Houssem Hammi, coordinatore del collettivo cittadino Soumoud (Resilienza) e membro della Rete tunisina per i diritti e le libertà (Rtdl), che ha riunito associazioni e partiti di fronte ai brogli della campagna per le elezioni presidenziali del sei ottobre, è preoccupato per la libertà d’espressione nel suo Paese.
Durante l’ultimo festival delle culture mediterranee Sabir, la responsabile italo bengalese dell’area immigrazione nell’associazione Arci Roma, Papia Aktar, ha raccontato che «la rivoluzione [che ha portato alla caduta del regime di Sheykh Hasina] in Bangladesh ha risvegliato le coscienze. Ci si è accorti di aver vissuto sotto una dittatura». Hammi ha rievocato un analogo senso di liberazione da un passato oppressivo, nonostante la difficoltà a trovare le parole giuste per gli eventi del 2011, che hanno portato alla caduta del regime di Zine El-Abidine Ben Ali. «Non è possibile descrivere in maniera definitiva quello che è successo nel 2011. Di sicuro, ciò che abbiamo guadagnato è stata la libertà d’espressione».
Parlando del presente del Paese, l’attivista ha detto di «essere tornati a uno Stato autoritario come prima del 2011». A suo parere, molti cittadini tunisini hanno avuto poco interesse a mantenere la libertà d’espressione guadagnata con la caduta di Ben Ali. «Si prende gusto al regresso», chiosa.
Hammi ha individuato tre macro gruppi nell’odierna società civile tunisina. «C’è lo strato sociale composto dalle elités universitarie e intellettuali che continuano a opporsi al governo, e che possono salvare la rivoluzione. Poi c’è la parte di cittadini indifferenti alla politica, che ritengono necessario ripulire il Paese dai giornalisti e dai blogger, alla stregua dei trafficanti di droga. Infine, c’è la parte di cittadini che hanno paura d’esprimersi».
Negli ultimi due anni le carceri tunisine si sono riempite di decine di prigionieri politici. Tra questi c’è Abir Moussi, catturata nell’ottobre del 2023 per il reato di diffondere fake news, così come definito dal decreto legge n.54. Moussi è a capo del Partito desturiano libero (Pdl) ed è un’importante esponente dell’opposizione tunisina. Nonostante si trovi in carcere, si è candidata alle elezioni presidenziali di ottobre. L’Instance supérieure indépendante pour les élections (Isie) ha rifiutato la sua candidatura, per diversi motivi. Per esempio, la mancanza dell’estratto del casellario giudiziario, il cosiddetto bulletin n.3 (B3), che certifica l’assenza di condanne a carico dei candidati. Hammi ha spiegato che «la mancanza del B3 è stato uno dei motivi di esclusione dei 17 politici che hanno presentato la candidatura entro la data di scadenza del sei agosto».
L’Isie ha escluso altri candidati per insufficienza di firme raccolte in loro sostegno. Secondo la legge elettorale, è necessario un minimo di 500 firme raccolte tra i cittadini di almeno dieci circoscrizioni per presentare la candidatura alla presidenza. In base al decreto legge n.55, il numero di circoscrizioni è passato da 27 – di cui sei all’estero – nel 2019 a 161 – di cui 10 all’estero – nel 2024. «Durante le ultime elezioni trovare i 500 sostenitori è stato molto più difficile», ha detto Hammi.
Inoltre, l’Isie ha impedito ad alcuni potenziali candidati di accedere al formulaire de parrainage, il documento preposto alla raccolta di firme. È successo a Issam Chebbi, che si trova in carcere per aver partecipato al cosiddetto “complotto contro la sicurezza dello Stato” – e che, nonostante questo, si è proposto come candidato. Dei 17 politici che hanno presentato la candidatura, l’Isie ne ha accettati tre.
«Dopo le elezioni presidenziali l’Isie ha rilasciato un comunicato, dove ha annunciato che chi parla in modo critico delle elezioni, per esempio facendo riferimento ai brogli, può essere perseguibile penalmente», racconta Hammi, «per questo nessun esponente dell’opposizione ha denunciato l’opacità del processo elettorale».
La Rtdl ha organizzato quattro manifestazioni e diverse conferenze in vista del sei ottobre. «Alle manifestazioni hanno partecipato in media tra le 4.000 e le 5.000 persone», ha affermato l’attivista, «è un numero che non si vedeva dal 2021». Una manifestazione si è tenuta il 13 settembre nella aveneu Habib Bourghiba, la stessa strada che 14 anni fa si è riempita di centinaia di migliaia di persone che hanno chiesto la caduta del regime di Ben Ali. In riferimento alla giornata del 13 settembre la giornalista tunisina Monia Arfaoui ha scritto in un post su Facebook: «il destino di questa strada è di affrontare la tirannia». In alcune foto si vedono dei manifestanti portare cartelli con la scritta heila leblad -magnifico Paese- una frase pronunciata in modo ironico il sette maggio dall’avvocata e giornalista tunisina Sonia Dahmani durante un programma televisivo. Per questa frase Dahmani si trova in prigione dall’11 maggio, accusata di diffondere fake news.
Un’altra manifestazione si è tenuta due venerdì dopo, il 27 settembre, a Bardo, quartiere della capitale tunisina dove si trova il parlamento. A nove giorni dal voto e in piena campagna elettorale «lo staff presidenziale ha costretto il parlamento a cambiare la legge elettorale», ha scritto la giornalista Arianna Poletti, «eliminando la possibilità dei tribunali amministrativi di esprimersi sulle decisioni dell’Isie». La legge n.16 del 2014 su Elezioni e referendum, prima dell’emendamento, prevedeva che i tribunali amministrativi si potessero esprimere sulle questioni elettorali, per esempio quelle concernenti l’esclusione dei candidati. Infatti, ha scritto Poletti «a metà settembre il tribunale amministrativo di Tunisi aveva ribaltato la decisione di escludere Mondher Zneidi – il principale avversario politico di Saied, ex ministro negli anni di Ben Ali -, Abdellatif Mekki – ex leader del partito islamista Ennahda – e Imed Daïmi – consigliere dell’ex presidente Moncef Marzouki, vicino a Ennahda». L’ulteriore modifica di settembre alla legge n.16 ha eliminato anche l’ultimo dispositivo legale per proteggere il processo elettorale, quello della giustizia amministrativa.
«L’alto tasso di voti – il 90,7% – con cui Kais Saied è stato confermato presidente, non è quello dei paesi democratici, ma di paesi come l’Egitto e la Siria [prima dell’otto dicembre]», ha spiegato Hammi.
Le ripercussioni del voto del sei ottobre riguardano la libertà dei cittadini tunisini, ma non solo. Il 19 ottobre Victor Dupont, ricercatore ventisettenne di sociologia all’Università di Aix-Marseille e al Centre national de la recherche scientifique (Cnrs), la più grande organizzazione di ricerca pubblica della Francia e al terzo posto della classifica mondiale dei centri di ricerca, è stato arrestato dalla giustizia militare tunisina e detenuto per un mese.
Il capo di accusa nei suoi confronti era di “aver messo in pericolo la sicurezza dello Stato”. Negli ultimi due anni, Dupont si è recato più volte sul territorio tunisino per condurre delle interviste per il dottorato. Vincent Geisser, direttore dell’Institut de recherches et d’études sur le monde arabe et musulman (Iremam), supervisore di Dupont e primo a dare notizia del suo arresto, ha detto che lo studente è «incaricato di svolgere una ricerca sul percorso socio professionale di persone che possono essere state coinvolte nella rivoluzione del 2011». Geisser ha specificato che «non è un tema politico legato a dissidenti od oppositori o un tema di sicurezza, ma un classico argomento di sociologia».
Foto copertina via Twitter/Melting Pot Europa