Nelle parole di Feugudjaay la sua busta non rimaneva mai vuota grazie alle grandi quantità di pesce presenti nell’oceano, riempita quindi praticando il lavoro che più amava. Nei gloriosi anni ‘80 l’oceano al largo delle coste senegalesi era pieno di pesci. Pesci di qualsiasi tipo e qualsiasi dimensione: tonni, salmoni, razze, sardine, sgombri e merluzzi. Il Senegal aveva i mari più ricchi dell’intera Africa occidentale. La qualità dell’ambiente marino ne garantiva la biodiversità e la pesca tradizionale senegalese ne garantiva il rispetto e la riproduzione. I pescatori uscivano con le loro piroghe la mattina e tornavano nel primo pomeriggio. Andavano a pescare a poche miglia dalla riva, non serviva rischiare e navigare in alto mare per recuperare e superare il fabbisogno personale e familiare, trasformarlo attraverso i processi dell’essiccazione o salinizzazione e venderlo nei mercati locali.
Feugudjaay di Gendal (Dakar) racconta questo passato mitico con aria sognante. “Io, per esempio, prima facevo 20 o 10 milioni di CFA al giorno (30/40 euro), ma ora sono rimasto squattrinato. Ora il mare è completamente impoverito delle sue risorse ittiche. E i pescatori devono spingersi a chilometri e chilometri di distanza dalla costa per pescare, mentre prima non era così”. Feugudjaay è ormai in pensione e per tutta la sua vita ha fatto il pescatore. Malgrado la ricchezza delle acque costiere senegalesi rimanga, la produttività delle battute di pesca è costantemente diminuita in questi ultimi anni.
La pesca rimane la prima fonte di occupazione del paese: secondo USAID, il settore offre opportunità di lavoro ad una persona senegalese su sei. Non solo le decine di migliaia di pescatori locali e le loro piroghe, ma anche tutte le donne che si occupano del processo di trasformazione e vendono nei mercati cittadini, così come le persone coinvolte indirettamente, come quelle che lavorano per l’industria del ghiaccio e i trasporti per le consegne nell’entroterra o attraversando i confini, verso l’estero.
Lo sguardo fiero ma triste, Feugudjaay denuncia che “i pescatori hanno il morale a terra perché il mare è ormai svuotato dai pesci. Prima si guadagnavano da vivere con il loro lavoro perché c’erano abbastanza risorse. Ma da quando siamo assediati da imbarcazioni straniere con una capacità di pesca enorme […] la loro capacità di saccheggiare le nostre risorse contribuisce all’impoverimento dei nostri pescatori”.
Sulla spiaggia, i colori accesi e brillanti delle piroghe sono in netto contrasto con l’umore collettivo. Feugudjaay sta masticando un rametto di albero di kola utilizzandolo come spazzolino per la pulizia dei denti, sospira e aggiunge “Il nostro problema ora è che il mare ha perso tutto il suo stock ittico. Il motivo è che il mare è stato venduto. Questo spiega perché gli uomini hanno preso le barche per migrare in Europa. Questa è l’unica opzione che hanno dal momento che il mare è completamente distrutto”. Feugudjaay non ha dubbi: le navi straniere stanno saccheggiando il mare, prendendosi i pesci migliori come tonno e merluzzo, con il benestare del governo senegalese. Questo spinge molti giovani senegalesi in cerca di lavoro a salpare, abbandonare l’attività che amano e tentare la fortuna in Europa. Feugudjaay ha un figlio che ha provato due volte ad arrivare alle isole Canarie con le piroghe, e sorridendo osserva: “I pescatori seguono il pesce. Se il pesce va in Europa anche i pescatori senegalesi vanno in Europa”. La pesca è fonte di occupazione, sostentamento e aspirazioni personali, persi quelli le persone si trovano costrette a cercare altre strade e possibilità. Le piroghe utilizzate sono le stesse ma per scopi diversi.
Tra i fattori che i pescatori sulla spiaggia di Gendal individuano tra quelli determinanti c’è proprio quello della pesca incontrollata delle grandi imbarcazioni straniere. Di fatto, la pesca tradizionale negli ultimi anni deve fare i conti con i predatori industriali come EU e China. “La pesca europea con reti a circuizione non è selettiva; porta inevitabilmente alla cattura di altri tipi di pesce, soprattutto pesci piccoli, non permettendo la loro riproduzione, e all’impoverimento dell’eco-sistema” chiosa Feugudjaay.
Il sovrasfruttamento dei mari (ocean grabbing) minaccia sia lo stile di vita di molte persone e famiglie senegalesi sia la loro stessa identità culturale e l’accesso alle risorse delle comunità che vivono di pesca tradizionale.
Dal 1979, l’UE ha beneficiato di un accesso privilegiato nei ricchi mari del Senegal, con pochissime restrizioni imposte dal governo senegalese. Accesso privilegiato che è stato ri-confermato a novembre 2020 con un ulteriore accordo di partenariato a favore dell’UE. Dopo tutti questi anni di cosiddetta “cooperazione”, il bilancio è nettamente negativo, sia dal punto di vista ambientale che sociale: gli stock ittici si stanno velocemente esaurendo e la pesca artigianale senegalese fa fatica a competere con le grandi imbarcazioni straniere. La sicurezza alimentare di moltissime famiglie senegalesi è messa in pericolo dall’indebolimento del mercato locale.
Oltre all’affollamento del mare di navi straniere, Feugudjaay ci tiene a sottolineare che negli ultimi anni la produttività delle battute di pesca è diminuita anche a causa di un danneggiamento dell’ecosistema marino a causa di cambiamenti climatici che hanno portato ad un cambio di correnti marine e una migrazione diversa di molte specie di pesci ed un’erosione costiera pressante.
La spiaggia nel frattempo si è popolata. Decine di piroghe sono tornate dal mare e molte donne si sono avvicinate sulla spiaggia per pulire e poi trasformare il pesce pescato. La scarsità dell’offerta di pesce fresco si è riflessa sul processo di trasformazione, come salatura, affumicatura, essiccazione, e fermentazione a cura di associazioni a partecipazione femminile.
Feugudjaay si fa spazio tra le varie montagne di sacchetti di plastica presenti sulla spiaggia e si ferma a chiacchierare con l’amico Omar che, sentito della nostra ricerca, è impaziente di dire la sua: “Come potete vedere, la spiaggia è piena di rifiuti che soffocano i pesci che non riescono a respirare. Se i pesci non riescono a vivere nell’ambiente a loro adatto, con la temperatura corretta, si spostano altrove. Ed è per questo che i pescatori devono spostarsi e andare più lontano a trovare i pesci nelle zone sotto controllo delle navi industriali”. Omar scalcia sacchetti di plastica e carcasse di capre morte, e quasi sottovoce sussurra: “Fu viva la sabbia, la spiaggia si lamentava quando ci camminavamo sopra. Ora non è più così. La sabbia è morta, sepolta da una montagna di spazzatura”.
Il mare splendente, con acque pulite e ricche di pesce, così vivo nel ricordo di Omar, è oggi fortemente inquinato, sia di rifiuti industriali che domestici. I rifiuti gettati dagli abitanti delle zone costiere non fanno che aumentare: conseguenza di una mancata gestione municipale, oltre che dell’incuria degli abitanti. In questi quartieri, lo squallore della vita metropolitana nell’età moderna è reso visibile dalla quantità di spazzatura presente. Per la gente che vive in queste zone, dove la pesca fornisce gran parte dell’occupazione, le due cause maggiori della scomparsa del pesce sono la presenza delle imbarcazioni da pesca di paesi più ricchi e l’inquinamento del mare, di cui quelle spiagge piene di plastica sono un emblema innegabile. Il rifiuto ritorna, con un ciclo di (non) vita che distrugge.
Nel passato, il concetto stesso di rifiuto non esisteva, poiché tutto era riutilizzabile: il giornale, ad esempio, veniva letto, poi riletto da un’altra persona, poi utilizzato per incartare il pane e, infine, per accendere il fuoco. Quindi mai scartato: semplicemente trasformato. Era un mondo basato sull’armonia, la riparazione e la simbiosi tra l’essere umano e la terra. Sino a quando la modalità predatoria ed estrattivista del capitalismo contemporaneo ne decretò la fine. Esasperando anzi la situazione, a seguito dell’introduzione di nuovi materiali non biodegradabili, da cui deriva il concetto di scarto.
In Senegal questa trasformazione coincise con processi di urbanizzazione rapidi ed insostenibili, che non hanno previsto la realizzazione di infrastrutture adatte alla popolazione, producendo sempre più scarti, ma senza una strategia adeguata di gestione dei rifiuti. Solo una parte di questi rifiuti prodotti dalle grandi città del paese arrivano infatti nella discarica di Mbeubeuss – una delle discariche più grandi dell’Africa. Rifiuti che, tra l’altro, hanno vita lunga, quasi eterna (dal 10 a 100 anni per le lattine d’alluminio, a 500 anni per il tessuto sintetico e mai completamente per le bottiglie di plastica). Al punto che quei luoghi incontaminati e prosperi di cui parlava Omar diventarono sempre più rari.
Mbeubeuss fu creata nel 1968 sul sito di un lago prosciugato come luogo di deposito dei rifiuti solidi urbani, distante circa trenta chilometri da Dakar. La discarica è cresciuta in modo esponenziale, dai 14 ettari del 1978 ai 115 ettari di terra odierni. Mbeubeuss è quasi una città in sè, una città delle immondizie. Qui, in mezzo a tantissima plastica, ma anche vestiti scartati, ci sono capanne costruite tra i sacchi, con donne che preparano il caffè sull’uscio. Sono più di 2000 le persone che vi lavorano come recuperatori di rifiuti, rimettendo in circolazione gli scarti recuperati. Persone come Aliou che hanno lasciato le zone rurali per venire a Dakar in cerca di lavoro. Per un po’ Aliou ha lavorato come receptionist in un’azienda, ma non guadagnava nemmeno per coprire i costi della vita. Così è finito a lavorare nella discarica come recuperatore di rifiuti, dove guadagna di più. Ormai lavora a Mbeubeuss da 13 anni ed è riuscito a fare un po’ di carriera. Oggi Aliou è uno dei fondatori dell’associazione informale Bokk Djom (che significa solidarietà di gruppo e coraggio) che unisce e mira a tutelare i recuperatori di rifiuti della discarica.
Nonostante la difficoltà di fare un lavoro fortemente stigmatizzato, questo è un lavoro che Aliou ha scelto: “È lavoro essenziale e dovrebbe essere riconosciuto dalla società, reso più sicuro e tutelato”. Per lui, lo scarto è rappresentativo di una società che produce e consuma di più di ciò che necessita. Andare alla discarica è, nelle parole dello scrittore Giudo Viale, andare ‘dietro lo specchio in cui la civiltà dei consumi ama riflettersi’. Lo specchio, infatti, è lo strumento che tiene questo mondo nascosto agli Europei. Tante nazioni, inclusa l’Italia, continuano a inviare ingenti quantità di materie plastiche non riciclabili in paesi del Sud del mondo, tra cui il Senegal appunto, non dotati di impianti adeguati per il trattamento e con norme ambientali non rigorose.
Come Aliou ci ricorda, questo mondo non è né giusto né sostenibile: “Bisognerebbe immaginare, piuttosto, un ritorno ad un mondo nel quale la riparazione e la cura sono nuovamente valori condivisi. Un mondo che riconosce che l’umanità e la natura sono legate tra di loro”. Le parole di Aliou riecheggiano la denuncia del filosofo africano contemporaneo Achille Mbembe – che invoca la necessità di riconoscere il diritto universale di respirare, inteso non solo come respiro biologico ma soprattutto come pieno godimento dell’esperienza umana, come diritto ad un ambiente sano per tutti nel senso più ampio – come queste voci ci hanno raccontato.
Mbembe denuncia come prima di questo virus l’umanità era già minacciata di soffocamento, a causa di un ‘capitalismo che ha già confinato dei segmenti interi di popolazioni e intere razze a una respirazione difficile, senza fiato, a una vita pesante’. Il che ci porta a pensare che, al di là dei fenomeni più visibili quali i nubifragi o la siccità, per comprendere cosa significa il cambiamento climatico è necessario dislocare la nostra prospettiva, eurocentrica e privilegiata. E per affrontarlo, occorre immaginare un diverso rapporto con la Terra, basato sull’idea di cura, l’idea che possiamo essere custodi del nostro Pianeta, non solo per noi stessi ma anche per le generazioni che verranno dopo di noi, un mondo senza scarto, dove invece di soffocare la terra con i rifiuti, la lasciamo respirare affinché la sabbia ritorni viva, a lamentarsi quando ci camminiamo sopra.
[Qui la prima puntata: Il cambiamento climatico e la necessità di decentrare la prospettiva. Voci e storie dal Senegal]
——
Le autrici e l’autore hanno potuto realizzare questa ricerca grazie al loro coinvolgimento come team di ricerca dell’Università di Bologna all’interno del progetto “End Climate Change, Start Climate of Change. A Pan-European Campaign to build a better future for climate induced migrants, the human face of climate change”. (2020-2023, CODE OF THE PROJECT CSO – LA/2019/410-153) con capofila WeWorld e cofinanziato dalla Commissione Europea nell’ambito del programma DEAR (Development Education and Awareness Raising).
——
In copertina: Habib Fall, pescatore in pensione, Thiaroye-sur-mer, villaggio a Est di Dakar, Senegal. Foto di Elena Giacomelli.