Gostomel, oltre 17 mila abitanti prima della guerra, fa parte della municipalità di Irpin, e ne ha condiviso l’occupazione e la devastazione del conflitto. Obiettivo sensibile per la presenza del famoso aeroporto cargo Antonov, è stata attaccata sin dal primo giorno, e lì non si è smesso di combattere fino allo scorso 2 aprile, con la ritirata dei russi dal nord e la ripresa del controllo da parte degli ucraini. Oggi appare silenziosa e semideserta, con evidenti segni di bombardamenti e di colpi dell’artiglieria sugli edifici, anche se gli abitanti stanno lentamente tornando alle proprie case, o a ciò che ne resta.
“Vivere qui era sempre stato il nostro sogno – racconta Oxana Bilous, critica d’arte che oggi gestisce uno spazio virtuale dedicato alla vendita, al restauro e alla conoscenza delle opere d’arte – e finalmente due anni fa lo avevamo realizzato. Ci sembrava incredibile essere in campagna, con un giardino a disposizione, e restare comunque a pochi chilometri da Kyiv. Stavamo per acquistare un appartamento in questo palazzo, e oggi dopo quanto è successo, dobbiamo dire di essere stati fortunati ad aver scelto una casa indipendente.”
Oxana e il marito Evgeny vivono ancora senza acqua e la corrente elettrica è stata ripristinata nel loro quartiere solo pochi giorni fa. Dal 24 febbraio alla fine dell’occupazione sono rimasti qui senza poter comunicare di essere vivi ad amici e parenti, chiusi in casa e con la paura costante di non sopravvivere.
“E pensare che molte persone, quando si cominciava a capire che qualcosa di brutto stava per accadere, sono venute qui o in altri centri più piccoli perché a Kyiv temevano di essere in pericolo – spiega – e poi si sono ritrovati in trappola. Noi siamo rimasti perché abbiamo un cane e non potevamo abbandonarlo qui, ma senza una macchina diventava difficile portarlo con noi. In questa strada siamo rimasti in una trentina di persone in tutto, gli altri sono quasi tutti andati via, e alcuni, purtroppo, sono stati uccisi come il nostro vicino Sasha.”
Di fronte al loro giardino c’è un piccolo parco con i giochi per i bambini, e sullo sfondo un palazzo nuovo e colorato che da questa prospettiva sembra intatto, mentre sul retro è stato quasi completamente sventrato dai razzi. Dall’altro lato c’è un cumulo di macerie vicino a un muro in piedi per metà, bruciato da un incendio, dove prima sorgeva una villetta unifamiliare.
“Mi incantavo a guardare quella casa dalla mia finestra – ricorda Oxana – era sempre ben curata, con i fiori, e spesso si vedeva una donna con il suo bimbo in braccio. A Natale era completamente addobbata e illuminata, e oggi non esiste più. La sua proprietaria è rimasta ferita ma si è salvata.” “Per noi il primo giorno di guerra è stato proprio il 24 all’alba, quando sono cominciati i bombardamenti sull’aeroporto Antonov – ricorda Evgeny, giornalista in pensione e traduttore – solo dopo la fine dell’occupazione abbiamo scoperto che c’era un piano per portare i militari russi in Ucraina attraverso questo scalo, che però è fallito per la risposta dell’esercito ucraino che ha in parte distrutto la pista per non permettergli di utilizzarla. Comunque quel giorno abbiamo sentito il rumore degli elicotteri, uno è anche caduto qui vicino. Quando l’aeroporto è stato reso inutilizzabile è cominciato il peggio, perché le truppe russe sono arrivate via terra dalla Bielorussia, e di qua passavano colonne di carri armati, proprio per questa strada; c’erano anche i militari ceceni di Kadirov, o almeno alcuni mezzi avevano la loro bandiera.”
Oxana spiega che in quaranta giorni sono diventati in grado di distinguere i suoni della guerra, di capire quando ci sarebbe stato un momento di stallo che gli avrebbe consentito di uscire in cortile ad accendere un fuoco per cucinare, o andare a cercare dell’acqua.
“Colpivano ovunque – racconta – dalle sei della mattina fino a notte. Poco lontano da qui c’è un monumento al militare sovietico e lì avevano sistemato dei mezzi e sparavano di continuo. Sono andati avanti così per quaranta giorni. E la cosa peggiore è che i soldati hanno cominciato a occupare le case che erano rimaste in piedi, soprattutto in questo quartiere. Forzavano le porte, entravano e dopo aver fatto razzia di qualunque cosa, dagli elettrodomestici ai vestiti, si stabilivano lì. Sono venuti anche da noi, ma la porta non si apriva perché avevano chiuso bene dall’interno. Poi mio marito ha dovuto farli entrare. Hanno cominciato a perquisire ogni stanza, ci hanno chiesto se avevamo delle armi e io gli ho domandato se ci avrebbero ammazzati, ma loro hanno risposto che non facevano la guerra contro i civili. Eppure stavano colpendo solo bersagli civili. Comunque da casa nostra sono andati via.”
Dopo due settimane c’è stata per la prima volta la possibilità concreta di lasciare Gostomel, anche per loro: “Il nostro vicino di casa Sasha ci ha detto che potevamo spostarci a Bucha, dove c’erano dei punti di ritrovo per le persone che volevano andarsene, e si è offerto di accompagnarci. Nel frattempo, in attesa di partire, a Bucha potevamo restare in un palazzo dove si nascondevano altre novanta persone, ma lì avevano ancora l’acqua e sopravvivere era un po’ più facile. Noi abbiamo rifiutato perché avremmo dovuto lasciare qui il cane, e Sasha è partito con la sua macchina e dei feriti a bordo. Mentre cercava di aiutare chi aveva più bisogno gli hanno sparato, e poi un mezzo è passato sulla sua auto, incurante del corpo che era rimasto all’interno. Tanti di questi episodi sono successi qui, come a Bucha e a Irpin.”
Quando sono finite le provviste, Oxana e suo marito hanno cominciato a cercare nelle case vicine che i russi avevano aperto. “Non era facile decidere di uscire, perché anche quando sembrava che fosse tornata la calma, poteva arrivare un missile all’improvviso da chissà dove. È successo, li lanciavano anche dalla Bielorussia, non c’era da fidarsi. Ma in casa nostra non avevamo più nulla, i telefoni erano scarichi e da settimane non riuscivamo più a comunicare con il mondo esterno. Abbiamo perso la cognizione del tempo – dice Oxana – non c’era più nulla a scandire i giorni, nemmeno la notte perché vivevamo al buio, ascoltando spari, esplosioni, senza capire dove fossero i russi, e dove gli ucraini. Poi finalmente in una casa abbiamo trovato un cellulare dimenticato dai proprietari che sicuramente i soldati non avevano notato, e si accendeva ancora. Così abbiamo subito scritto un messaggio sui social per dire a chi ci conosceva che eravamo vivi. Abbiamo anche trovato un generatore funzionante, e così quando si poteva andavamo a ricaricare le batterie.”
Nel frattempo un gruppo di abitanti aveva creato un centro di raccolta per gli aiuti, portando in una scuola tutte le scorte dell’unico supermercato di zona che aveva ancora dei rifornimenti. I volontari hanno cominciato a distribuire il cibo privilegiando gli anziani, e le poche famiglie rimaste. Alcuni sfollati si sono trasferiti in questo edificio, che oggi ospita anche una postazione medica mobile e mette a disposizione docce e corrente elettrica per tutti. Il giorno della liberazione per gli abitanti di Gostomel è arrivato in silenzio. I bombardamenti sono cessati all’improvviso, e la coppia ha deciso di uscire. “Ogni volta che era possibile, andavamo a sfamare un cane abbandonato che era in pessime condizioni, ma quel pomeriggio in fondo alla strada abbiamo visto dei soldati che ci facevano segno di avvicinarci – ricorda Oxana – e non abbiamo capito subito che fossero ucraini. Uno di loro era georgiano, come una mia cara amica. Ci siamo abbracciati, è stato un momento che non dimenticherò.”
Sono passati altri quaranta giorni da allora, e molte delle case rimaste in piedi continuano a non avere l’acqua corrente e l’elettricità. La distribuzione dei generi alimentari resta attiva, ma solo due volte a settimana, perché Gostomel, come tutta l’area a nord di Kyiv, sta vivendo una sorta di dopoguerra, pure in una situazione tutt’altro che stabile: chi fa ritorno nella sua città guarda alla ricostruzione, cerca di raccogliere fondi per rimettere in piedi case, palazzi, tralicci dell’alta tensione, strade, negozi. E nel centro di raccolta si lavora per questo, a partire dalla registrazione degli abitanti e dei danni che hanno subito.
“Stiamo riprendendo a vivere, anche se molto lentamente – spiega Oxana- in tanti sono tornati e cominciano a mettere in ordine il giardino, a piantare nuovi fiori, a raccogliere le macerie. È tipico degli ucraini, fare ordine per guardare al futuro. Ma purtroppo molti restano all’estero, o nell’ovest del paese, soprattutto chi ha figli piccoli e non vuole correre altri rischi. Qui siamo stati colpiti tutti, a livello umano, emotivo, e anche materiale perché non c’è casa che non porti i segni di quello che abbiamo passato. La nostra sembra intatta e ha il tetto sollevato dall’onda d’urto di una bomba. E il capanno qui dietro è stato centrato in pieno da un razzo. Siamo comunque molto fortunati a poterlo raccontare, a essere riemersi da questa nebbia, e a non aver perso nemmeno gli oggetti importanti.”
Oxana percorre il piccolo viale che costeggia la sua casa, apre la porta di legno del capanno, dove la luce arriva dall’alto perché il soffitto che non c’è più. “In questo scaffale ci sono tutte le opere che avevo portato con me dopo aver chiuso la galleria di Kyiv – ricorda – ebbene, nonostante il colpo sono ancora tutte intere, è incredibile ma nessuna è andata in frantumi. Forse l’arte vince anche sulla guerra, o almeno a me piace pensarlo.”