Ci sono “guerre” nella Guerra che non fanno molta notizia, che non occupano le prime pagine delle testate giornalistiche. Sono le donne stuprate dai soldati invasori, sono le persone malate che non hanno più diritto alle cure e non hanno più accesso alle terapie. Sono le tante storie di minoranze che già in condizione di pace combattono la propria battaglia quotidiana, ma che in tempo di guerra si ritrovano a subire oltre alle atrocità della guerra in sé, anche quelle di chi fa della Guerra una occasione per escludere, emarginare e discriminare.
Lo abbiamo osservato in altre guerre e tristemente questo scenario si sta rivelando prepotentemente anche nell’attuale conflitto che ha colpito l’Ucraina e il suo popolo. Così come arrivano notizie di migranti, cittadini non ucraini, soprattutto se provenienti dall’Africa o dal Medio oriente bloccati alle frontiere, altrettanto arrivano notizie di persone transgender che, non solo non vengono fatte uscire dal Paese, ma che vengono violate nella propria intimità per stabilirne l’identità.
Perché le guerre nella Guerra sono queste, le storie di pochi, di persone che sarebbero invisibili se non esistesse la potenza dei tanti canali di informazione online (i social, le chat etc) che hanno, in questi casi, la forza di superare confini, bombe e censure per arrivare lontano e dare voce a chi non ha diritto di averne. La condizione delle persone transgender nel conflitto russo-ucraino è arrivata fino a noi, anche Arcigay ne ha intercettato il grido di aiuto e ha immediatamente messo in moto la propria macchina organizzativa, in rete con le altre associazioni LGBTI+ italiane ed europee (soprattutto dell’area balcanica e dei paese confinanti) per cercare di trovare una soluzione sia sul piano diplomatico che su quello pratico alla situazione che, in questo momento, coinvolge le persone trans* in particolare MtoF. Le leggi marziali infatti impediscono a qualsiasi persona di sesso maschile di uscire dal Paese. Poco importa, in periodo di guerra, se non è il sesso biologico a determinare l’identità di genere. Benché in Ucraina esista un percorso giuridico di riconoscimento del proprio status di persona trans, nemmeno questo è sufficiente per uscire dal Paese se non si è intrapreso un percorso di riassegnazione del sesso. In poche parole, alle frontiere non serve esibire nessun documento che attesti la propria identità elettiva, nemmeno se si tratta di una identità giuridica. Ciò che conta è l’organo genitale.
Sono diverse le storie di persone che hanno contattato le associazioni LGBTI+ europee per chiedere aiuto, donne trans* che raccontano di essere state palpate, di essere state respinte alla frontiera anche quando in possesso del documento necessario in Ucraina a dimostrare la transizione. Vittime di abusi personali e abusi di potere, le persone trans* ucraine chiedono aiuto al resto d’Europa, mentre il resto della comunità LGBTI+ ucraina è impegnata al fronte a difendere il proprio paese, la propria democrazia e la libertà di persone LGBTI+. Perché se è vero che solo con l’elezione di Zelensky la situazione per le persone LGBTI+ in Ucraina sembrava essere migliorata, è altrettanto vero che ancora resistono pregiudizi, stigma sociale che in tempo di guerra trovano terreno fertile per rialzare la testa.
Arcigay, oltre ad aver aperto un dialogo con le altre associazioni LGBTI+ per creare una rete di accoglienza e supporto di tutte le persone LGBTI+ provenienti dalle zone di guerra, mette a disposizione posti letto in alcune case rifugio che gestisce sul territorio nazionale (Udine, Roma, Napoli, Reggio Emilia) e mette a disposizione tutte gli sportelli della Rete Migranet che da nord a sud forniscono già supporto a richiedenti asilo e profughi di altre guerre, purtroppo dimenticate. Sono già arrivate le prime richieste di accoglienza abitativa che sono destinate ad aumentare se il conflitto non dovesse risolversi in tempi brevi.
Al tempo stesso ci si sta muovendo anche sul piano politico e diplomatico, cercando di far pressione sul governo ucraino affinché garantisca alle persone trans* di uscire dal Paese in sicurezza e senza subire abusi fisici e psicologici, soprattutto per tutte coloro che hanno la documentazione che attesti il percorso di transizione.
La rete con le associazioni europee, soprattutto con quelle dei paesi che sono sulla rotta di fuga dall’Ucraina, è fondamentale non sono per fornire supporto e accoglienza, ma anche per garantire tutele. È noto infatti che Paesi come la Polonia e l’Ungheria abbiano posizioni esplicitamente anti-lgbti anche a livello istituzionale. Ma anche in altri paesi confinanti come Moldova e Romania le condizioni delle persone LGBTI+ non sono semplici, la condanna sociale è ancora molto forte e le azioni della comunità LGBTI+ molto deboli.
In questa partita sono soprattutto Slovenia e Italia, insieme ad altri paesi dell’area balcanica, che giocano un ruolo fondamentale. E le reti che dobbiamo continuare a costruire dovranno essere solide per dare risposta a una seconda ondata di migrazioni nella quale è probabile che il numero di persone LGBTI+ in cerca di rifugio andrà in crescendo.
Foto di copertina via Wikipedia