Domenica 23 luglio sono atterrati a Roma i leader di buona parte dell’area MENA in occasione della cosiddetta ‘Conferenza sulle migrazioni e lo sviluppo’. Tra questi, i capi di Stato di cinque Paesi: Emirati Arabi Uniti, Mauritania, Cipro, Libia e Tunisia. Nelle foto ufficiali, Meloni appare seduta al centro del tavolo dei negoziati, tra il presidente emiratino Mohammed Bin Zyed e il presidente tunisino Kais Saied. Saied, protagonista del colpo di Stato del 25 luglio 2021, esattamente due anni fa, è in prima linea anche negli scatti di fine conferenza, in piedi accanto al terzetto Meloni, Salvini, Tajani. Poche ore dopo, il Capo di Stato della Tunisia è l’unico a venire ricevuto al Quirinale. Gli scatti della stretta di mano con Sergio Mattarella in nome dell’amicizia tra i due Paesi vengono immediatamente ripubblicati dalla pagina della Presidenza della Repubblica tunisina, che ringrazia l’Italia per “i nostri valori comuni”.
Sarebbe stato proprio Kais Saied a lanciare l’idea di una conferenza internazionale sulle migrazioni, che inizialmente si sarebbe dovuta tenere in Tunisia, si mormorava fino a qualche settimana fa sui media locali. “Saied ha proposto a Matteo Piantedosi, in visita a Tunisi, di organizzare presto un vertice dei capi di Stato e di governo dei Paesi interessati, compresi i Paesi di origine dei migranti, per decidere le misure da adottare”, scrive il media tunisino Tunisie Numérique il 15 maggio 2023, commentando una delle prime, numerose visite del governo italiano nel Paese nordafricano. Giorgia Meloni avrebbe quindi “accolto la proposta tunisina”, ha tenuto a ribadire il presidente Saied nella dichiarazione in arabo rilasciata a seguito del summit di Roma.
Dall’altro lato del Mediterraneo, intanto, le immagini delle politiche repressive nei confronti della comunità subsahariana in Tunisia vengono affiancate agli articoli sui fiorenti rapporti con l’Italia. Accompagnata dalla presidenta della Commissione Ursula Von Der Leyen e dal premier olandese Mark Rutte, Giorgia Meloni si recava per la terza volta nel giro di poco più di un mese in Tunisia a metà luglio, ottenendo la firma del controverso memorandum con l’UE. Un accordo che sarebbe stato firmato sulla base di un “principio di reciprocità”, ha ribadito più volte Von Der Leyen. Ma dietro le promesse di maggiori investimenti, in particolar modo in ambito energetico, aiuti macroeconomici e un vago programma di scambio Erasmus+ dedicato ai giovani tunisini, si nascondono politiche sempre più dure di controllo delle frontiere UE e nuovi finanziamenti a una maggiore militarizzazione del Mediterraneo centrale.
L’accordo dei compromessi
L’accordo, il cui testo (ancora vago prima dei tavoli tecnici) è stato reso pubblico e si può leggere qui, non fa riferimento ai 900 milioni di euro promessi alla Tunisia durante la seconda visita ufficiale della delegazione europea di giugno, quando il prestito al presidente Kais Saied veniva condizionato alla firma di un’intesa con il Fondo Monetario Internazionale. Ancora il 13 giugno, durante una visita presso la sede dell’FMI, il ministro degli esteri Antonio Tajani “sollevava a Washington la questione finanziaria della Tunisia”, portando avanti quella che il Financial Times ha definito “un’operazione di lobbying da parte italiana per conto della Tunisia”. Il patto Tunisia-UE è finito per costare 785 milioni di euro totali in fondi europei, rivela Euractiv: 150 milioni per un sostegno immediato alle casse del Paese, 105 riservati al dossier migratorio, 150 per l’implementazione del sistema di cavi sottomarini MEDUSA e infine 380 per il progetto energetico ElMed tra Italia e Tunisia.
Mentre l’UE cede di fronte al no del presidente Saied all’intervento dell’FMI, e finisce per concedere comunque un pacchetto di aiuti, a pagare il prezzo di questo memorandum considerato un “modello” da applicare “successivamente in altri Paesi terzi” è la comunità subsahariana in Tunisia. Tra coloro che oggi tentano di imbarcarsi nei dintorni del porto di Sfax, non ci sono più solo persone migranti originarie di diversi Paesi dell’Africa subsahariana, e in particolar modo dell’Africa dell’Ovest, recentemente arrivate nel Paese con l’idea di attraversare il Mediterraneo, ma c’è ormai anche chi da anni risiede, lavora o studia in Tunisia e sceglie di accelerare il proprio progetto migratorio per sfuggire all’attuale ondata di violenze e arresti nei confronti della popolazione nera.
A partire dal discorso del presidente tunisino dello scorso 21 febbraio – quando ha parlato pubblicamente di “minaccia di sostituzione etnica”, ricalcando la teoria del complotto del grand remplacement – la retorica sovranista di Kais Saied non è infatti rimasta senza conseguenze. Dopo una prima ondata di aggressioni nei confronti della comunità nera in Tunisia a marzo, tra giugno e luglio la tensione ha continuato a salire in particolar modo nella città di Sfax, polo industriale del Paese, ma anche principale porto di partenza per chi si imbarca verso Lampedusa.
Negli ultimi mesi sono sempre di più i subsahariani che si sono spostati a Sfax e tentano di imbarcarsi. A raccontarlo sono le cifre. Durante la settimana che ha seguito la firma del memorandum, quella tra il 17 e il 23 luglio, l’Italia ha registrato il numero più alto di arrivi via mare settimanali dall’inizio del 2023 (8.056).
La campagna anti-migranti
La morte di un quarantaduenne tunisino durante la notte tra il 3 e il 4 luglio dopo una rissa con un gruppo di giovani subsahariani, sostengono le autorità tunisine, ha dato il via a una sorta di punizione collettiva nei confronti della comunità subsahariana per le vie della città di Sfax. L’informazione ha fatto il giro del web dopo che un deputato dell’attuale parlamento, Tarek Mahdi, ha ricondiviso il video dell’aggressione. “A distanza di qualche settimana, però, sono state rilasciate pochissime informazioni ufficiali sul caso, a parte l’arresto di tre uomini camerunensi che si ritiene siano coinvolti nell’omicidio”, riporta il media indipendente Inkyfada.
Da allora, centinaia di subsahariani – molti dei quali provenienti da Costa d’Avorio, Camerun, Ghana, ma anche Sudan – si ritrovano in strada, senza alloggio né possibilità di lavorare, e senza alcun tipo di assistenza da parte delle organizzazioni internazionali, nonostante molti di loro siano dotati di un tesserino UNHCR in quanto richiedenti asilo o rifugiati. Come già accaduto a marzo, le autorità hanno ricordato l’esistenza di una vecchia legge del 2004 – mai applicata – che punisce con il carcere qualsiasi forma di aiuto a persone in situazione di irregolarità, considerato favoreggiamento. Così Sfax si è spaccata: da un lato chi organizza ronde per “farsi giustizia da sé”, dall’altro la rete solidale della società civile.
La firma durante le deportazioni
In un contesto di abusi e prevaricazioni sempre più frequenti da parte delle forze di polizia, lo stesso Ministero dell’Interno ha legittimato e alimentato una vera e propria “caccia al migrante”. Proprio nei giorni precedenti la firma del memorandum UE-Tunisia, centinaia di subsahariani sono stati sistematicamente deportati alla frontiera con la Libia e l’Algeria senza acqua né cibo, in zone militari dove l’accesso è consentito solo se muniti di un’autorizzazione speciale rilasciata dal ministero della Difesa, e rende quindi estremamente difficile ai giornalisti presenti in Tunisia informare in maniera imparziale e verificare le informazioni su ciò che vi accade, come denunciato dalla NAFCC, l’associazione dei corrispondenti esteri in Nord Africa.
Anche per questo, le notizie che arrivano dal deserto a Sud-Est e a Sud-Ovest sono quelle condivise dai migranti stessi, con l’eccezione di un servizio di Al Jazeera. Questa zona grigia ha permesso allo stesso governo libico di sfruttare la tragedia dei migranti deportati alla frontiera, come mostra questo video di propaganda pubblicato dal canale del Ministero dell’Interno di Tripoli ventiquattro ore dopo la firma del memorandum UE-Tunisia. Ad accedere alla no man’s land dal lato tunisino, così come dal libico, è solo l’Organizzazione Internazionale delle Migrazioni (IOM), con i rispettivi partner locali (in Tunisia la Croce Rossa Tunisina).
Dopo giorni di abbandono e agonia di centinaia di persone migranti che chiedevano aiuto condividendo video o fotografie sui canali social, l’organizzazione internazionale ha finalmente comunicato di aver iniziato le operazioni di assistenza con un primo gruppo di migranti abbandonati nel deserto. In Tunisia, 150 persone sono state portate nello shelter di IOM di Tataouine, mentre circa 350 persone si trovano in strutture pubbliche della città di Medenine. Chi oltrepassa la frontiera libica, invece, secondo IOM viene portato e assistito nel centro di Al-Assah, a sud del posto di frontiera di Ras Agedir.
Nel frattempo, però, le deportazioni dalla Tunisia alla frontiera con la Libia non si sono fermate e un migliaio di persone attendono in queste ore in pieno deserto. Nella no man’s land, si continua a morire anche dopo la firma del memorandum, con temperature che superano ormai i 50 gradi. Anche se durante le ultime settimane il caso tunisino ha giustamente fatto rumore, non si tratta in realtà dell’eccezione, ma di una regola. La Tunisia si aggiunge a Marocco, Algeria, Libia ed Egitto, che sistematicamente utilizzano la pratica dell’espulsione in zone desertiche di frontiera, come riportano da anni i volontari di Alarm Phone Sahara. Le deportazioni da parte delle forze militari e di polizia dei regimi al Sud del Mediterraneo, allora, si rivelano essere la diretta conseguenza delle politiche di esternalizzazione delle frontiere dell’UE.
[Foto di copertina dall’account Twitter di Ursula Von Der Leyen]