Un braccio al collo, due cerotti a medicare i fori del proiettile, e un grande bisogno di capire che cos’è successo. Con lui c’è anche Eric, che ha 24 anni e, come Kofi, arriva dal Ghana. Sono amici, lo stesso passato alle spalle, e adesso le stesse paure da condividere. Il sabato mattina dell’attentato erano insieme. Era stato Eric a svegliare Kofi con una telefonata: “andiamo a sistemarci i capelli”.
Kofi Wilson è una delle sei persone che il 3 febbraio sono diventate il bersaglio casuale di una caccia al nero per le vie di Macerata. Ferite, sono ricoverate in ospedale a Macerata, dove a giornalisti e politici in cerca di voti non è più consentito entrare. Kofi è appena stato dimesso dopo dieci giorni di ricovero. Lo incontriamo nella casa in cui vive insieme ad altri otto richiedenti asilo.
Stavano camminando lungo il marciapiede. “L’hai sentito anche tu? Era uno sparo?”
“No, non può essere, mica siamo in Africa, mica siamo in Libia”.
Hanno proseguito in direzione dei giardini. Sono passati due minuti e il secondo sparo ha trapassato la spalla destra di Kofi. “Il mio corpo è diventato improvvisamente caldo, sentivo come un fuoco. Se fossi stato più forte sarei corso via”.
Trovandosi davanti l’Alfa nera di Luca Traini e una pistola puntata dal finestrino abbassato, Eric si è messo a correre. Kofi è caduto sul marciapiede e ha perso i sensi.
“Una ragazza mi scuoteva la faccia, mi chiedeva come stessi, mi diceva di star sveglio. Sentivo il suono dell’ambulanza, la sentivo arrivare in lontananza, ma non si è fermata. Non capivo perché non si fosse fermata a prendermi”.
Arrivato all’ospedale, Kofi ha capito che quell’ambulanza stava già trasportando qualcun altro.
“Ho pensato che sarei morto. Non mi è successo in Libia, non mi è successo in mare, stava per succedermi in Italia”.
Kofi è l’unico figlio di due genitori anziani. Ha 20 anni, è arrivato a Macerata un anno e mezzo fa, e vive in una struttura gestita dal Gus, il Gruppo umana solidarietà. In attesa del riconoscimento dello status di rifugiato, sta studiando l’italiano. È un tifoso del Chelsea e gli piace ascoltare Kofi Kinaata “perché viene dal mio paese”. In Ghana faceva il muratore e sapeva bene che quello che guadagnava non gli sarebbe bastato a mantenere la famiglia. Ha cercato fortuna in Libia, dove più la situazione diventava precaria, più accarezzava l’idea di spostarsi in Italia. L’ha raggiunta a bordo di una nave delle Ong che l’ha recuperato in acqua. “Non ho avuto paura di morire in mare perché sono cresciuto in un villaggio di pescatori, e sapevo come restare a galla. Quando l’imbarcazione su cui viaggiavamo ha iniziato a rovesciarsi e le persone cadevano in mare, mi sono allontanato. Avevo calcolato che, se avessi risparmiato le forze, sarei potuto sopravvivere in attesa dei soccorsi. Sapevo cosa mi stava succedendo e non ho avuto paura di morire”.
Appena arrivato al pronto soccorso, Kofi ha cominciato a capire che non poteva trattarsi di un caso. “Perché qui siamo tutti neri? Non capivo cosa stava succedendo, forse era scoppiata una guerra”.
Cos’è successo la mattina del 3 febbraio, Kofi l’ha capito solo alcuni giorni dopo. Ora gli è chiara la dinamica, e si sta ancora chiedendo perché sia successo. “Quando ero in ospedale mi hanno spiegato che un nigeriano aveva ucciso una ragazza italiana, e allora un bianco aveva sparato contro i neri. Mi domandavo perché se la fosse presa con me, non sono neanche nigeriano”.
Insieme a lui, altri tre uomini che non aveva mai visto e una sua amica, Jennifer Odion, 25 anni, nigeriana, gravemente ferita alla spalla. Era arrivata a Macerata circa sette mesi prima e Kofi, in città da più tempo, l’aveva aiutata ad ambientarsi. “All’inizio ci incontravamo sempre per la strada, mi chiedeva dove poteva comprare una sim card o altro. Poi abbiamo continuato a raccontarci come andavano le cose”.
In ospedale si sono fatti coraggio e compagnia. Di solito era Kofi ad andare a trovarla. Un giorno è stata Jennifer a raggiungerlo. È arrivata da lui con la mappa dell’ospedale e il tragitto verso la sua camera disegnati su un fazzoletto.
“Tutte le domeniche vado in chiesa e chiamo mia mamma in Ghana. Il giorno dopo la sparatoria non mi sono fatto sentire”. Quel sabato, Kofi ha perso il cellulare. Poi, nella confusione di quei giorni, faticava a ricordarsi i numeri a memoria e non ha avuto modo di controllare su internet la ricostruzione dell’accaduto. Finché non si è ricordato il numero di un amico d’infanzia: “non puoi essere Kofi. Kofi è morto, non è possibile che mi stia parlando”, gli ha detto l’amico, e ha riattaccato.
Era ancora vivo, ma non per il suo amico. “Ho richiamato, e per farmi riconoscere ho dovuto rispondere alle sue domande, non credeva fossi vivo, anche se allo stesso tempo non riusciva a capacitarsi che fossi morto davvero”.
I genitori di Kofi erano stati tenuti all’oscuro dell’accaduto. “In Africa, quando ti sparano sei morto, non viene l’ambulanza a prenderti. Se avessero detto loro che mi avevano sparato, ne sarebbero morti. Alla fine ho chiamato mia madre. Sapeva che qualcosa non andava. Mi ha detto che mentivo dicendo di star bene. Diceva che se lo sentiva. Non va tutto bene, mamma, un bianco mi ha sparato”.
Nel silenzio imbarazzato delle istituzioni, in tanti gli hanno mandato messaggi: comuni cittadini, persone per bene. Il direttore dell’Ospedale di Macerata ha stampato tutte le mail che li contenevano. Alcune arrivavano anche da Spagna e Austria. In tanti sono passati a salutarlo. “Un signore mi ha portato dei biscotti. Un altro dei fiori. Persone che non conoscevo. Uno si è scusato dicendomi che non tutti gli italiani sono così”. Kofi, molto attento, gli ha risposto: “stesso colore di pelle, diversa testa. Vale anche per i neri”.
Il 3 febbraio, il suo “sad day”, è il giorno triste che si ripromette di celebrare ogni anno. “Associo quella data al bianco perché in Africa, quando si vince, ci si veste cosi”. Si ripromette di celebrarlo con le persone che ama e con quelle che hanno bisogno. “Voglio trascorrere il 3 febbraio con i malati, i carcerati, i bambini. Se non avrò soldi, potrò pur sempre dare amore”.
Trova conforto nella Bibbia. Sa che è impossibile dimenticare, ma conosce il sollievo del perdono, soprattutto per chi lo dà. “Non posso tenermi questo peso dentro. Devo andare avanti”. Anche se oggi ha paura a camminare per strada.
In copertina: Kofi Wilson nel suo appartamento a Macerata. Qui si vede la medicazione al foro di entrata del proiettile sparato da Traini, poi fuoriuscito dalla parte posteriore della spalla (fotografia di Emanuele Satolli, come tutte le immagini di questo articolo)