzazioni professionali e sindacali. Mi auguro che il recente sostegno che la FNOMCeO ha dato al nostro appello diventi una guida autorevole per il coinvolgimento degli Ordini dei medici, che rappresentano i massimi custodi dell’etica medica in questo Paese. Ovviamente stiamo ancora parlando di numeri molto piccoli rispetto a un’opinione pubblica che, condizionata da una propaganda di razzismo istituzionale, è cieca di fronte alla sofferenza delle persone detenute nei CPR. Ancora troppo spesso sento dire da alcuni medici frasi come “se la legge me lo chiede, io do il certificato di idoneità, indipendentemente da quello che penso”, oppure “se sono lì dentro è perché hanno fatto qualcosa di male”. Questo è un periodo storico in cui solo una presa di coscienza radicale, come quella abolizionista sulla detenzione delle persone migranti, può proteggere l’etica professionale dal discorso populista e disumanizzante che sta prevalendo a livello internazionale. Il nostro appello è solo una voce, speriamo che possa trovare molti echi.

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