All’inizio di questo mese Novak Djokovic è atterrato in terra australiana con la speranza di vincere il suo 21° torneo di tennis del Grande Slam. Ha finito per essere detenuto (per essere poi espulso) tra le mura del Park Hotel di Melbourne insieme a circa 30 rifugiati e richiedenti asilo, tra cui Salah Mustafa, che è arrivato in Australia a 14 anni dopo essere fuggito dai pericoli dell’Iraq in guerra. Oggi Djokovic è al sicuro nella sua patria. Si dice che stia considerando un’azione legale contro il governo australiano per il suo trattenimento. Salah ora ha 23 anni, è stato rinchiuso in detenzione per 8 anni, perdendo la possibilità di studiare e gran parte della sua giovinezza.
Durante le fasi successive all’arrivo di Djokovic, comprese due brevi periodi di detenzione e due udienze molto pubblicizzate (una vinta da Djokovic e una persa, determinando la sua successiva deportazione), molti commentatori a livello internazionale e nazionale hanno preso di mira le politiche di immigrazione dell’Australia, spesso con toni sprezzanti. Folle di manifestanti si sono lealmente riunite fuori dal Park Hotel per rendere noto il loro disappunto per il trattamento del loro eroe sportivo. Djokovic non è sfuggito alle critiche per le sue azioni e opinioni (una tema che esula da quello di questo articolo) e molti hanno sostenuto che la reputazione dell’Australia sia stata macchiata a causa del trattamento nei confronti dell’attuale numero uno del mondo di tennis maschile.
Con quest’ultima tesi potremmo tranquillamente essere d’accordo, ma in questo caso sarebbe ben più grave la critica da rivolgere alla comunità globale.
E cioè che la perdita di reputazione dell’Australia in merito alle politiche e pratiche di immigrazione del nostro paese, tanto crudeli quanto capricciose, non sia stata innescata dalla detenzione a tempo indeterminato di oltre 270 persone tra rifugiati e richiedenti asilo sulla terraferma e in isole remote – alcuni trattenuti per più di 9 anni -, ma sia invece stata scatenata dal trattamento nei confronti di un uomo ricco e famoso che cercava di entrare in Australia per un torneo sportivo ben pagato. Un uomo che è stato tenuto in detenzione per pochi giorni e che ha avuto accesso quasi immediato ad avvocati di prim’ordine potendo così appellarsi al sistema giudiziario per difendersi.
“È così triste”, ha dichiarato Mehdi Ali, un rifugiato detenuto nello stesso hotel in cui era detenuto Djokovic: “così tanti giornalisti mi hanno contattato […] per chiedere di Djokovic. Sono stato in una gabbia per nove anni. Oggi compio 24 anni, e tutto quello di cui volete parlarmi è questo”.
Per essere chiari – i giudizi severi sul trattamento dei detenuti da parte dell’Australia e le sue politiche di immigrazione in generale sono giustificati. La mancanza di rispetto dell’Australia per il diritto umanitario internazionale è palpabile, crudele e stupefacente.
Ancora oggi circa 70 richiedenti asilo portati sulle coste australiane in base all’ormai defunta legislazione Medevac sono detenuti in centri per migranti, compresi i circa 33 uomini detenuti nello stesso Park Hotel che ha ospitato Djokovic. Oltre il mare, circa 224 richiedenti asilo rimangono trattenuti, languendo in condizioni precarie, in Papua Nuova Guinea e sull’isola di Nauru. Il numero di detenuti ha raggiunto le 10.201 unità in alcuni momenti dell’ultimo decennio.
Il governo australiano ha dovuto essere portato in tribunale più volte nel corso dell’ultimo decennio da organizzazioni umanitarie e ONG che lottano per garantire i diritti umani di base dei detenuti e spende ostinatamente milioni di dollari dei contribuenti per appellarsi alle decisioni che obbligano il governo a rispettare i diritti dei migranti. Alla fine di dicembre del 2021 sono emerse foto e rapporti su migranti detenuti a cui veniva servito cibo infestato da vermi e muffa nello stesso hotel in cui Djokovic è stato “ospitato”. Nel 2015 il Guardian Australia ha riferito che sono stati trovati denti umani in un pasto servito a un richiedente asilo nel centro di detenzione di Manus Island. Le Nazioni Unite sono state costantemente e giustamente critiche nei confronti del regime di detenzione dei migranti in Australia.
In risposta a questi problemi ed eventi critici, il governo australiano ha reagito con sfida rafforzando i “poteri divini” che il ministro dell’Immigrazione ha in base al Migration Act 1958 (Cth) e che gli permettono di cancellare un visto, essenzialmente per capriccio, indipendentemente dal motivo per cui un funzionario o un tribunale l’abbia concesso. Mentre proprio la scorsa settimana, il primo ministro Scott Morrison ha erroneamente affermato che le persone detenute per l’immigrazione non sono rifugiati, quando la maggior parte di quelle attualmente detenute al Park Hotel sono effettivamente rifugiati riconosciuti. Giorni dopo avrebbe tentato di negare di aver fuorviato il pubblico con i suoi commenti, pur modificando le sue parole sull’argomento e rifiutando di scusarsi. Il suo governo continua a sostenere che coloro che arrivano via mare lo fanno illegalmente, in costante e stridente contrasto con il diritto internazionale, compresa la Convenzione sui rifugiati (di cui l’Australia è firmataria) che è abbastanza chiara nell’affermare che la ricerca di asilo non è illegale.
In ogni caso, ora che la star internazionale del tennis e ora simbolo (suo malgrado?) della comunità anti-vax Djokovic se n’è andato, si sono accesi i riflettori su questa importante questione. Un riflettore che è criticamente necessario per assistere coloro che sono ancora detenuti a tempo indeterminato, sulla scia dell’attenzione dei media che è in ritardo di anni.
Djokovic ha perso l’opportunità di vincere un altro titolo dello slam e di guadagnare premi da milioni di dollari. I rifugiati e i richiedenti asilo detenuti a tempo indeterminato, invece, continuano a perdere la loro salute, la loro gioventù, i loro diritti, le libertà fondamentali, oltre che a volte le loro stesse vite. Il rifugiato Reza Barati è stato assassinato nel centro di detenzione di Manus Island nel 2014 e un alto numero di altri rifugiati e richiedenti asilo sono morti per suicidio o per gli effetti di malattie non curate e abbandono. Resta da vedere se l’impatto della crudele politica d’immigrazione dell’Australia su una ricca star internazionale possa portare un cambiamento per le centinaia di detenuti che ancora languono in detenzione, senza purtroppo troppi riflettori puntati.
*Fabi Fugazza è un avvocato austaliana, accademico dei diritti umani e COO di CILD.
Foto di copertina via Twitter.