Il riscaldamento globale è diventato un fattore determinante nella scelta migratoria di milioni di persone, costrette da alluvioni, siccità e altri eventi estremi a lasciare la propria terra, al pari di conflitti, violenze e discriminazioni.
L’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni utilizza le definizioni di migranti e sfollati ambientali dal 2007, e nel 2018 anche l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha riconosciuto la crisi climatica come fattore fondamentale dei flussi migratori con il Global Compact for Safe, Orderly and regular Migration, ma il primo riferimento storico a popolazioni sfollate a causa di eventi climatici risale al 1948, quando William Vogt, ornitologo americano considerato il “padre” dell’ecologismo, pronosticò l’avvento di milioni di potenziali migranti ambientali nel suo libro Road to survival.
Migrazioni e capacità di adattamento agli eventi climatici
Il principale organismo internazionale per la valutazione del riscaldamento globale, l’Intergovernmental Panel on Climate Change IPCC ha associato la migrazione climatica ad una serie di fattori che rimandano ad altre categorie, come il rendimento delle colture o gli incendi che hanno un impatto diretto sulla produzione alimentare, oppure alla capacità di adattamento alle condizioni ambientali avverse e alla presenza di infrastrutture efficienti sul territorio. È emerso che nei paesi del Sud del mondo sia molto più complesso far fronte agli eventi climatici estremi, con un conseguente aumento della vulnerabilità della popolazione più povera: secondo i dati dell’Adaptation Gap Report 2024, i paesi in via di sviluppo avrebbero bisogno di un budget fra i 187 e i 359 miliardi di dollari annui per finanziare le strategie di adattamento al riscaldamento globale e ai conseguenti eventi estremi, rispetto ai 28 miliardi di dollari stanziati dai paesi più ricchi (dati 2022).
Il progetto “Le rotte del clima”
Promosso nel 2023 dal Centro Studi Systasis per la prevenzione e la gestione dei conflitti ambientali assieme ad una serie di partner fra i quali l’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione Asgi, il progetto “Le rotte del clima” si concluderà alla fine di quest’ anno, ma nel frattempo ha dato origine ad una pubblicazione che mette insieme i dati raccolti finora.
L’indagine ha coinvolto 348 persone, oggi residenti in Italia, con una storia di migrazione alle spalle.
Alla domanda sul proprio genere hanno risposto solo in 282, per l’88,7% maschi (250) e per l’11,3% donne (32). Si tratta di soggetti prevalentemente adulti (81%), contro il 19% di minori. Fra i paesi di provenienza, quelli maggiormente rappresentati sono il Bangladesh (24,4%), il Pakistan (13%), la Costa d’Avorio (5,2%), il Sudan (3,4%), la Somalia (2,6%) e l’Afghanistan (2,3%). Ai rispondenti è stato chiesto quali conseguenze di evento climatico estremo avessero vissuto, e la maggior parte, 244, ha dichiarato di essersi trovato in pericolo di vita o di aver temuto la morte di familiari e amici. Fra le altre conseguenze indicate, la mancanza di acqua potabile, il rischio di contrarre malattie, l’impossibilità di coltivare la terra e il rischio di distruzione della propria abitazione e delle infrastrutture vicine. Il 78% del campione ha anche dichiarato che di fronte agli eventi estremi le autorità non si sono attivate.
Una scarsa consapevolezza
Dalle risposte al questionario è emersa però una scarsa conoscenza del concetto di cambiamento climatico, reso poi comprensibile attraverso immagini, video ed esempi concreti: il 51% dei partecipanti ha dichiarato di non aver mai pensato che il riscaldamento globale potesse essere una ragione valida per ottenere protezione umanitaria. Eppure il 50% ricorda le alluvioni come evento frequentissimo. Fra le motivazioni per emigrare sono stati indicati soprattutto la ricerca di migliori condizioni di vita, di opportunità di studio/lavoro, i conflitti armati, le discriminazioni/violenze, la salute, e infine il degrado ambientale e del territorio.
Anche l’informazione, una volta arrivati nel nostro paese, non aiuta: nel 2022 Greenpeace ha avviato un monitoraggio sul racconto del riscaldamento globale da parte dei media italiani, ed è emerso che l’attenzione per la crisi climatica è in calo costante. “Sui principali quotidiani e telegiornali italiani dal 2022 al 2024 è diminuita l’attenzione ma è cresciuta la dipendenza economica dalla pubblicità delle aziende inquinanti – spiega Felice Moramarco, project strategist di Greenpeace – i dati più recenti ci dicono che le cause della crisi climatica sono citate solo nel 14,5% degli articoli di quotidiani, circa uno su dieci, e nel 7% delle notizie dei Tg. E il 40% del dibattito sul clima è in mano alle aziende inquinanti.”
Agricoltura e cambiamento climatico
Il cambiamento climatico interessa direttamente chi coltiva della terra, nonostante la poca consapevolezza della maggior parte dei rispondenti, che spesso motivano la decisione di partire con la ricerca di migliori opportunità, ma non associano la siccità, le alluvioni e altri fenomeni climatici alle difficoltà lavorative. Fra gli intervistati che svolgevano attività agricole, la maggior parte proviene da Bangladesh e Pakistan, seguiti dai paesi dell’Africa Subsahariana (Mali, Burkina Faso, Eritrea, Gambia e Guinea) e dall’Afghanistan. Nei paesi d’origine il 60% ricopriva una posizione non qualificata nelle coltivazioni, nell’allevamento o nella pesca, e riporta ricordi di carenza idrica, morte di bestiame e condizioni di vita molto dure.
Il caso del Bangladesh
Paese particolarmente vulnerabile ai rischi climatici, con oltre la metà del territorio situato a meno di sei metri sul livello del mare, il Bangladesh è soggetto a frequenti e improvvise inondazioni, oltre a terremoti e frane soprattutto nella zona orientale. Nelle regioni nord-occidentali, invece, il rischio siccità è associato ai ritardi delle piogge monsoniche. In generale, il paese è stato il settimo al mondo per disastri naturali fra il 2000 e il 2019. Le condizioni climatiche avverse causano innanzitutto migrazioni interne che, come evidenzia il rapporto Le rotte del clima, mette in condizioni di estrema vulnerabilità gli sfollati, costretti a pagare l’affitto anche nelle baraccopoli alle bande locali. Il rischio è quello di contrarre debiti sempre più elevati, che si concretizzano in relazioni di dipendenza lavorativa, minacce e aggressioni, e che portano alla decisione di lasciare il paese per tentare di saldarli.
Il caso del Pakistan
Il Pakistan è fra i primi dieci paesi del mondo per eventi ambientali estremi: nel 2022 un’ondata di calore estrema ha portato a lungo le temperature a 45°; successivamente inondazioni devastanti hanno colpito più di trenta milioni di persone e provocato 8,2 milioni di sfollati interni.
Anche in questo caso, la precarietà finanziaria delle popolazioni colpite spinge a richiedere prestiti tramite canali non ufficiali, alimentando il fenomeno del peshgi, la “schiavitù per debiti”, in cui la vittima è costretta a lavorare gratis o a salario ridotto fino al saldo del debito contratto. In molti casi i datori di lavoro costringono anche i parenti del dipendente a patire la stessa condizione di sfruttamento, che a volte non si estingue nemmeno alla morte del debitore, ma viene tramandato alle generazioni successive.
Meccanismi come questi caratterizzano anche il percorso migratorio delle vittime, ed è per questo che le persone rimpatriate forzatamente in questi paesi definiti “sicuri” non hanno alcuna prospettiva di uscire dalla schiavitù se non emigrando nuovamente.
Donne e vulnerabilità climatiche
Le donne sono state definite come più vulnerabili agli impatti del riscaldamento globale, perché in molte culture hanno il compito di approvvigionare la famiglia con acqua e legna, e sono spesso coinvolte nell’agricoltura di sussistenza, anche se la percezione dell’impatto climatico sulla scelta di spostarsi è bassa soprattutto per coloro che provengono da zone rurali e che quindi risultano direttamente coinvolte.
“La disuguaglianza di genere è visibile anche fra le vittime del riscaldamento globale – continua Moramarco – in tempi di disastri, le donne e le minoranze di genere hanno maggiori probabilità di essere ferite e meno possibilità di sopravvivere. Hanno un accesso limitato ai soccorsi e all’assistenza in caso di calamità e affrontano un rischio maggiore di violenza sessuale e fisica, soprattutto se sono sfollati e vivono in alloggi temporanei, dove mancano di privacy e sicurezza. Nonostante le donne siano maggiormente colpite dai disastri ambientali, alle ragazze e alle donne è stata impedita la piena ed equa partecipazione al movimento globale per l’azione per il clima. Chi alimenta il riscaldamento globale, quindi, si accanisce anche e soprattutto contro le donne.”
Il riconoscimento dei migranti climatici
I fattori climatici, pure estremi, non sono ritenuti validi per l’ottenimento dello status di rifugiato ai sensi della Convenzione di Ginevra, e attualmente non esiste ancora un accordo internazionale o europeo che tuteli coloro che migrano a causa del riscaldamento globale. Gli unici spazi, seppure minimi, di tutela, sono offerti da forme di protezione secondaria. In Italia si riconosce il permesso di soggiorno per calamità, ma solo finché persistono le condizioni ambientali sfavorevoli nel paese d’origine, previsto dal D.l. 113 del 2018 e poi riformato dal D.l. 20 del 2023, il cosiddetto Decreto Cutro, e dalla legge di conversione 213/2023. Il permesso di soggiorno dura sei mesi, rinnovabile per altri sei, ma con le ultime modifiche ha ottenuto una formulazione più restrittiva: può essere ottenuto solo in caso di calamità eccezionale e non può essere convertito in permesso di soggiorno per motivi di lavoro.
In Germania, invece, è stato occasionalmente riconosciuto il divieto di espulsione e poi concessa la protezione umanitaria per catastrofi ambientali a favore di richiedenti asilo provenienti dall’Afghanistan e dalla Somalia.
Secondo i ricercatori diventa cruciale rafforzare la centralità dei fattori climatico-ambientali nella valutazione della vulnerabilità dei soggetti che cercano protezione, dato che gli eventi estremi possono esacerbare la povertà, i conflitti e le violazioni dei diritti umani.
L’impatto sull’ambiente dell’esternalizzazione delle politiche migratorie
Negli ultimi anni l’Unione Europea ha finanziato diversi progetti per potenziare il controllo delle frontiere ed esternalizzare il più possibile la gestione dei flussi migratori. Spesso, come nel caso della Tunisia e prima ancora della Libia, si è assistito a gravi violazioni dei diritti umani, discriminazioni e promozione di un discorso d’odio soprattutto nei confronti dei cittadini provenienti da paesi dell’Africa subsahariana. Le politiche restrittive hanno inciso anche sulla vita delle comunità costiere del Mediterraneo, limitandone l’accesso al territorio e alle risorse del mare; inoltre, il controllo dei movimenti di persone provenienti da Sudan, Ciad e Guinea ha generato conflitti per l’accesso a risorse scarse come l’acqua e la terra, in aree già vulnerabili al degrado ambientale. Chi proviene dalla Tunisia, considerata paese sicuro, molto difficilmente ottiene protezione, anzi molto più probabilmente è destinato al rimpatrio come migrante economico.
Un altro esempio citato nel Rapporto è quello del più recente memorandum che l’Italia ha siglato con l’Albania, in assenza di garanzie per l’identificazione delle persone più vulnerabili, e con un elenco di paesi di origine definiti sicuri fra i quali figura il Bangladesh.
“Il riscaldamento globale sta già influenzando i flussi migratori, e i paesi più colpiti sono, paradossalmente, quelli che hanno contribuito meno alla crisi climatica – dice Moramarco – e le migrazioni che interessano l’Italia sono sempre più legate alla crisi climatica. Contrastare la migrazione non significa stringere accordi con regimi discutibili o lasciare le persone alla deriva in mare, trattandole come se fossero prive di diritti. La vera soluzione è affrontare le cause alla radice, fermando l’estrazione e l’uso dei combustibili fossili e avviando una transizione ecologica giusta e sostenibile. Solo così si potrà garantire un futuro vivibile per tutti, senza sacrificare la dignità e la vita di chi è costretto a fuggire. La crisi climatica aggrava le condizioni socio-economiche esistenti, aumentando la vulnerabilità delle popolazioni e costringendo molte persone a lasciare le proprie terre. La mancanza di risorse, come l’acqua, e la perdita di mezzi di sussistenza legati all’agricoltura sono fattori determinanti nelle decisioni migratorie.
Chi paga la crisi climatica sono i più poveri, quelli economicamente più svantaggiati, perché non hanno misure per mitigarne gli effetti: vedremo sempre più persone spostarsi dal sud verso il nord, un fenomeno giù drammatico alimentato anche dalla siccità e dalla desertificazione, o dalle aree urbane a quelle rurali per contrastare le ondate di calore. Succede anche in Italia, che seppure nel nord del mondo, è uno dei più colpiti dagli eventi climatici.”
Nonostante le evidenze, le dichiarazioni di intenti internazionali per la mitigazione degli effetti del riscaldamento globale rischia di restare sulla carta. L’esempio più recente di una sottovalutazione e marginalizzazione del problema è la nuova politica americana del secondo mandato Trump, che non solo ha disposto il ritiro degli Stati Uniti dagli Accordi di Parigi sul clima, ma ha anche emanato una serie di ordini esecutivi per facilitare lo sfruttamento delle riserve di combustibili fossili e congelare i finanziamenti stanziati attraverso l’Inflation Reduction Act, la più grande mobilitazione americana di fondi per il clima.