La notizia che il governo portoghese, con un ‘despacho’ – ovvero un’ordinanza ministeriale – del 27 marzo, estendeva una serie di benefici agli stranieri in attesa di regolarizzazione, come risposta alla pandemia di coronavirus, ha fatto il giro del mondo. La mossa del governo guidato da António Costa ha rafforzato l’immagine progressista del paese, cara a una sinistra europea disorientata e spesso combattuta tra approcci opposti al fenomeno migratorio.
Ma se migliaia di persone, tra le più precarie e vulnerabili del paese, saranno più tutelate grazie alle nuove misure, in vigore fino al 30 giugno, “dire che oggi tutti i migranti irregolari hanno accesso agli stessi diritti dei cittadini, è falso”, spiega Emellin De Oliveira, citando la recente dichiarazione di Michelle Bachelet, commissaria ONU per i diritti umani, che elogiava in questi termini la decisione del Portogallo.
Secondo De Oliveira, che è avvocata e ricercatrice presso l’Universidade Nova di Lisbona, “non tutti avranno accesso a queste misure e chi lo avrà, non avrà comunque gli stessi diritti dei cittadini”. Insieme a lei, ricercatori, attivisti e cittadini stranieri in Portogallo concordano nel dire che – per quanto la misura sia giusta e confermi l’apertura del governo sulle questioni migratorie – diversi problemi di fondo non vengono toccati.
“Chi beneficia di queste misure potrà avere accesso al welfare o alla sanità in regime di gratuità, un momentaneo sollievo prima di ricadere nella precarietà di sempre, mentre i troppi che ne sono esclusi diventeranno ancora più emarginati e ricattabili”, continua De Oliveira. “Sono misure incomplete, che lasciano molti indietro”, sostiene Mamadou Ba, storico animatore delle battaglie antirazziste nel paese e referente dell’associazione Sos Racismo.
Ma cos’è successo in Portogallo lo scorso 27 marzo e come questo ha inciso su un contesto complesso, in cui entrano in gioco – tra i tanti – immigrati lusofoni delle ex-colonie, richiedenti asilo re-insediati da altri paesi, operai ucraini e braccianti nepalesi?
Chi è escluso dal ‘despacho’ del 27 marzo
“In momenti come questi, dobbiamo garantire i diritti dei più fragili, come gli immigrati”, dichiarava il ministro dell’interno Eduardo Cabrita, subito dopo la pubblicazione dell’ordinanza. Nove giorni prima, il 18 marzo, il governo aveva dichiarato lo stato di emergenza e adottato una serie di restrizioni, con l’obiettivo di giocare d’anticipo sulla diffusione del virus, che fino ad allora aveva fatto una sola vittima nel paese.
Il ‘despacho’ estendeva l’accesso alla sanità e a misure di welfare a chi, prima del 18 marzo, aveva inoltrato una richiesta di titolo di soggiorno al Serviço de Estrangeiros e Fronteiras (SEF), la polizia di frontiera portoghese.
Per richiedere un permesso di soggiorno per motivi di lavoro, è necessario essere entrati legalmente nel paese ed avere un contratto o una promessa di impiego (è il caso di molti brasiliani che, arrivati con visto turistico trimestrale, decidono di rimanere più a lungo), oppure essere entrati in modo irregolare ma dimostrare di aver lavorato e versato contributi per almeno un anno, precedentemente alla richiesta.
Chi ha avviato la pratica prima del 18 marzo e ha in mano la ricevuta telematica del SEF, può dunque oggi accedere alle cure mediche in regime di gratuità, pagando cioè ticket di pochi euro a visita invece del prezzo pieno per gli stranieri irregolari, ovvero centinaia di euro a prestazione. Può poi richiedere sussidi di disoccupazione e altre prestazioni sociali, incluso il sostegno al reddito per famiglie in difficoltà a causa della pandemia.
“Non abbiamo cifre, ma stimo che circa 20-30mila persone siano toccate dall’ordinanza”, ci dice Mamadou Ba, secondo cui almeno altri 80-100,000 stranieri rimarranno esclusi dal provvedimento. Ed è questo il problema più evidente posto dalle nuove misure.
Si tratta, spiega l’attivista, di lavoratori invisibili, senza relazioni con le autorità e spesso vittime di sfruttamento, la cui manodopera tiene in piedi i settori trainanti dell’economia portoghese come l’edilizia – che impiega ucraini e cittadini dell’Europa dell’est – l’agricoltura e il turismo, in cui lavorano soprattutto cittadini di Nepal, Bangladesh, Pakistan e India.
“Il lavoro bracciantile, sotto caporale, è un grande tabù in Portogallo, a partire da chi raccoglie le olive e le vongole, risorse importanti per la produzione nazionale, ed è relegato in zone rurali, lontano dagli sguardi e dalle cronache”, ci dice Emellina De Oliveira.
Mentre il contributo degli stranieri all’economia e alla società è stato riconosciuto negli ultimi anni più che in altri paesi europei – tanto che secondo l’Eurobarometro, nel 2018 il 77 percento dei portoghesi aveva una percezione positiva dell’integrazione dei cittadini immigrati, a fronte di una media europea del 54 per cento – una larga fetta di lavoratori stranieri rimane esclusa da qualsiasi misura di emergenza, perché priva di contratti di lavoro o perché, quando ne ha, durano meno di 12 mesi.
“Queste persone sono in prima linea nella risposta alla pandemia, garantiscono le consegne a domicilio, i trasporti, l’approvvigionamento di cibo, le pulizie e le cure domestiche: per questo ci aspettavamo un intervento più coraggioso”, sottolinea Mamadou Ba.
Una burocrazia impreparata
C’è poi un’altra questione, apparentemente tecnica, che rende problematico il provvedimento del 27 marzo e getta luce su alcuni aspetti strutturali del ‘modello’ portoghese.
A partire dal 2015, la presenza di cittadini stranieri è cresciuta in maniera rilevante. Ad attrarli, un’economia in crescita e la possibilità di regolarizzarsi se si trova impiego sul posto, di fatto assente in molti paesi dell’UE.
580mila stranieri risiedono regolarmente nel paese secondo cifre diffuse dal SEF a inizio 2020. Una crescita di 90mila persone rispetto all’anno precedente. Grazie a questi nuovi ingressi, nel 2018 il saldo demografico del Portogallo è tornato a essere positivo, per la prima volta dal 2010. Quasi 600mila portoghesi avevano infatti lasciato il paese da allora, a causa della recessione e a poco erano valsi gli sforzi del governo per far tornare i lavoratori più qualificati, tramite il discusso programma ‘Regresar’.
Alla crescita di una migrazione definita economica, in cui ai migranti brasiliani e rumeni, attivi nel lavoro domestico, nei servizi e nelle costruzioni, si affiancano pensionati italiani, francesi e britannici che approfittano di un costo della vita contenuto e cittadini delle ex-colonie Guinea Bissau, Mozambico e Angola, si è aggiunto poi l’aumento delle richieste di asilo, con cifre comunque ancora tra le più basse in Europa.
Circa 200 nel 2007, i richiedenti asilo sono diventati 1750 nel 2017, con un calo leggero negli anni successivi. Cifre divise equamente, negli ultimi anni, tra i rifugiati ricollocati da Grecia, Italia, Turchia ed altri paesi, e i cosiddetti ‘arrivi spontanei’, in gran parte giovani di Afghanistan e Pakistan le cui richieste erano state rigettate in altri paesi UE.
“La crisi nel Mediterraneo, le immagini delle barche in balìa delle onde, hanno portato a un’ondata di solidarietà e spinto le autorità a accogliere siriani, iracheni e eritrei sbarcati in Italia o in Grecia” – spiega Dora Rebelo, psicologa e dottoranda in antropologia all’Istituto Universitario di Lisbona – “ma chi arriva in modo spontaneo e chiede asilo, si trova di fronte un percorso ad ostacoli”.
In primo luogo c’è la detenzione: i richiedenti asilo, inclusi i minori, sono trattenuti in diversi centri, in uno dei quali tre agenti del SEF avrebbero ucciso un detenuto ucraino, Ihor Homenyuk, lo scorso 12 marzo. Ci sono poi condizioni di accoglienza talvolta insufficienti, in centri sovraffollati, e soprattutto le lunghezze di una burocrazia impreparata, che colpisce chiunque cerchi di ottenere documenti nel paese.
È proprio questo il secondo problema sollevato dalle misure d’urgenza: decine di migliaia di persone, che richiedano asilo o il rilascio di un permesso di soggiorno per lavoro, aspettano mesi o anni per ottenere un appuntamento presso il SEF, trovandosi così in una situazione di semi-regolarità – non espellibili ma non ancora regolari – e rischiando di perdere nel frattempo gli stessi requisiti alla base della richiesta di regolarizzazione.
“Una volta inoltrata la domanda, l’attesa per l’appuntamento al SEF si protrae fino a due anni, nonostante la legge parli di un limite di 90 giorni: durante tutto questo tempo non si ha normalmente diritto alle cure gratuite e all’assistenza sociale”, spiega Emellin De Oliveira. L’ordinanza ha quindi sì garantito diritti a chi aveva già presentato richiesta al SEF, ma la chiusura al pubblico dei suoi uffici ha congelato e ritardato ulteriormente tutti gli appuntamenti. Secondo la ricercatrice, “se il governo non aumenta subito le risorse umane, alla riapertura rischieremo la catastrofe”.
Allo sblocco dell’agenda del SEF, previsto per il primo luglio, migliaia di persone rischieranno infatti di aver perso il requisito essenziale per la regolarizzazione, ovvero il lavoro. “È già evidente per chi lavora in ristoranti e alberghi, come molti cittadini asiatici, lasciati a casa nelle ultime settimane”, spiega De Oliveira. Chi di loro avrà beneficiato temporaneamente di sussidi famigliari o assegni di disoccupazione, grazie alle misure previste dall’ordinanza, “sarà poi rigettato nella precarietà totale, pur in una situazione di crisi economica dovuta proprio agli effetti della pandemia”.
“Mentre l’ordinanza ristabiliva un principio di giustizia, tutto terminerà drammaticamente a fine giugno”, conclude De Oliveira, rimandando ai dati della previdenza sociale. Nel 2018, confermando una tendenza crescente, il saldo tra i versamenti previdenziali dei cittadini stranieri e il loro utilizzo dei servizi pubblici era infatti di 651 milioni di euro. I lavoratori stranieri versano insomma molto di più di quanto poi ottengano. Tra loro ci sono i molti in attesa del fatidico appuntamento.
Il limbo di Mohammed
Nel 2016, quando Mohammed*, ventiquattrenne afghano, si è messo in viaggio dalla Germania, il Portogallo era “una promessa, il posto di cui tutti parlavano bene”. L’esperienza degli anni successivi sembra però smentire questa visione, che circolava all’epoca tra i suoi connazionali.
Fuggito nel 2015 dal Pakistan, dove studiava ingegneria, Mohammed ha attraversato dolorosamente tutti i confini che lo separavano dall’Europa. Dall’Iran alla Turchia, fino all’approdo sull’isola greca di Chios, le lunghe marce notturne attraverso i Balcani per arrivare in Austria e Germania, dove rischia la deportazione dopo il diniego dell’asilo.
La sua avventura portoghese inizia al confine con la Spagna quando, fermato da agenti del SEF, viene inviato per due mesi in un centro di detenzione. Quasi quattro anni dopo, è ancora in attesa di una risposta alla richiesta d’asilo così come alla richiesta di permesso per lavoro, inoltrata nel luglio 2019 dopo aver trovato impiego nella cucina di un ristorante di Lisbona, con uno stipendio di 700 euro mensili.
“Aspettavo con ansia il mio appuntamento, fissato per il 31 marzo, quando il SEF mi ha scritto che tutto era sospeso e che avrei dovuto richiamarli a luglio”, racconta con amarezza al telefono, dal suo appartamento di Lisbona, condiviso con altri connazionali. Nel frattempo ha perso il lavoro ed il sussidio economico – che ha richiesto grazie alle nuove misure temporanee – tarda ad arrivare.
“Non avevo mai sentito nominare il Portogallo quando ero in Afghanistan e ora mi trovo qui, dove la gente è amichevole, ma ogni tanto ho l’impressione che le stesse autorità portoghesi non rispettino le leggi che si sono date, costringendoti ad eterne attese”, dice amareggiato Mohammed, parlando del SEF e di una precarietà in cui teme di tornare violentemente, se dopo il primo luglio non troverà un nuovo impiego.
O se – come sperano diverse organizzazioni della società civile – il governo non approfitterà di una situazione straordinaria per estendere i diritti a cittadini stranieri che, come dice Mamadou Ba, alimentano settori chiave dell’economia portoghese.
“Da quando, decenni fa, ho iniziato la mia militanza antirazzista, la società civile portoghese non è mai stata così determinata e rumorosa; ora continuiamo a farci sentire, organizzando reti di aiuto dal basso per chi è in difficoltà e chiedendo un cambiamento sostanziale, una vera regolarizzazione permanente”, spiega l’attivista, che dalla sua casa di Lisbona coordina interventi, raccoglie adesioni a appelli.
“Dalla sua installazione l’anno scorso, il governo ha promesso di migliorare alcune cose e ora siamo alla prova dei fatti”, chiude Ba, suggerendo che forse, la vera buona notizia deve ancora arrivare.
*Nome fittizio
In copertina: spettacolo musicale al Bairro da Jamaica. Foto di Luca Onesti, scrittore e ricercatore presso l’Università di Coimbra
Dal 2017, la Caravana pelo direito à habitaçao [Carovana per il diritto all’abitare] ha attraversato alcuni dei quartieri popolari del Portogallo, tra Porto, Lisbona e la regione dell’Alentejo, per fare pressioni sul governo perché adotti una politica abitativa rispettosa. La gran parte degli abitanti di questi ‘barrios’ sono stranieri, afro-discendenti e rom e vivono in insediamenti informali, sotto la minaccia di sfratti e demolizioni, in condizioni igieniche precarie.