Mohammed non sorride mai. Da quando suo padre e le sue sorelle sono rientrati a Raqqa, in Siria, la vita per lui è diventata ancora più tortuosa e frustrante. Mohammed ha 25 anni ma parla come se ne avesse 40: dal 2013 vive in una striscia di terra in cui si appoggiano, come sospesi, i ruderi e le tende che compongono il campo profughi informale di Sarada, nel Libano del sud.
“Mio padre non è molto contento di essere tornato in Siria. Il lavoro è poco, per giornate intere si guadagnano pochi dollari”, ci racconta. Da qualche mese, i suoi familiari hanno riaperto la casa di famiglia a Raqqa, distrutta a metà dai bombardamenti da cui erano scappati. “Le mie sorelle sono ottimiste. Una di loro è riuscita a trovare un posto in un’organizzazione internazionale mentre l’altra ha ripreso gli studi all’università. Era arrivata quasi alla fine degli studi ma il suo libretto è andato perso, quindi ha ricominciato dal terzo anno”.
Il padre e le sorelle di Mohammed fanno parte dei circa 8000 profughi siriani che dall’inizio del 2018 hanno deciso di rientrare in Siria, dove il conflitto si sta esaurendo. Alcuni mesi fa un accordo tra il regime di Damasco, che ha ripreso il controllo della maggior parte del territorio, e il governo di Beirut ha dato vita a un piano di rimpatrio volontario. Perché il ritorno dei siriani dopo 7 anni dall’inizio del conflitto civile sta diventando una questione politica prioritaria nei palazzi del potere di Beirut. I profughi siriani qui sono un milione, un milione e mezzo per il governo libanese. Una cifra enorme per un paese di 10 mila chilometri quadrati, poco più dell’Abruzzo, che conta solo 4,5 milioni di abitanti dipartiti in un mosaico confessionale molto delicato. Nel 2015 il governo libanese aveva introdotto norme più restrittive per il rinnovo del permesso di soggiorno (il Libano non è firmatario della Convenzione di Ginevra e dunque non riconosce lo status di rifugiato) e aveva chiesto all’Unhcr di sospendere temporaneamente la registrazione dei rifugiati siriani.
Il piccolo stato dei cedri teme, infatti, uno sconvolgimento demografico come accaduto in passato per i profughi palestinesi arrivati qui in diverse ondate a partire dalla proclamazione dello stato di Israele nel 1948. Ma le Nazioni Unite affermano che al momento non ci sono le condizioni per poter rientrare.
“Nelle ricerche che abbiamo condotto abbiamo constatato che circa il 90% dei rifugiati vuole tornare a casa ma sostiene che questo non sia il momento giusto per farlo” spiega Lisa Abou Khaled, responsabile della comunicazione dell’Unhcr in Libano. “Secondo i dati di cui siamo in possesso, 3500 persone sono rientrate volontariamente dal 2018 mentre altre 4800, organizzate in 30 gruppi, sono tornate utilizzando l’accordo stipulato tra il governo di Beirut e quello di Damasco. Al momento, noi come Unhcr non possiamo organizzare dei gruppi per il ritorno in Siria perché mancano delle garanzie e ci sono delle aree nel paese in cui non possiamo accedere”.
La voglia di rientrare dei profughi si scontra con la realtà di un paese instabile e ancora governato dal dittatore Bashar al-Assad, l’uomo che ha ferocemente represso le rivolte del 2011 facendo piombare il paese in sette anni di sanguinosa guerra civile.
Il primo a non voler tornare in Siria è proprio Mohammed, perché come molti altri uomini della sua età è un disertore: non ha svolto il servizio militare e teme per questo ritorsioni da parte del regime. “Io non voglio stare né in Libano né in Siria. Sono entrambe situazioni dove è difficile pensare a un domani”, continua. “Ora vivo in un tenda, sono come sospeso. Se potessi esprimere un desiderio vorrei andare in Europa perché non voglio che i miei figli mi diano la colpa per averli messi al mondo e averli fatti vivere in queste condizioni”.
Le dure condizioni di vita in Libano sono la ragione che sta dietro la scelta dei siriani che hanno cominciato a rientrare. Lo scorso aprile, una ricerca dell’istituto Carnegie di Beirut ha documentato che i casi di razzismo contro i profughi sono all’ordine del giorno e le persone meno abbienti, come quelle che abitano i campi informali, sono costrette a vivere lavorando alla giornata nei campi o nel settore delle costruzioni.
“Qui lavoriamo saltuariamente per pochi dollari. Ne paghiamo 20 al mese di affitto per poter tenere la tenda e i miei figli hanno perso qui i loro anni migliori. Ma al momento non ce la sentiamo comunque di tornare a casa”, spiega Ahmed, 32 anni. Vive con sua moglie e i suoi 4 figli a Marj El-Khokh, altro campo informale popolato da mille anime. Quasi tutti arrivano da Idlib, l’area popolata da 3 milioni di persone è diventata l’ultima roccaforte dei ribelli siriani. Al momento una flebile tregua evita la nuova catastrofe umanitaria che si potrebbe scatenare con la più volte annunciata offensiva finale di Assad.
“Siamo scappati 5 anni fa, i nostri figli sono cresciuti qui, in questa tenda, e non hanno avuto molte opportunità. Riescono a frequentare la scuola in maniera saltuaria, non è abbastanza. Posso dire che a me, a mia moglie, ma soprattutto a loro è stato negato un futuro”.
Per il presidente siriano Bashar al-Assad il ritorno di chi è fuggito dalla guerra è un’arma politica per accreditare la propria stabilità a livello internazionale. Perché il ritorno è funzionale alla ricostruzione del paese e uno degli ostacoli al suo ambizioso progetto è proprio la mancanza di manodopera. La maggior parte dei giovani, infatti, è fuggita mentre chi è rimasto è al fronte, a combattere nell’esercito.
“Gli ostacoli al ritorno emersi dalle nostre interviste sono l’obbligo di leva che molti giovani non hanno svolto e non vogliono svolgere, il fatto che molte persone non hanno più né i loro documenti di identità né quelli che attestano la proprietà della loro casa”, continua Abou Khaled.
Il 9 ottobre il presidente Assad ha annunciato un’amnistia generale per i disertori dell’esercito. Ma il provvedimento, come specificato dall’agenzia di stampa siriana Sana che ha dato la notizia, non coinvolge i «criminali». Per il regime il temine definisce in modo ampio non solo le persone ricercate dalla giustizia ma tutti gli oppositori politici: questi ultimi, per beneficiare dell’amnistia, dovrebbero insomma prima consegnarsi alle autorità. Ma le carceri siriane, come documentano numerosi report delle organizzazioni per i diritti umani, sono un buco nero. Un inferno istituzionalizzato che tortura e uccide in maniera sommaria chiunque ci metta piede.
Ma non c’è solo l’aspetto politico: il grande progetto di ricostruzione del presidente Assad, che è riuscito a mantenere le redini del potere grazie anche all’immobilismo dei paesi occidentali, ha degli obiettivi ben precisi.
All’inizio di quest’anno il governo di Damasco ha promulgato la legge 10 che impone la gestione del governo sulla ricostruzione nei quartieri più poveri, quei sobborghi da cui molti profughi rimasti in Libano provengono. Chi rientra, dunque, rischia di non ritrovare più la sua casa perché già demolita dal nuovo piano di ricostruzione. Potrebbe accontentarsi di un rimborso, solo se in possesso dei documenti che attestino la proprietà della sua precedente abitazione oppure di un nuovo collocamento discrezionale al regime.
Milad lo sa bene. Dalla sua tenda di Marj el-Khokh, dove vive con una decina di membri della sua famiglia tra madre, moglie, figli e nipoti, segue in maniera maniacale le notizie che arrivano dalla provincia di Iblib.
“Non sono disposto a tornare in nessun altro posto che non sia casa mia, preferisco vivere in una tenda accanto alle macerie sino a quando non sarò in grado di risistemare la mia abitazione”, spiega.
La massiccia presenza femminile nella tenda di Milad è testimoniata da una piccola veranda. Una piattaforma di cemento coperta da un telone su cui si apre una finestra. Ci si può sedere per terra, prendersi un tè e contemplare la distesa di macchia mediterranea che porta sino al confine con Israele. “Qua la vita è dura, si lavora per pochi dollari ma la situazione politica in Siria non è stabile, non ci fidiamo”.
La paura dei profughi è fondata anche sui traumi della guerra. Le storie delle persone si incontrano tra i rifugiati in Libano sono tutte molto simili. Il filo rosso che le accompagna sono anche i ricordi dei bombardamenti, memorie che lasciano segni indelebili nella psiche delle persone, in particolare dei bambini.
“Se tornassi oggi proverei solo tanta paura. I miei figli sono traumatizzati dai bombardamenti. Quando sentono il rumore di un aereo, anche se sono passati 5 anni, sono terrorizzati. Ogni volta scappano, si mettono al riparo perché pensano che stiano per cadere di nuovo le bombe”, ci racconta Aida. Ha un volto tondo, dolce, incorniciato da un hijab azzurro. Sembra un’attrice di una musalsal, le serie tv che vengono mandate in onda dalle tv panarabe durante il Ramadan, il mese sacro dei musulmani. Anche lei è scappata dalla provincia di Raqqa nel 2013, camminando sotto le bombe. Allora aveva già 4 figli e ora aspetta il quinto. Non sa né leggere né scrivere. Sta imparando nel campo di Sarada grazie a un programma dell’ONG italiana Avsi. “Certo che vorrei tornare in Siria, ma questo non è il momento giusto. Una parte della mia famiglia è rimasta a Raqqa. Non li vedo da 5 anni e non riesco a sentirli molto spesso. So solo che la mia casa è andata completamente distrutta, abbiamo perso tutto”.
La paura di nuovi conflitti, la mancanza di lavoro e di giustizia sociale sono i motivi che al momento rendono il ritorno di massa un’utopia. Perché durante la guerra scaturita dalle rivolte del 2011 Assad è rimasto al comando. Ma le sue aspirazioni di stabilità, tuttavia, sono percepite da tutti gli osservatori attenti come un’esibizione fragile e indeterminata.
In copertina: Aida durante il programma di alfabetizzazione Avsi, campo di Sarada (fotografia di Laura Cappon, come tutte le immagini in questo articolo)