A Gorizia sono arrivate le ruspe. Accatastati nel retro dei Tir restano i segni di quattro mesi vissuti per strada, e reti metalliche bloccano entrambi gli accessi della Galleria Bombi, nel centro della città.
Sotto il colle del Castello, in quel tunnel che in tutti i sensi segna la fine dell’Italia, dallo scorso agosto sono transitate sul filo di un passaparola centinaia di richiedenti asilo. In prevalenza originari di Pakistan e Afghanistan, avevano trovato un riparo temporaneo dalla pioggia, un materasso accanto all’altro, sulla carreggiata dove prima passavano biciclette e pedoni. Dormivano all’addiaccio, in attesa della risposta della commissione territoriale alla loro domanda di protezione internazionale, quella che Austria e Francia avevano respinto. Ci sono voluti anni, il più delle volte, per sentirsela rifiutare. Sono stati rispediti al punto di partenza, in un gioco dell’oca insopportabile.
Un luogo di passaggio
Lo sgombero non ha fermato gli arrivi che continuano, costanti. Gorizia per molti è solo una stazione di passaggio. Di stazioni parla anche un ragazzo che preferisce non dire nome né età. È scappato dal Pakistan, dove frequentava l’università. È scappato dall’insistenza dei servizi di intelligence che lo consideravano alleato del fratello, affiliato al Ttp, il Tehrik–i-taliban Pakistan, il gruppo di estremisti islamici responsabile dell’attentato a Malala Yousafzai e al massacro nella scuola di Peshawar.
“La mia vita è come l’inferno. Non voglio dire una parola di più: inferno. Ci sono due stazioni al capolinea della vita di ciascun uomo: l’inferno e il paradiso. Io sono arrivato all’inferno, l’ultima stazione, oltre non ci sono più fermate. La mia vita è finita e io sto aspettando solo di morire”. Avrà poco meno di 30 anni, gli ultimi nove li ha trascorsi lontano da casa: l’Iran, la Turchia, la Grecia. Un viaggio scandito dall’alternarsi delle stagioni: la sosta d’inverno, la marcia in primavera. Fino all’Austria, dove negli ultimi cinque anni ha imparato il tedesco, la quinta lingua che conosce. Dopo che le autorità di Vienna gli hanno negato l’asilo politico si è spostato a Gorizia, sperando in un esito diverso. La sua storia non è diversa da quella di molti vicini di materasso o da altre che avevamo sentito, sul finire dell’estate del 2015, nella boscaglia lungo le sponde del fiume Isonzo. Quella boscaglia, come Calais, viene chiamata Jungle, la Giungla, e ci vivono ancora in tanti. “Ancora prima di arrivare sapevamo quali sarebbero state le condizioni in Italia, ma qui abbiamo più possibilità di ottenere dei documenti. Non abbiamo più alternative”. L’ultima stazione, appunto.
“La chiusura della galleria non ha ovviamente scoraggiato i nuovi arrivi, sono persone in cerca di protezione o in attesa di rinnovo del permesso di soggiorno, questi ultimi di fatto esclusi dal sistema di prima accoglienza”, spiega Monica Musina dell’Associazione Insieme con voi, un gruppo di volontari che in questi mesi ha sopperito all’inerzia delle istituzioni. “Le strutture sul territorio sono sature e non si hanno risposte al di là della gestione dell’emergenza, acuita dal freddo”, continua Musina. “Il problema è la mancanza di una soluzione di ampio respiro”.
La terra di mezzo
A Gorizia infatti l’aria è pungente. Di Bora e di vergogna. Le reti metalliche comparse il 24 novembre agli imbocchi della galleria hanno danneggiato la viabilità cittadina, e i trasferimenti forzati non hanno reso meno feroce l’imbarazzo di quella terra di mezzo. Lo si può toccare con mano, se ne sente l’odore, quello dei materassi umidi e delle coperte bagnate dall’acqua che filtra dalle pareti di pietra. Una manciata di metri fra Italia e Slovenia, quella terra “senza nessun arabo in giro e nessun immigrato”, come ha pensato bene di sottolineare al rientro dalle vacanze estive in Slovenia un ex assessora del comune di La Spezia, Patrizia Sacconi. La Galleria Bombi è un limbo in cui espiare la colpa di essere poveri e senza documenti. A un’estremità, Piazza della Vittoria, con la sua chiesa dalle cupole a cipolla, all’altra il confine sloveno. In mezzo, i diritti sospesi.
“Che numero porti, 43?” chiede una ragazza passando fra i materassi. Fa parte del gruppo di volontari che, ogni sera e ogni mattina, porta cibo e generi di conforto. Prima nel tunnel, ora nei centri di fortuna dove queste persone sono state alloggiate. Tra di loro c’è Laura Zulli. È un medico di famiglia che, insieme ad altri colleghi, provvede, a spese proprie, a fornire medicinali e una prima assistenza. “La maggior parte delle persone è sana”, ci spiega. “Le patologie riscontrate sono legate alla precarietà delle condizioni igieniche: mancano acqua corrente e servizi. Altre patologie sono legate al freddo. Alcuni hanno delle piaghe per aver raggiunto a piedi Gorizia da Tarvisio” – il punto più orientale del Friuli. Hanno camminato per più di 150 chilometri. Molti di loro indossano calze infilate nelle infradito.
Nella galleria, una coperta a fiori copriva le prime lettere di una dichiarazione scritta sull’asfalto: “Vera ti amo”. Lì, da inizio novembre, dormiva Muktarel, che ha 24 anni e adesso è stato trasferito nel Cara di Gradisca dove – racconta – mancano elettricità, spazio e condizioni igieniche. Ha un sogno, quello di poter tornare in Pakistan a riabbracciare suo padre e i suoi amici. Vorrebbe camminare di nuovo per le strade in cui è cresciuto. “Ho paura di dimenticarmene”, dice prima di intonare una canzone “che conoscono tutti quelli che sono lontani da casa”. Canta l’esilio e il dolore del ritorno, nella sua lingua madre. Per non dimenticare chi è e da dove viene.
In copertina: Decine di richiedenti asilo attendono l’esito della domanda di protezione internazionale. Non essendo riusciti a entrare in un programma di accoglienza, trascorrono la notte nella galleria Bombi di Gorizia. (foto: Marta Cosentino, come tutte le foto di questo articolo)