Scarcerato perché vittima di uno scambio di persona, eppure allo stesso tempo condannato per favoreggiamento all’immigrazione clandestina a 5 anni di reclusione e 100mila euro di multa. La vicenda di Mered Tesfamariam Behre, il falegname e lattaio classe 1987 che dal 7 giugno 2016 al 12 luglio 2019 è stato in carcere in Italia con l’accusa di essere l’uomo che non era, continua nel paradosso anche dopo la sentenza di primo grado, pronunciata il 12 luglio a Palermo. La procura – che chiedeva 14 anni – lo riteneva Medhanie Yedhego Mered, alias Il Generale, il capo dei capi della presunta cupola dei trafficanti in Libia. Paese in cui Behre ha sempre detto di non essere mai stato. Come se Kafka non fosse sufficiente, l’assurdo prosegue dopo il processo.
Medhanie Tesfamariam Behre si trova in un Centro per il rimpatrio in attesa di essere espulso, come prevede il Decreto sicurezza nel caso di un richiedente asilo condannato, anche non in via definitiva. L’avvocato Calantropo ha chiesto subito la scarcerazione: “Il giudice di Caltanissetta ha convalidato l’arresto. Ovviamente presenterò ricorso in Cassazione”, spiega. Al terzo e ultimo grado di giudizio perché il Decreto Salvini, per i casi di diniego di richiesta d’asilo, l’appello è stato soppresso. Secondo il principio del non refoulment previsto dall’articolo 33 della Convenzione di Ginevra, se l’Italia respingesse Behre o chiunque altro verso l’Eritrea o il Sudan, subirebbe una condanna dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. Eventualità che non conviene all’Italia. Risultato: Behre resta nel limbo, ma sempre dietro le sbarre, almeno fino a che non si scioglierà all’ultimo grado di giudizio il nodo giuridico che lo riguarda.
La mega-inchiesta da cui è nato il procedimento che poi ha portato all’arresto del ragazzo eritreo di 32 anni, Glauco, è la prima in cui si sono applicati i metodi antimafia – in particolare l’uso massiccio di intercettazioni, in questo caso 20mila, e un collaboratore di giustizia – per il contrasto all’immigrazione irregolare. Cominciata all’indomani della strage di Lampedusa dell’11 ottobre 2013, Glauco si è sviluppata nel 2015 in una seconda inchiesta, Glauco II, che ha investigato le reti dei trafficanti tra Libia e l’Italia, in particolare Palermo, Agrigento, Catania e Milano. A partire da quel fermo ha cominciato a circolare la famosa fotografia di Medhanie Yedhego Mered l’uomo riccioluto con una maglia blu a righe rosse, al collo un pesante crocifisso, i baffi e le sopracciglia folte. L’uomo tanto diverso dal ragazzo sceso dalla scaletta dell’aereo atterrato il 7 giugno a Ciampino, proveniente da Khartoum. Per Michele Calantropo, l’avvocato di Behre, quell’immagine è come il famoso quadro di Magritte “Ceci n’est pas une pipe”: l’inizio del paradosso in cui testo e immagini non combaciano.
Durante l’udienza del primo luglio, Calantropo ha raccontato l’episodio in cui se ne è reso conto, che poi è il momento in cui comincia la sua difesa: la chiamata della sorella di Behre, Hiwet, che aveva ottenuto il suo numero di telefono da una rete di attivisti eritrei. In lacrime, la donna gli disse che quello in manette era suo fratello e non il Generale. Dopo che gli fornì il documento, Calantropo prese un aereo e andò a Roma, dove si trovava il suo nuovo assistito. Ha ricordato il volto spaesato del ragazzo e il racconto delle percosse subite nel corso dell’arresto al Caffè Asmara di Khartoum, in Sudan. Le forze dell’ordine sudanesi che hanno condotto l’operazione rispondevano agli ordini di Omar al-Bashir, dittatore con due condanne pendenti alla Corte penale internazionale dell’Aja con il quale Italia e Unione europea hanno in corso importanti collaborazioni sul piano del traffico agli esseri umani.
Il metodo antimafia adottato nell’inchiesta durante il processo è stato più volte difeso e giustificato dal pool di magistrati palermitani. Sul piano politico – piano fuori dal controllo della Procura di Palermo ma che ha inevitabilmente contribuito ad alzare la posta in palio di questo processo – ha avuto il vantaggio di porre l’Italia in una posizione di leadership nel contrasto dell’immigrazione irregolare. Eppure lo scambio di persona è ora confermato da una prima sentenza.
Le lacune più grosse riguardano ancora la comprensione dei nuclei criminali. Ci sono traduzioni discordanti tra i periti della difesa e dell’accusa: il gergo ancora sfugge, comprensibilmente data la difficoltà del tigrino. Ci sono interpretazioni semantiche che non quadrano. I casi più clamorosi riguardano le parole Wedi e Mesi, entrambi considerati nomi dalla Procura. La difesa invece sostiene siano altro: il primo un sostantivo, “figlio di”, l’altro un avverbio, “quando”. Quindi, stando alla ricostruzione della difesa, Behre potrebbe essere stato condannato per avere contribuito a trafficare un avverbio. Secondo la difesa, il momento della svolta è stato il 23 maggio 2016, quando tutto l’impianto accusatorio ricostruito dall’accusa è stato scaricato su un uomo che nulla c’entrava con il boss individuato in Glauco II. Se il pool antimafia di Palermo negli anni ha saputo infliggere colpi durissimi a Cosa Nostra, però, è proprio perché sapeva leggere quella cultura, tradurla, interpretarla nel modo corretto. Evidentemente, per lo smuggling Libia-Italia non c’è ancora questo livello di conoscenza.
Per conoscere le motivazioni che hanno portato alla condanna di Behere a 5 anni si dovrà attendere ottobre, quando la sentenza sarà depositata. È però un fatto che i capi d’imputazione per i quali Behre è stato condannato non appartengono alla prima richiesta di rinvio a giudizio depositata dai pm nell’aprile 2016, ma invece sono stati aggiunti in seguito, a maggio del 2018, quando la Procura ha chiesto di estendere il periodo in esame delle attività criminali e ha aggiunto dei reati concorrenti, in particolare per l’organizzazione dei viaggi (tra cui quello di Mesi o dell’avverbio “quando”).
Un altro fatto è che il cugino di Behre avrebbe voluto farsi sentire dalla Corte, ma la sua richiesta alla fine è stata respinta. Se fosse stato ascoltato, avrebbe spiegato alla Corte che accade con grande frequenza che un parente si rivolga a un altro membro della famiglia – che ha già affrontato la traversata – per capire a chi rivolgersi, senza che questo lo renda un trafficante.
Sul punto, certamente, si tornerà nel processo d’appello. Ci sono però 74 biglietti con contatti di persone collegate alla rete criminale scritti di suo pugno da Behre, stando a quanto stabilito dalla perizio calligrafica. Rilevante? Secondo la procura sì, secondo la difesa no.
L’impianto accusatorio di Glauco II poggia molto sulle dichiarazioni rese da Nuredin Wehabrebi Atta, definito il super pentito nel traffico di esseri umani. Mentre lo intercettavano nella prima fase dell’indagine, Atta stava cercando di organizzare matrimoni combinati “tra italiani e stranieri allo scopo di garantire a quest’ultimi la possibilità di introdursi in territorio italiano mediante la procedura del ricongiungimento familiare”, si legge nella requisitoria del pm. Sulla sua affidabilità c’è stato un pesante scontro tra l’avvocato Calantropo e la procura. Calantropo la mette in dubbio mentre Ferrara sottolinea che con le sue deposizioni si è autoaccusato di oltre 50 episodi di traffico e ha permesso di individuare altre 34 persone dell’associazione criminale, producendo sequestri per oltre un milione di euro. Ma il limite – sostiene Calantropo – sta nel fatto che “la patente di credibilità” di Atta deriva da un processo in abbreviato, che non ha messo davvero al vaglio le sue dichiarazioni. Di certo sarà un altro fattore su quale si tornerà in appello.
Secondo l’accusa, l’organizzazione di trafficanti di esseri umani operante tra Libia, Corno d’Africa e Sicilia tra il 2014 e il 2016 aveva al suo vertice Medhanie Yedhego Mered e Ermias Ghermay (l’etiope che ha organizzato lo sbarco conclusosi con il naufragio di Lampedusa dall’11 ottobre 2013). Entrambi sono ancora latitanti. Curiosa coincidenza, sempre il 12 luglio, ma di un anno fa, la Gup di Palermo Annalisa Tesoriere condannava con rito abbreviato Asghedom Ghermay e Yonas Gebititoys a 10 anni di reclusione, ritenuti i capi dell’organizzazione in Sicilia, quelli che organizzavano i viaggi dall’Italia al Nord Europa, facendo fuggire i migranti soprattutto dal Cara di Mineo, oggi chiuso. In tutto le condanne inflitte in quel processo sono state 16, con un assolto, difeso sempre da Calantropo. Anche le altre condanne con rito ordinario hanno individuato parte della cellula in Italia, ma nulla è emerso della rete criminale in Libia e nel Corno d’Africa. Eppure l’Unione Europea ha avuto dal 2015 ad oggi l’operazione congiunta tra marine militari, Sophia, proprio allo scopo di combattere i trafficanti di esseri umani. L’unico finito nella rete, finora, è stato proprio Behre, scambiato per Mered. L’agenzia anticrimine britannica Nca, che ha contribuito all’arresto, si è compiaciuta del fatto che Behre abbia avuto una condanna “per crimini significativi”. Come se lo scambio di persona non ci fosse stato.
Se c’è una morale in questa storia assurda è che le politiche europee concepite dal 2015 ad oggi hanno fallito. Criminalizzare l’immigrazione e esternalizzare il controllo delle frontiere sono due cause a monte dei paradossi del caso Mered. Costruire l’accusa su testimonianze di vittime di traumi che per altro devono ai loro carnefici la possibilità di arrivare in Europa si è rivelato altrettanto inefficace per colpire i pezzi grossi dell’organizzazione. Al massimo si prendono gli scafisti, ovvero gli stessi migranti messi alla guida dell’imbarcazione. E spesso questi ultimi vengono rilasciati durante il processo perché al di là dell’ingresso irregolare in Italia non hanno commesso alcun crimine.
Un’ammissione dell’inadeguatezza delle leggi odierne l’ha fatta lo stesso pm Calogero Ferrara, quando durante l’udienza del verdetto ha dichiarato “non condivido il reato d’immigrazione clandestina, se non altro per tutti i problemi che comporta e per la sua assoluta scarsa efficacia deterrente”. Tesi già sostenuta in audizione al Comitato Schengen nel 2015: “Abbiamo un reato di immigrazione clandestina, di fatto punito con mi pare 5.000 o 10.000 euro di multa, il cui effetto deterrente per soggetti che hanno visto torture inenarrabili nel loro viaggio, che sono stati in viaggio per anni dal centro Africa attraverso il deserto, attraverso i barconi stivati di persone, pagando migliaia di euro o di dollari per questo loro viaggio, è assolutamente irrisorio”.
La deriva securitaria, sempre più accentuata nonostante il calo degli sbarchi, vuole che un giro di vite sul reato di clandestinità equivalga a risolvere il problema migratorio. Nei fatti la stessa testimonianza dei magistrati suggerisce il contrario: scaricare la responsabilità politica di gestire l’immigrazione sulle spalle del sistema giudiziario intasa solo gli uffici delle procure. È un vizio italiano che vale dovunque ci sia una materia complessa: si arma la magistratura sperando che elimini il problema. Trasformando la realtà in un continuo paradosso, dove le leggi non sono in grado di inquadrare situazioni reali. Come quella di un eritreo vittima di uno scambio di persona su cui pende una sentenza di primo grado per aver facilitato il tentativo del cugino di raggiungere l’Italia.
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Immagine di copertina: la carta d’identità eritrea dell’uomo attualmente detenuto come il trafficante Mered, uno degli elementi che dimostrerebbe l’errore di identificazione