Zawiya, Libia, 28 giugno 2016. La petroliera Temeteron naviga a 11 miglia dalla costa. È una nave imponente: un tanker di 110 metri di lunghezza che può contenere fino a 4.600 tonnellate; uno di quei giganti, lunghi e piatti, che attraversano le autostrade del mare a basse velocità e per lunghissimi periodi.
Nel 2016, la Temeteron viaggiava spesso da quelle parti: un andirivieni continuo dalle acque del Mediterraneo davanti alla Libia, fino al porto di Odessa, in Ucraina, o ai porti russi affacciati sul Mar Nero. Il 28 giugno 2016, però, appena prima che uscisse dal territorio nazionale libico, ossia le acque che si allungano fino a 12 miglia dalla costa, è stata intercettata dalla Guardia Costiera di Zawiya. Anzi, come la definiscono i due ricercatori Mark Micallef e Tuesday Reitano in questa ricerca, dalla “Guardia costiera della raffineria di Zawiya”. Il legame tra l’autorità costiera e il polo industriale della città è infatti indissolubile: quei guardacoste, dotati di due unità navali, sono gli stessi che tra gennaio e giugno 2017, secondo la ricerca di Reitano e Micallef, intercetteranno 5.707 migranti sui 10.989 fermati in tutto dalla Guardia costiera libica.
Torniamo al 28 giugno 2016: la Guardia costiera di Zawiya scorta la Temeteron fino al porto di Tripoli, dove la lascia nelle mani della Marina militare libica. Temeteron si ormeggia: è in stato di fermo e con lei anche l’equipaggio. L’indomani, durante una conferenza stampa, il portavoce della Marina libica Ayoub Qasim sostiene che i suoi uomini abbiano trovato a bordo della petroliera 5.227 tonnellate di gasolio di contrabbando, rubato dalla raffineria di Zawiya. Il dato, riportato su diversi media, sembra scorretto, perché supera il tonnellaggio della nave. Non ci sono però altre versioni. Il fermo è stato certamente convalidato: l’equipaggio – cinque ucraini, tre russi e un greco – è rimasto nelle carceri libiche fino al 2 marzo 2017.
Navi come la Temeteron, con gli stessi presunti carichi illeciti, passano spesso al largo di Zawiya. Eppure i controlli delle autorità locali sono sporadici. Il motivo è semplice: la Guardia costiera della città è parte di un’organizzazione criminale che contrabbanda gasolio. Secondo i rapporti delle Nazioni Unite, quella stessa Guardia costiera è coinvolta anche nel traffico di esseri umani. Migranti e gasolio, insieme al greggio, sono i pochi “beni di esportazione” della Libia: controllare questi mercati, di fatto, significa avere le mani sull’export del paese.
La raffineria protetta dalla Guardia costiera
La Azzawiya Oil Refinery Company è una raffineria di proprietà statale, aperta nel 1974. È la più grossa della Libia, con una capacità massima di 120 mila barili di greggio al giorno. La controlla la National Oil Company (Noc), l’azienda statale che gestisce gas e petrolio. È socia alla pari della nostra Eni nella Mellitah Oil & Gas, joint venture italo-libica che sorge sempre nella striscia di costa libica famosa come luogo di partenza degli sbarchi.
La Noc è l’unica autorità del paese nordafricano che può approvare le esportazioni all’estero. Da maggio del 2014 a guidarla è Mustafa Sanalla, manager risoluto, consapevole di occupare il vertice dell’unica istituzione del paese capace, almeno in un immediato futuro, di dare un’economia alla Libia. Il 18 aprile, durante il convegno Oil & Fuel Theft a Ginevra, Sanalla ha affermato che la Libia ogni anno perde 750 milioni di dollari: il 30-40 per cento del gasolio e del greggio importati o prodotti dalla Libia “viene rubato”, ha detto. In altre parole, viene esportato senza un’autentica autorizzazione della Noc, e quindi senza che la compagnia statale libica possa incassare un centesimo di tasse da questa compravendita.
Gli unici a guadagnare, così, sono i criminali che appartengono al cartello che ha portato il prodotto fuori dalla Libia. Gli acquirenti, che pagano il prodotto in media un terzo del prezzo di mercato, sono soprattutto italiani, spagnoli, tunisini, turchi e russi. A febbraio, la Procura generale di Tripoli ha spiccato 144 mandati d’arresto per traffico di gasolio nell’ovest della Libia. Non sono ancora noti né i nomi dei ricercati, né quanti di loro siano stati effettivamente portati in carcere.
La mafia libica dei Koshlaf e di al-Bija
La storia della Temeteron fa parte dell’inchiesta Dirty Oil, lavoro della procura di Catania che ha indagato sulla parte di prodotto che finisce nelle raffinerie italiane, portando in carcere sette persone. Il petrolio tracciato dall’operazione – 82 mila di tonnellate in un anno – rappresenta un trecentesimo del mercato italiano, secondo la stima dell’associazione dei petrolieri Assopetroli.
Per camuffare i carichi di contrabbando, i gruppi di trafficanti – rivela l’inchiesta – falsificano i certificati d’origine del gasolio, oppure applicano finti timbri d’autorizzazione della Noc. In questo modo, i documenti sono validi per lo scarico in qualunque raffineria europea.
Daphne Caruana Galizia, giornalista maltese assassinata con un’autobomba il 16 ottobre, si era resa conto del fiorire di questo contrabbando sulla sua isola: Malta è il centro dove si svolge la maggior parte di queste contraffazioni. Il centro di giornalismo investigativo IRPI ha proseguito il suo lavoro, investigando sui protagonisti di questi traffici che partono da Malta. L’inchiesta di IRPI è stata pubblicata con il Daphne Project, progetto di giornalismo collettivo nato allo scopo di proseguire ciò che aveva scoperto o intuito la giornalista assassinata.
Una pista investigativa porta da Malta alla Libia, dove sta una parte dell’organizzazione criminale arrestata a seguito dell’inchiesta Dirty Oil. In larga misura, i membri del gruppo libico sono ancora liberi. Almeno per tutto il 2016-17, la loro organizzazione è stata tra le più potenti della striscia costiera di 150 chilometri che dal confine con la Tunisia corre fino a Zuwara. Al suo vertice, Walid Koshlaf e Mohammed Koshlaf (detto al-Qasseb): secondo l’Onu, fratelli, e secondo un articolo determinante di Nancy Porsia su Trt, cugini. Uno dei loro luogotenenti è una vecchia conoscenza dell’Italia: la scorsa estate è stato accusato da Washington Post e Middle East Eye di essere a capo della Guardia costiera pagata e addestrata dal governo italiano per fermare i migranti. Il suo nome è Abdurahman al-Milad, detto al-Bija.
Come si legge nel rapporto Onu del 1 giugno 2017, al-Bija con altri guardacoste “è direttamente coinvolto nell’affondamento delle navi dei migranti a colpi di armi da fuoco”. Dal rapporto Onu sappiamo anche che i Koshlaf dentro la raffineria di Zawiya “hanno aperto un rudimentale centro di detenzione dei migranti”(di cui in questo rapporto di Amnesty si vede una foto satellitare a pag.28). Una parte dei migranti “salvati” da al-Bija viene spesso condotta al centro di detenzione dei Koshlaf. Dal marzo 2016, la prigione risulta accreditata come centro sotto la direzione del Dipartimento per la lotta all’immigrazione irregolare (Dcim) del Governo di Tripoli. A dicembre 2016, la missione Onu in Libia (Unsmil), insieme all’Alto commissariato Onu per i diritti umani, ha pubblicato un rapporto in cui elencava le violazioni compiute in quelle strutture, compresa quella di Zawiya. L’Unicef riporta che per uscire da questi centri è necessario pagare una sorta di riscatto alle guardie carcerarie (cioè alle milizie).
La tribù dei Koshlaf, gli Awlad Bu Hmeira, a cui appartiene anche al-Bija, controlla stabilmente la raffineria dal 2014. Quella che durante la guerra civile era una milizia tribale, oggi è una forza “regolare”, ufficializzata come corpo di guardia all’esterno del compound della raffineria di Zawiya: sono le Petroleum Facility Guard (Pfg), divisione di Zawiya, titolari di un contratto con la Noc. Prima del 2016 era la Brigata al-Nasr, una milizia pro-islamista che nel 2014 ha fatto parte della coalizione Libya Dawn, prima dell’avvento del governo sponsorizzato dalla Nazioni Unite guidato da Fayez Serraj. Secondo i rapporti Onu, la brigata è la prima responsabile dei furti di petrolio alle raffinerie, tanto che a gennaio 2017 Sanalla l’aveva formalmente deposta, arrivando a definire “terroristi” i suoi componenti. Nell’ultimo rapporto della Chatham House di Londra, però, si riporta che già il 16 ottobre 2017 i Koshlaf sono tornati a capo della milizia a difesa della raffineria di Zawiya.
Perché la Temeteron è stata fermata?
Tutte le operazioni che hanno portato a intercettare navi cariche di gasolio di contrabbando, secondo l’inchiesta Dirty Oil, sono avvenute nella zona tra Abu Kammash e Zuwara, vicino al confine libico-tunisino, zona di competenza della Guardia costiera di Zawiya.
Eppure i suoi guardacoste non sono sempre efficienti e zelanti. La Temeteron, che ha un curriculum di contrabbando alle spalle (sigarette nel 2004 e poi gasolio nel 2015, per il quale venne fermata in Grecia), prima di quella data non era mai stata fermata dai libici. Secondo gli inquirenti, però, si era già dedicata al traffico di gasolio. Allora cos’è successo di diverso, il 28 giugno 2016?
La risposta ce l’ha Fahmi Ben Khalifa, l’uomo che per conto dei Koshlaf gestiva le partite di gasolio di contrabbando dirette prima a Malta e poi in Italia. Un altro “affiliato” alla loro associazione a delinquere. Ben Khalifa aveva anche una società di trading e una nave, Tiuboda, battezzata con il nome di una città berbera ormai scomparsa sott’acqua.
Ben Khalifa, alias il Malem, il capo, faceva affari insieme a due maltesi, Darren e Gordon Debono (che non sono parenti) e a un siciliano legato a Cosa Nostra, Nicola Orazio Romeo. Questi è in carcere dall’agosto del 2017, arrestato dalle Rada, le forze speciali del Ministero dell’Interno. I suoi partner sono in carcere in Italia da ottobre 2017, quando è scattata l’inchiesta Dirty Oil. Secondo un rapporto Onu ancora inedito che abbiamo consultato, gli interessi di Ben Khalifa ora sarebbero curati dai fratelli, proprietari di una stazione di benzina di contrabbando a Marsa Tiboda, vicino Abu Kammash.
La scalata per la Temeteron
Il cartello internazionale, a differenza della branca libica dell’organizzazione, non ha legami di clan. Non c’è nulla, se non il profitto, a tenere insieme contrabbandieri e fornitori. Tra i due Debono non correva nemmeno buon sangue: Darren era il più legato a Ben Khalifa – il fornitore libico – e a Romeo – l’uomo che gli mette a disposizione gli acquirenti in Italia. Ma Gordon Debono disponeva, grazie ai suoi contatti, di importanti compagnie di trasporto marittimo che vanno dalla Spagna all’Ucraina. La sua esperienza da broker era la più longeva.
Nel momento in cui il rapporto fra Darren e Gordon si logora, Darren e Ben Khalifa provano a impossessarsi della Temeteron, che è una nave di dimensioni paragonabili a quelle a disposizione di Gordon. Vogliono trovare un modo per fare a meno di lui. La scalata per la Temeteron, però, fallisce, alla fine Gordon riesce a soffiare loro l’affare e comprarsi la nave. Intercettati dalla Guardia di Finanza di Catania durante una telefonata, due acquirenti italiani vicini a Darren hanno raccontato che è stato il libico ad aver segnalato alle autorità libiche il carico illecito a bordo della Temeteron e – a pochi giorni distanza – della San Gwann, altra petroliera riconducibile a Gordon Debono. Questa ipotesi, come si desume da vari dettagli delle carte dell’inchiesta Dirty Oil, è accreditata anche dagli investigatori.
Traffico di gasolio e traffico di migranti, quindi, sono due facce della stessa medaglia. Se lo scopo della lotta ai trafficanti ha anche l’obiettivo di stabilizzare la Libia, come detto in più occasioni pubbliche dal Ministro dell’Interno Marco Minniti, allora la strategia è da rivedere. L’Italia ha legittimato l’esistenza di questa Guardia costiera, lasciandole, in sostanza, la possibilità di arricchirsi, oltre che con i migranti, anche con il traffico di gasolio. I nostri inquirenti si trovano così nella situazione di dover arrestare componenti di quel cartello con cui il Viminale ha in realtà siglato un accordo di collaborazione.
In copertina: migranti assistiti dall’Unhcr il 14 marzo 2018, dopo essere stati intercettati in mare dalla Guardia Costiera libica e portati alla base navale di Tripoli, come migliaia di altri nei primi mesi del 2018 (foto: Unhcr/Sufian Said, come tutte le immagini di questo articolo)