Alla fine, un po’ a sorpresa e non da subito, ma è arrivata. L’accordo trovato dalle istituzioni Ue sulla nuova Politica Agricola Comune (PAC) prevede anche una condizionalità sociale. E cioè vincola l’erogazione dei fondi al rispetto dei diritti dei lavoratori da parte delle aziende. “Per noi è un risultato importante”, dice Enrico Somaglia, vicesegretario generale di EFFAT, la Federazione europea dei sindacati alimentari, agricoli e del turismo. “E lo è – aggiunge – soprattutto se si considera il punto di partenza”. La PAC, infatti, è una delle politiche europee più vecchie, più controverse e più ricche. Anzi, è la più ricca di tutte, con i suoi 340 miliardi di euro previsti per il settennato 2021-2027.
Da quando è stata varata nel 1962, non ha mai previsto misure per tutelare i lavoratori e nemmeno la proposta di riforma iniziale della Commissione Europea, presentata ormai tre anni fa, lo faceva. È stato il Parlamento Europeo a inserirla, su spinta di un’ampia ed eterogenea coalizione di sindacati, con EFFAT in prima fila, e organizzazioni non governative che si occupano di agricoltura, migrazioni e ambiente (tra cui CILD, promotrice di Open Migration). “Anche dopo questa riforma, la PAC continua a promuovere un modello agroindustriale insostenibile, dal punto di vista ambientale e umano”, commenta Giulia Laganà, senior policy analyst dell’Open Society European Policy Institute, anch’esso tra i membri della coalizione prima citata. “La condizionalità sociale però è un primo passo importante”, prosegue Laganà. “È un riconoscimento che torna alle origini della PAC, nata per sostenere le comunità rurali e, quindi, aggiungo io, anche i lavoratori che in quelle comunità operano”.
L’importanza di sanzioni e controlli
La nuova PAC entrerà in vigore dal 2023: da quella data gli stati membri potranno inserire la condizionalità sociale a titolo volontario, mentre dal 2025 diventerà obbligatoria per tutti e le imprese che non rispettano i contratti e alcune direttive europee sul lavoro verranno multate. Per Fabio Ciconte, direttore dell’Ong Terra!, l’efficacia di questa novità “si misurerà in base alle risposte che darà ad alcune domande: a quanto ammonteranno le sanzioni per le violazioni? Quanto saranno rafforzati gli ispettorati del lavoro nei paesi membri?”. Nei paesi dell’Europa mediterranea, prosegue Ciconte, “le agenzie deputate ai controlli sono spesso sottorganico e difficilmente in grado di intercettare situazioni di illegalità diffusa. Inoltre, se le sanzioni non saranno alte abbastanza da dissuadere gli imprenditori dall’adottare pratiche di compressione dei costi della manodopera, questi semplicemente continueranno a farlo”. EFFAT concorda.
“Come sindacato vigileremo nei prossimi mesi su ispezioni e sanzioni a livello nazionale. Il diavolo sta nei dettagli”, dice Somaglia, che si augura che l’Italia possa dare da apripista attivando la condizionalità già dal 2023. Del resto, il nostro Paese è stato uno degli stati membri a sostenere la norma all’interno del Consiglio dell’Unione Europea e il ministro delle Politiche agricole Patuanelli, ha definito il risultato ottenuto “un traguardo storico”. A prescindere da quando effettivamente entrerà in vigore, secondo Laganà, c’è un altro aspetto importante di cui tenere conto nel rendere operativa la condizionalità sociale, soprattutto in paesi come l’Italia. “Se aumentano i controlli, bisogna evitare che a rimetterci siano i lavoratori irregolari, che rischiano l’espulsione. Quando vengono trovati lavoratori sfruttati, bisogna trattarli da vittime quali sono. Le funzioni di ispettorato del lavoro e di verifica dei documenti vanno separate”, propone.
I lavoratori stranieri
Il tema dei lavoratori stranieri è cruciale. Tra il 2011 e il 2017, nell’Ue la quota di migranti che lavora in agricoltura è aumentata dal 4,3 al 6,5 per cento degli occupati e, in Italia, sono il 18 per cento del totale. Per Somaglia, “la condizionalità sociale riguarda tutti i lavoratori, a prescindere da nazionalità o documenti. Ed è importante che sia così. Poi, certo, la questione dei lavoratori stranieri non la si affronta con la sola PAC”. Secondo Ciconte, un intervento strutturale, a livello europeo ma anche nazionale, andrebbe fatto rivedendo radicalmente i meccanismi che regolano le filiere produttive. E poi, a livello italiano, bisognerebbe agire in ambito legislativo e culturale.
“La Bossi-Fini – ragiona il direttore di Terra! – mette migliaia di persone in una condizione di illegalità nel nostro paese. Donne e uomini che, per vivere, devono accettare qualsiasi forma di lavoro nero, sfruttato e sottopagato. Ma è altrettanto vero che il tema dello sfruttamento del lavoro in agricoltura riguarda in larga parte anche i lavoratori comunitari. Nel nostro paese, c’è l’idea criminale e coloniale che tutti gli stranieri, comunitari o meno, debbano accettare qualsiasi condizione lavorativa se vogliono stare in Italia”.
Foto in apertura: © European Union – EP