Adagiato sotto un albero, riparandosi da quel sole che, in inverno, di solito gradisce, Foufana attende il tempo che scorre. Musica nelle orecchie, con lo sguardo segue i tir e le macchine che, di tanto in tanto, interrompono il silenzio della strada. È posizionato proprio nella rotatoria di Hal Far, che funge da snodo tra l’arteria che porta all’aeroporto, e quella che conduce al mare. Nella costa sud ovest, per la precisione, di Malta. Un pick-up si ferma nella piazzola di sosta adiacente alla rotatoria. Foufana fa un balzo e, in men che non si dica, ha già raggiunto quel punto. Come lui altri quattro, sopraggiungono velocemente. Chissà dove erano nascosti fino a qualche istante prima. Si avvicinano al lato conducente – siamo a Malta, e la guida è a sinistra – farfugliano qualcosa, gesticolano. Ma alla fine la macchina se ne va, e loro si dileguano, mesti nella direzione da cui sono arrivati.
Non è andata bene questa volta. “Niente lavoro quest’oggi”, afferma sconsolato. “Adesso non c’è tanto movimento qui, ma alle 6 di mattina siamo in molti, e arrivano tantissimi pick-up e furgoncini a caricarci”.
Parla in italiano Foufana, e ha uno spiccato accento romano che lascia trapelare un prolungato vissuto nella capitale. Non è l’unico. In tanti, come lui, qui a Malta, arrivano dall’Italia. Un viaggio a ritroso, dalla terra ferma all’isola. Hanno i documenti in regola, permesso di soggiorno e carta d’identità italiani, e prendono con dimestichezza i voli delle varie compagnie low cost che collegano l’aeroporto di La Valletta ai principali scali d’Europa.
“Stiamo un po’ lì e un po’ qui”, spiega Foufana, che viene dal Mali: “Io ho il curriculum in Italia, lo aggiorno e lo porto in giro per le agenzie, ma non mi chiama mai nessuno. Almeno qui possiamo lavorare e guadagnare dei soldi”.
È strano pensare come uno dei più piccoli stati al mondo, un’isola lunga appena 28 chilometri e larga 13, possa offrire più opportunità del vecchio continente.
Ma è così. Malta vanta la quarta economia più alta dell’UE, in costante crescita. Il terziario è il settore più sviluppato: oltre un quarto del PIL è legato al turismo, ci sono poi i servizi finanziari (il 15% all’incirca) e il gaming (12%). Ma anche l’edilizia è fiorente, ovunque si costruiscono nuovi edifici, è un paese di gru e di cantieri aperti. E ha bisogno di manodopera, a basso costo possibilmente.
“Il lavoro nero lo sappiamo bene come funziona, ma cosa possiamo fare?”, lamenta Stanley, che ha lasciato il suo paese, la Nigeria, più di dieci anni fa. “Ero in Libia quando si è scatenata la rivolta araba, e così sono arrivato in Italia. Ho regolare permesso di soggiorno, ma in Italia non c’è lavoro”, racconta. Lavoro che invece si trova, a detta di Stanley, qui, in questo puntino di terra dislocato nel mezzo del Mediterraneo. “C’è molta richiesta di manodopera a Malta, soprattutto nei cantieri. Però il nostro permesso di soggiorno non vale qui, e così ci ricattano, e veniamo pagati meno”. Perché un documento europeo non è un passepartout universale, e non garantisce la legalità sul territorio.
La normativa
“Non esiste una norma dell’Unione Europea, di applicazione generale, che consenta alle persone che hanno ottenuto protezione internazionale da uno Stato membro di lavorare in un altro”, spiega Sara Zingariello, coordinatrice di Jesuit Refugee Service Malta, una onlus che offre assistenza legale sul territorio. “Hanno libertà di circolazione, nel senso che possono viaggiare tra uno Stato e l’altro e sostare come turisti per tre mesi, però non possono risiedere e lavorare in uno Stato membro, diverso da quello che ha concesso la protezione, a meno che non sono specificamente autorizzati a farlo”.
“Malta ha una politica rigorosa”, continua Zingariello, “perché vieta loro persino di richiedere il permesso di residenza o lavoro per regolarizzarsi. Tuttavia, molti rimangono sul territorio e lavorano lo stesso, ma lo fanno in modo irregolare”.
E non mancano gli incidenti sul lavoro. A Marsa, in un cantiere, a metà novembre un ragazzo è morto cadendo da un’impalcatura. E c’erano stati altri casi analoghi nel corso dello stesso anno.
“Queste persone vengono prese ogni giorno, caricate sui pick-up e portate nei cantieri, e gli viene chiesto di svolgere mansioni per cui non sono preparate, il più delle volte senza dargli i dispositivi di protezione”, lamenta Mauro Miceli, maltese ed esperto di relazioni internazionali, che ha visto cambiare il volto dell’isola negli ultimi vent’anni.
E anche la polizia non scherza, come racconta Stanley: “Ti fermano per strada, e se ti trovano con i documenti non di Malta ti caricano in auto e ti portano in una specie di prigione, nei pressi dell’aeroporto. Lì devi pagare una cauzione per uscire, e un biglietto aereo per lasciare l’isola. Se non hai abbastanza soldi rimani dentro, fino a quando amici o parenti non riescono a farti pervenire la cifra richiesta”.
Una questione di “numeri”
“Non esiste un report su quanti siano i migranti sul nostro territorio, o se esiste, non è disponibile al pubblico”, lamenta Don Anton D’Amato, Direttore di Dar L’Emigrant, associazione non governativa che offre assistenza sul territorio ai richiedenti asilo, ai migranti e ai rifugiati. “I numeri che ci sono, infatti, si riferiscono soltanto agli sbarchi – pochi – avvenuti sul territorio maltese”. Nel 2022, secondo i dati forniti da UNHCR, sono sbarcate nell’isola 433 persone.
È la portavoce di Jesuit Refugee Service Malta a spiegarci l’iter burocratico attualmente vigente: “Una volta arrivati qui, e dopo esser stati sottoposti ai controlli da parte delle autorità competenti, i profughi devono fare un periodo di accertamenti medico sanitari, durante il quale non possono uscire dai centri di accoglienza”, spiega Sara Zingariello. Questo periodo di “reclusione” può durare alcune settimane come vari mesi. Una misura, quest’ultima, che è stata attivata durante l’emergenza Covid-19, ma è in vigore ad oggi. Ci sono vari “closed centers” a Malta, vengono gestiti dall’agenzia governativa AWAS (Agency for the Welfare of Asylum Seekers). Il più grande si trova ad Hal Far, un sito industriale che, fino al secolo scorso, aveva ospitato l’aeroporto della Royal Air Force. Oggi, in questa vasta area delimitata da muri in cemento e filo spinato, ci sono una serie di container, sistemati in file ordinate. In passato sono stati “reclusi” qui, allo stesso tempo, oltre mille migranti. Ma non è dato sapere il numero degli ospiti attuali, né in che fase del procedimento sia la loro domanda d’asilo.
Il limbo
E poi ci sono i casi che esulano dai numeri. “Ciò accade quando la loro domanda di asilo viene respinta, ma allo stesso tempo le persone non possono essere rimandate nel loro paese di origine per varie ragioni. Si crea così una sorta di limbo, uno spazio in cui un individuo non è né qui e né lì”, spiega Don Alfredo D’Amato.
Shamfa quel limbo lo conosce bene. Perché vi è intrappolata da molto tempo. Troppo. Diciassette anni. Ne ha quasi cinquanta ora, lo sguardo mesto ed uno scialle che le avvolge il capo lasciandole scoperti solo gli occhi. È somala, ed è a Malta come “clandestina”, senza documenti. Ha tre figli, ormai grandi, rimasti in Somalia. Lei non li ha visti crescere. “È questo il mio rammarico più grande”, afferma. Vive a Marsa, in un quartiere con altra densità di stranieri, in un appartamento condiviso con altre famiglie. “ Vado avanti grazie alla solidarietà dei miei connazionali, non ho le braccia forti e il fisico possente per andare a lavorare nei cantieri, evito anche di uscire di casa, perché ho paura di venire scoperta”.
Le ong della discordia
Il 5 Gennaio scorso, il ministro degli Interni maltese, Byron Camilleri, dichiarava che le navi ONG fungono da “fattore di attrazione” per i migranti che cercano di attraversare in Mediterraneo, esprimendo il suo totale accordo con il nuovo decreto italiano che prevede multe che possono arrivare anche al sequestro delle navi.
Non è una novità, del resto, che il governo della Valletta sia perfettamente allineato, in materia, con l’esecutivo di Meloni&Co. Già il 12 novembre 2022, una dichiarazione congiunta dei ministri dell’Interno di Italia, Malta e Cipro con il ministro della Migrazione e dell’asilo della Grecia, aveva denunciato l’attività delle “navi private”, che non sarebbe “in linea con lo spirito della cornice internazionale sulle operazioni di search and rescue”, perché questi vascelli agirebbero “in totale autonomia rispetto alle autorità competenti”.
Autorità competenti che, rispondeva in una nota l’ASGI(Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione) “da anni rifiutano di coordinare le attività di soccorso, delegando gli interventi alla Libia o alla Tunisia, e spesso ostacolando l’intervento di attori privati come navi mercantili e ONG”.
“È un crimine internazionale non soccorrere le persone in mare”, afferma con fermezza Don Alfredo D’Amato. “I naufraghi devono essere salvati, il problema è semmai dove farli poi sbarcare”. Eppure i numeri dicono altro, i soccorsi tardano e le tragedie in mare non cessano.
La sera dello scorso 2 Febbraio, una motovedetta della Guardia costiera italiana, a 42 miglia da Lampedusa, in acque SAR Maltesi, soccorreva un barcone al cui interno c’erano otto cadaveri. Cinque uomini e tre donne, una delle quali incinta.
Il barcone era stato avvistato, nella mattinata del giovedì, da un peschereccio tunisino che aveva lanciato l’allarme. Ma c’era voluto il tardo pomeriggio prima che le autorità maltesi girassero la richiesta al comando generale della Capitaneria di porto di Roma, che a sua volta inviava sul posto una motovedetta. Era ormai tardi: gli otto erano già morti, di fame e di freddo probabilmente. Vittime, loro malgrado, di una partita di ping pong tra stati.
In copertina foto di Romina Vinci