Un evento segna un’epoca, ne orienta l’immaginario, ma spesso c’è uno sguardo generazionale che crea visioni differenti dello stesso episodio, un sentire magari empatico, ma distaccato. Chi ha oggi 30 anni in Albania vive un paese e una realtà molto differenti dal contesto albanese del 1991. Uniti forse da un’unica cosa: si continua a emigrare. Nonostante i proclami del premier albanese Edi Rama, osannato dai media occidentali e giunto recentemente al terzo mandato consecutivo, che continua a parlare di ‘miracolo economico albanese’ e di una terra che ‘attira investimenti grazie all’assenza di sindacati’, le statistiche ufficiali raccontano una realtà differente. Dal 1989 a oggi, secondo l’Istituto Albanese di Statistiche (Instat), l’Albania vive il più alto tasso di emigrazione d’Europa, con un saldo migratorio fortemente negativo tra il 2018 e il 2020. Esiste una migrazione interna, soprattutto verso Tirana, dove la popolazione è più che raddoppiata dopo il 1991, ed esterna, con il numero globale di abitanti che continua a calare: 2,86 milioni di residenti nel paese contro i 3,37 milioni del 1991, sempre secondo i dati Instat.
“Questi trent’anni sono stati travolgenti, ma il prezzo l’hanno pagato i lavoratori. Gli stipendi non arrivano a 500 euro e mio nonno e mio padre, con il regime, avevano molte più tutele lavorative di me. La speculazione edilizia, la privatizzazione dello spazio pubblico, della sanità e dell’istruzione, la corruzione: tutto questo crea un clima claustrofobico per i giovani in Albania. Ma non tutti vogliono partire. “Noi restiamo e proviamo a cambiare questo paese”, racconta Redi Muci, docente di geologia all’università di Tirana, che è uno dei leader di OrgnizataPolitike, un movimento radicale di sinistra che sta caratterizzando le lotte politiche del paese. I militanti hanno tutti meno di trent’anni e sono i testimoni di come quella generazione della Vlora sia distante per loro.
“Avevo 5 anni, non ho reali ricordi. Per me la Vlora, in fondo, è più un’immagine che ho visto di frequente in Italia”, racconta Klodiana Dosti, che lavora per una multinazionale tra la Svizzera e l’Italia. “Molto più che in Albania, dove c’è la memoria di un periodo storico, certo, ma meno legata a quella singola nave, perché in quel tempo le navi erano tante e la Vlora non è molto diversa dalle altre. Di sicuro è molto più simbolico, in Albania, il naufragio della Kader i Rades (natante albanese speronato e affondato in una maldestra manovra di blocco effettuata da un’unità della marina militare italiana nel 1997: le vittime accertate furono almeno 82 ndr) e, in generale, il tema è delicato, non è facile parlarne. Ho finito per saperne di più quando è uscito il film di Roland Sejko, Anija – La nave, perché così ho ripercorso quello che è accaduto in quegli anni ed è stato molto emozionante. Non ho io una memoria, ma è diventato quel racconto una mia memoria. Rispetto a oggi ho fatto pace con quel periodo. Mi rendo conto di aver sentito, per una fase, una sorta di imbarazzo verso quell’invasione all’Italia, ma oggi comprendo invece che è il coraggio di quelle persone a colpirmi. E guarda la comunità albanese cosa è stata capace di fare in questi anni. Ho finito per guardare al passato con una specie di orgoglio. Sofferto, certo, ma credo che siam riusciti a superarlo”.
La famiglia di Klodiana vive in Albania, mentre ci sono casi come quello di Arber Xhaferaj, fotografo e videomaker, che ha la famiglia in Italia, ma che è tornato a vivere a Tirana dopo l’università a Padova. “Su quella nave c’erano i nostri vicini di casa. Tutta la loro famiglia, genitori e figli piccoli. Tante volte il discorso è venuto fuori tra di noi, in questi trent’anni, anche perché a un certo punto anche la mia famiglia è partita per l’Italia. E vedi che ancor oggi, nei miei genitori, c’è un certo coinvolgimento emotivo quando si parla di quegli anni. La notizia arrivò all’improvviso, mia madre racconta di come mio padre entrò in casa e disse ”stanno partendo’. Ne hanno parlato, ma mia madre racconta che non ebbero il coraggio di partire e di mettere me e mio fratello, molto piccoli all’epoca, in quella situazione pericolosa. Io avevo sei anni, mio fratello nove, non se la sono sentita di farci affrontare la traversata. Mi raccontano che furono giorni di ansia e domande, ma alla fine decisero di non andare. E la mia famiglia non era tra quelle devastate dal regime, soffrivamo, come tutti, soprattutto negli ultimi anni Ottanta, ma non eravamo tra le vittime del regime, quindi forse c’era anche una motivazione in meno a lasciare tutto e andare. Quando guardo quelle immagini e penso a quelle persone sono convinto che il grande coraggio dimostrato da loro fosse legato a doppio filo alle grandi sofferenze patite. Per esempio, il mio vicino veniva da una famiglia che aveva avuto grandi problemi con il regime. E mi sono messo nei panni di mio padre: avrei fatto come lui, non me la sarei sentita di esporre i miei figli a quel pericolo, ma era un coraggio che aveva un senso”.
Anche Rea Nepravishta, consulente per organizzazioni non governative che si battono per la tutela dell’ambiente e attivista femminista, vive in Albania, con la famiglia, dopo gli studi in Italia.
“All’epoca avevo solo sette anni, i ricordi non sono precisi, ma ho il ricordo delle immagini televisive. Quella nave sommersa di persone, a me, sembrava che non venisse neanche dal mio paese per quanto era straniante. Mi sembrava un evento storico lontano, di un’altra epoca, di un altro paese: era troppo grande per la mia immaginazione. E poi ci sono i racconti dei protagonisti e quell’immaginario condiviso. Tante persone ricordano la totale improvvisazione di quella partenza. C’era chi era a scuola, chi al lavoro, chi al caffè…a un certo punto la voce, come un’onda, si diffuse in città: da Durazzo parte una nave per l’Italia. E la gente, così come era, aveva mollato tutto ed era corsa al porto per provarci. Molti non hanno neanche avvisato nessuno. Io sono ancora impressionata, se penso a me stessa, da questa decisione improvvisa. È così lontano dalla mia vita che mi pare assurdo…credo che la risposta fosse nel sentire di non avere nulla da perdere, nella semplice e fortissima voglia di vedere cosa c’era dall’altra parte, quali opportunità. Ed è bastato un soffio d’aria, una voce, per far partire decine di migliaia di persone. Mi viene la pelle d’oca se ci penso” – racconta Rea – “Tra loro c’era anche una mia amica. Mi ha raccontato che era all’università a Tirana quando arrivò la notizia e corse a casa, scrisse un biglietto per sua madre dicendo che partiva, e con un amico si precipitò a Durazzo. Solo che era terrorizzata dall’acqua, non sapeva nuotare. E ancora oggi mi racconta del suo amico che si tuffa per fare a nuoto la distanza tra il molo e la nave Vlora e lei che resta là, attonita, a guardarlo. E ancora oggi si chiede cosa sarebbe stato della sua vita se fosse andata. È stato uno spartiacque, per tanta gente. Ha segnato tante vite quel momento. Non so se si trattava solo di coraggio, credo ci fosse anche una sana incoscienza, una forma di folle voglia di vivere. Ogni volta che arrivo a Bari, mi guardo attorno. Tutto è facile, soprattutto dopo la liberalizzazione dei visti. E penso a quelle persone, alla loro energia, e a volte mi sembra come se la storia sia finita. In fondo chi migra oggi, da guerre e povertà, ha la stessa energia di quelle persone: non aver nulla da perdere, non avere alternative. E si parte, costi quel che costi”.
La memoria collettiva albanese di quei tempi è rappresentata, non solo in Italia, dal regista Roland Sejko. Un grande artista, che alla vicenda della nave Vlora ha dedicato uno splendido documentario: Anija – La nave.
“Nella narrazione albanese esiste un po’ il problema di gestire il passato e la memoria”, racconta Roalnd. “C’è sempre una specie di retorica, che limita quel fenomeno alla gente che scappava dalla più feroce dittatura del mondo, alla voglia di libertà, la voglia di cambiare vita. Tutti temi che, ormai, fanno parte del sentire comune in Albania. Credo che in questo ci sia un limite: viene sempre raccontata come una grande mobilitazione collettiva, come se fosse in qualche modo organizzata, mentre io sono ancora convinto della grande dimensione intima e personale di quell’evento, nonostante si presentasse in quella forma immensa di massa. Ogni singola persona aveva una sua ragione per scappare dall’Albania. Al di là della memoria comune del regime, ognuno portava con sé i propri sogni, i propri progetti personali, anche se è rimasta l’immagine di una folla senza volto.
L’immagine, e il racconto, è quella di un popolo-nazione che si trovava su quella nave. Ho sempre lavorato sullo scomporre quella folla, andare sulle persone, sulle singole storie. Il mio film è questo: un volto e un nome. Come è stato doveroso fare per le vittime della Kader i Rades. Dopo questi anni, però, resta ancora molto da raccontare. E questo trentennale, mi auguro, deve essere lo spunto per cercarle”.
Immagine di copertina: il Molo Carboni di Bari l’8 agosto 1991. Foto di Kosta Korçari via Flickr (CC BY-SA 2.0).