I reinsediamenti sono uno strumento tanto utile quanto poco usato dagli stati europei. Tra il 2014 e il 2018, ne hanno beneficiato 76.205 rifugiati. Nello stesso periodo i migranti arrivati in UE via mare in modo irregolare sono stati quasi due milioni. Il confronto è impietoso. I reinsediamenti non sono l’unico canale legale di accesso in Europa, ma i dati che li riguardano mettono in evidenza la mancanza di volontà politica di gran parte dei paesi europei nell’affrontare la questione. Di tutte le persone reinsediate, più di nove persone su dieci sono state reinsediate in nove stati membri, Svezia e Regno Unito pesano per circa il 45 per cento del totale e quattro nazioni non hanno accolto nemmeno un rifugiato con queste modalità.
I reinsediamenti, quindi, nonostante l’UE li finanzi, rimangono pochi e mal distribuiti.
Eppure, vale la pena capire il ruolo che i contributi economici dell’Unione Europea hanno giocato nella loro attuale diffusione. E che potranno giocare in futuro in una loro eventuale crescita. É con questi obiettivi che Ecre e Unhcr hanno pubblicato il terzo rapporto Follow the money, che analizza l’uso dei fondi FAMI – Fondo Asilo Migrazione Integrazione nelle azioni di reinsediamento (resettlement) e ricollocamento (relocation).
I ricollocamenti, che avvengono da un paese UE a un altro paese UE, hanno visto molti stati disattendere gli impegni presi nel 2015. Secondo la Commissione Europea, nel settembre 2018, erano state trasferite 34.705 persone, solo il 21 per cento delle 160.000 previste. La questione, in questo caso, è stata soprattutto politica. Tanto è vero che Polonia, Repubblica Ceca e Ungheria sono sotto procedura di infrazione UE per essersi completamente rifiutate di partecipare all’iniziativa.
Secondo Follow the money, i fondi europei hanno inciso poco o nulla sulle scelte dei governi. “I fondi FAMI – si legge nel rapporto – non sono stati certamente in grado di affrontare tutte le barriere operative e politiche che ostacolano l’effettiva attuazione dei ricollocamenti”.
Il caso dei reinsediamenti, invece, potrebbe essere più interessante in ottica futura. Per reinsediamento si intende il trasferimento di rifugiati già riconosciuti dall’Unhcr da un paese di primo asilo, senza possibilità di integrazione e con rischi per la protezione, in un paese terzo. Dei rifugiati siriani che vivevano in Libano da quando è scoppiata la guerra e che vengono accolti in Francia è uno dei tanti esempi possibili. Come già spiegato proprio qui su Open Migration, il reinsediamento “è un canale di immigrazione regolare e sicuro” perché “può ridurre il traffico di esseri umani in fuga” e perché “sono gli stessi stati a stabilire quanti rifugiati accogliere e a controllare il possesso dei requisiti per l’ingresso legale sul loro territorio”. È proprio per questo che l’Unione Europea li finanzia.
Fondi FAMI cruciali per i reinsediamenti
In particolare, per il periodo 2014-2020, il fondo FAMI garantisce agli stati UE una somma forfettaria di 6 mila euro per ciascun rifugiato reinsediato, con la possibilità di arrivare fino a 10 mila se tratta di persone vulnerabili. Complessivamente, hanno calcolato Ecre e Unhcr, “sono stati versati a 23 stati incentivi finanziari FAMI per 377,4 milioni di euro, corrispondenti a 38.467 arrivi”. Il dato si riferisce al periodo 2014-2018 e il numero degli arrivi considerati è molto inferiore a quello degli arrivi totali, 76.205 persone, a causa dei ritardi nella rendicontazione.
Anche se il quadro non è ancora completo, però, alcune conclusioni si possono trarre. La prima è che, da soli, i soldi dell’UE non bastano a far cambiare idea a quei governi, come Polonia e Repubblica Ceca, che non vogliono partecipare ai programmi di reinsediamento.
Per contro, però, per gli stati coinvolti, il meccanismo usato per stanziare i finanziamenti FAMI si è rilevato efficace e la presenza dei fondi cruciale. Il caso italiano, uno di quelli approfonditi da Follow the money, è emblematico.
Nel periodo considerato, il nostro paese ha reinsediato 2.022 persone vulnerabili, tra cui quelle arrivate dal Niger dopo aver lasciato la Libia in guerra. Per ciascuna di esse Roma ha ricevuto 10 mila euro dall’UE, ai quali ha aggiunto un proprio contributo di altri 10 mila euro. Ma, si legge nel rapporto, “per le autorità italiane, la decisione di partecipare al reinsediamento è stata presa in base alla disponibilità di finanziamenti UE e la loro soppressione o riduzione comporterebbe probabilmente una grave riduzione (se non la cessazione) delle attività”. Lo stesso si può dire per altre nazioni e, in questo momento, l’Unione Europea proprio non si può permettere di far venir meno il suo contributo a livello globale.
Non solo reinsediamenti
Dal 2017, infatti, secondo il Migration Policy Institute, più del 40 per cento di tutti i rifugiati reinsediati nel mondo attraverso l’Unhcr è stato accolto in Europa. Dieci anni fa era l’otto per cento. Un netto miglioramento che, per le ricercatrici Susan Fratzke e Hanne Beirens, è “il risultato sia della forte crescita della capacità di reinsediamento in Europa sia della drastica riduzione del programma di reinsediamento degli Stati Uniti sotto l’amministrazione Trump”.
Non è detto però che il trend venga confermato anche nei prossimi anni. Molto dipenderà dalle decisioni che dovranno essere prese presto in merito al nuovo “Quadro finanziario pluriennale 2021-2027”, il budget dell’Unione Europea per il quale gli stati membri e le istituzioni UE non hanno ancora raggiunto un accordo. In tal senso sono importanti le raccomandazioni con cui si conclude il rapporto Follow the money.
Da un lato, Ecre e Unhcr chiedono di mantenere le stesse modalità di finanziamento dei reinsediamenti (e anche dei ricollocamenti) attraverso importi forfettari, perché considerate efficaci. Dall’altro, suggeriscono di introdurre delle linee di budget specifiche per i reinsediamenti (e anche per i ricollocamenti) nel fondo AMF, che dovrebbe essere il sostituto dell’attuale fondo FAMI per i prossimi sette anni. L’obiettivo è arrivare entro il 2030 ad effettuare 100 mila reinsediamenti all’anno in tutta l’UE. Non solo.
Come spiega Josephine Liebl, responsabile delle attività di advocacy di Ecre, “i reinsediamenti possono essere integrati dai cosiddetti percorsi complementari, che vanno dalle sponsorizzazioni per gli studenti a quelli privati o di comunità, fino ai corridoi umanitari”. Questi ultimi riguardano l’Italia particolarmente da vicino: sono nati nel nostro paese e sono promossi da Comunità di Sant’Egidio, Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia, Tavola Valdese e Cei-Caritas. Dal 2016 ad oggi, hanno consentito l’arrivo in Italia di oltre 2.400 rifugiati provenienti da Libano, Etiopia, Giordania, Turchia e dall’isola di Lesbo, in Grecia. Eppure questi numeri non figurano in quelli conteggiati da Follow the money, perché i corridoi umanitari sono realizzati senza fondi pubblici, né italiani né europei.
Dalle sponsorizzazioni private a quelle di comunità
“Quello dei corridoi umanitari è un progetto pilota completamente privato”, spiega Oliviero Forti, responsabile immigrazione di Caritas Italiana. “Ha un grande valore simbolico e lo portiamo avanti in un’ottica di cambiamento, culturale e politico. Vogliamo dire ai governi che le vie legali di ingresso nell’UE vanno ampliate con numeri adeguati”.
Dopo l’Italia, anche Andorra, Belgio e Francia vi hanno aderito e più volte si è parlato di estendere l’iniziativa a livello continentale. Sull’evoluzione del progetto, Forti ha le idee ben chiare. A suo avviso, l’obiettivo è passare da una sponsorizzazione privata come quella attuale a una sponsorizzazione di comunità, che coinvolga maggiormente i cittadini, i territori e, soprattutto, le istituzioni, sul modello della community sponsorship canadese. “Se, in questo contesto, l’UE dovesse in futuro stanziare dei fondi appositi per questi programmi, sarebbe un segnale positivo”, spiega. “Contribuirebbe a far prendere alle istituzioni impegni maggiori. Oggi, di fatto, si limitano ad autorizzare l’arrivo dei rifugiati, garantendo le relative procedure d’ingresso”.
Lo scorso febbraio, un Consiglio Europeo indetto proprio per discutere il budget 2021-2027 si è concluso con un nulla di fatto e ora l’emergenza Coronavirus rende difficile prevedere quali saranno le prossime scadenze. Nel frattempo, le tensioni ai confini tra Grecia e Turchia di inizio marzo hanno mostrato quanto l’approccio europeo all’immigrazione sia sempre più focalizzato sulla difesa dei confini che sulla tutela delle persone.
E, invece, secondo Liebl, “un grande ampliamento dei canali sicuri e regolari contribuirebbe ad alleviare il problema globale degli spostamenti forzati e sarebbe anche nell’interesse dell’Europa: permetterebbe l’arrivo di persone che hanno bisogno di supporto- e di cui l’Europa ha bisogno – in modo sicuro, senza viaggi traumatici”. “L’UE – conclude la rappresentante di Ecre- dovrebbe utilizzare tutti gli strumenti a sua disposizione, compresi i finanziamenti, per ampliare il reinsediamento e i percorsi complementari. Sono l’alternativa all’attuale strategia di panico e di prevenzione degli arrivi”