Dieci volti e dieci storie, le loro, con un unico denominatore comune: il sacrificio. Ma anche con diverse ambizioni, figlie di percorsi così uguali e allo stesso tempo così differenti.
C’è la 21enne sudanese Anjelina Nadai Lohalit. A 6 anni ha lasciato il suo paese con la famiglia in direzione Kenya, perché a casa “tutto era stato distrutto”. Alcuni tecnici della Tegla Loroupe Foundation (organizzazione fondata dall’atleta keniota Tegla Loroupe Chepkite per promuovere la pace e la solidarietà nella regione dei grandi laghi africani) l’hanno scovata nel campo profughi di Kakuma. Ora corre i 1.500 metri con la speranza di “fare soldi, perché solo con quelli la tua vita può cambiare”, e con la voglia di aiutare la propria famiglia.
Poi c’è il 28enne James Nyang Chiengjek, connazionale di Anjelina. A 13 anni è stato costretto a fuggire per non essere rapito dai ribelli e reclutato come bambino soldato, lasciando madre e tre sorelle in Sud Sudan. La sua storia sarebbe stata probabilmente diversa, se nella sua nuova scuola non avessero riconosciuto in lui una innata predisposizione alla corsa. Corsa che, nei primi tempi, fu soprattutto ad ostacoli: “All’inizio ci infortunavamo spesso, perché avevamo le scarpe sbagliate – racconta – e le condividevamo. Se hai a disposizione due paia di scarpe puoi aiutare chi non ne ha”. A Rio corre i 400 metri “per aiutare i rifugiati. Dobbiamo guardare indietro ai nostri fratelli e alle nostre sorelle, perché se uno di loro ha talento possa mostrarlo allenandosi con noi e abbia così la possibilità di migliorare la propria vita”.
Anche Paulo Amotun Lokoro è fuggito dal Sud Sudan, dove faceva il pastore. Ha scoperto in Kenya di essere un buon atleta per i 1.500 metri. Un percorso per nulla scontato: “Non pensavo di poter diventare un atleta quando ho cominciato a correre. A Rio rappresento tutti i rifugiati, porto la bandiera di tutti, perché anche io sono uno dei rifugiati dei campi”.
L’ottocentista Yech Pur Biel, dieci anni fa ha lasciato la sua famiglia e la guerra in Sud Sudan: “Fortunatamente ora so dove sono i miei genitori”. Lo sguardo di Yech, però, non si ferma a Rio, è proiettato oltre, verso un futuro che non sia solo di sport: “Dopo le Olimpiadi voglio continuare la mia formazione sportiva, ma voglio anche andare a scuola e fare l’università per avere una vita migliore”.
La 23enne ottocentista sudsudanese Rose Nathike Lokonyen ha conosciuto la realtà di un campo di accoglienza a 10 anni. Rose, portabandiera per i rifugiati nella cerimonia d’apertura dei Giochi, è convinta che la partecipazione del suo team a Rio sia importante: “Perché ci dà la possibilità di essere fonte di ispirazione per le nuove generazioni di rifugiati”.
Tra gli atleti del gruppo, Yonas Kinde parteciperà alla gara olimpica per antonomasia, l’ultima nel programma, quella pervasa dallo spirito delle origini: la maratona. Yonas è etiope, ha 36 anni e da 5 risiede in Lussemburgo. “Sono stato costretto a fuggire. Vivere in Etiopia era pericoloso per la mia vita”, spiega l’atleta, ex tassista. “Ho vinto gare in Lussemburgo, Germania, Belgio e Francia e per me è un orgoglio partecipare alle Olimpiadi. Questa è una buona notizia per tutti i rifugiati e ora provo una sensazione incredibile, mi sento forte”.
Dalla maratona alla piscina, per incontrare Rami Anis: 20 anni, siriano. Cinque anni fa è stato convinto dalla famiglia a lasciare Aleppo e a raggiungere il fratello maggiore a Istanbul. “Sono partito con due giacche, due t-shirt e due pantaloni, convinto che dopo un paio di mesi avrei fatto ritorno a casa”. Con Aleppo diventata di lì a poco teatro di atrocità di guerra, la Siria si è trasformata per lui in una realtà lontana. Dopo che la Turchia gli ha permesso di crescere nella polisportiva del Galatasaray, ma gli ha negato la cittadinanza, Rami, come tanti, ha deciso di imbarcarsi su un gommone verso l’isola di Samo in Grecia. Da lì, attraverso mille peripezie, è giunto in Belgio, nazione che gli ha concesso l’asilo e un posto dove allenarsi a Gand, per preparare al meglio i 100 farfalla e 100 stile libero.
Stesse specialità, stesso destino e rotte simili per la 18enne di Damasco Yusra Mardini. Ma la sua è una storia di salvezza collettiva, non solo personale. Nell’estate del 2015, aggravandosi la situazione in Siria, Yusra lascia il Paese insieme alla sorella, per cercare un porto più sicuro. Le solite vie della speranza: prima Libano e Turchia, poi tutte e due su un gommone con altre 18 persone in direzione Grecia. A pochi chilometri dall’isola di Lesbo, il motore va in avaria ed è Yusra a gettarsi in mare per spingere a riva l’imbarcazione e trarre in salvo il suo carico di vite umane. “Se non fossi riuscita a salvare quelle persone non me lo sarei mai perdonato, ma non ho mai pensato di non farcela perché so di saper nuotare”.
A completare la lista dei 10 nel “team refugees” sono due judoka della Repubblica Democratica del Congo, Popole Misenga e Yolande Mabika.
Popole, 24 anni, combatterà nella categoria 90 kg. Costretto a fuggire e a separarsi dalla sua famiglia all’età di 9 anni per scampare alla guerra, dopo aver trascorso otto giorni in una foresta è stato salvato e portato a Kinshasa, dove ha scoperto il judo. L’impatto, però, non è stato dei più facili: a ogni sconfitta in combattimento l’allenatore lo rinchiudeva in una gabbia, lasciandolo a caffè e pane. Dopo l’uscita di scena al primo turno dei Mondiali di Rio nel 2013, Popole ha rotto gli indugi e deciso di chiedere asilo al Brasile: “Il judo mi ha dato tutto, tranquillità, disciplina, direzione. Tutto. Voglio conquistare una medaglia, perché so che questo cambierà la mia vita. La mia medaglia sarà la medaglia di tutti i rifugiati”.
Yolande, 28 anni, invece, combatterà nella categoria 70 kg. Ha perso la famiglia quando era ancora molto piccola ed è stata portata a Kinshasa e avviata alla pratica sportiva: “Piangevo molto e ho iniziato a praticare il judo per sentirmi meglio”. Poi il Brasile l’ha accolta: “Sono un esempio: i rifugiati possono fare quello che sto facendo io. I rifugiati possono vincere”.
La strada per coronare il sogno di una medaglia è lunga e ripida. Ma loro, tutti insieme, su quel podio, in fondo, ci sono già saliti.
(Foto di copertina: Andy Miah / Flickr Creative Commons)