La chiusura delle frontiere come risposta automatica
Se, da un lato, la caduta del regime di Bashar al Assad è stata accolta con gioia da parte di molte persone rifugiate siriane in Europa, dall’altro lo stesso entusiasmo è stato immediatamente attenuato dalle immediate richieste di rimpatrio da parte dei governi dei paesi europei che ora percepiscono la Siria come paese “sicuro”. La Germania, il Belgio, i Paesi bassi e il Regno Unito hanno fin da subito hanno dichiarato di voler sospendere l’esame delle domande di asilo siriane: dopo la caduta di Assad, Tareq Alaows, attivista dell’organizzazione tedesca per la difesa dei rifugiati Pro Asyl, ha ricevuto numerosi messaggi preoccupati dai siriani in Germania. “Adesso hanno la sensazione che [il cancelliere] Olaf Scholz revocherà il loro permesso di soggiorno, o che il ministro degli Interni […] li metterà su un aereo per la deportazione. Molte persone non sono solo turbate e spaventate dal dibattito, ma sono anche deluse, ha aggiunto Alaows, che è fuggito lui stesso dalla Siria”, viene riportato su Politico.
Anche l’Italia si è accodata alla chiusura delle porte nei confronti delle persone rifugiate siriane sospendendo quindi le domande di asilo nonostante l’attuale situazione in Siria sia incerta. Sebbene la caduta di Assad sia significativa, alla luce delle numerose violazioni dei diritti umani ai danni di oppositori e oppositrici politiche, la guerra civile che ha devastato il paese dal 2011, sospendere le richieste di asilo dalla Siria è una strategia che rispecchia perfettamente la linea politica securitaria attuale dei paesi europei – la stessa che d’altronde ha caratterizzato il 2015, quando durante la cosiddetta “crisi dei rifugiati” dalla Siria, anziché attuare politiche di accoglienza immediate, si è preferito siglare, poi nel 2016, accordi con la Turchia (Eu-Turkey Statement) per contenere i flussi migratori, con la complicità di Frontex (l’agenzia Ue per il controllo delle frontiere marittime e terrestri) e della Grecia nei violenti respingimenti sistematici e illegali nel Mar Egeo. Come scrive il professore di relazioni internazionali presso l’università Sant’Anna di Pisa, Francesco Strazzari su Il Manifesto: “in questo scenario impensabile fino a ieri, molti governi europei, gli stessi che di solito arrivano tardi e divisi sulle crisi internazionali, si mostrano tempestivi e sincronici, dalla Germania all’Italia, nell’alzare i ponti levatoi e preparare le espulsioni”.
Una sincronia che però si è rivelata, al contrario, accogliente e collaborativa quando si trattava di accogliere giustamente le persone rifugiate ucraine, tuttora esuli per via della guerra in corso. In questo contesto, i diritti delle persone migranti risultano esser quindi tutelati sulla base della provenienza e della linea del colore, con particolare ostilità nei confronti di chi proviene dai paesi del cosiddetto “sud globale”. E ancora, scrive Strazzari: “di fronte alle immagini del campo di concentramento di Sednaya e delle altre carceri siriane, davanti alle ragazze curde trascinate come trofei dai miliziani, a ogni politico e ogni commentatore che in questi anni ha predicato che ai siriani andasse tolta la protezione umanitaria perché “la Siria è sicura”, andrebbe chiesto conto pubblicamente dell’irresponsabilità delle proprie dichiarazioni”.
Respingimenti e detenzione come prassi
La prassi della chiusura delle frontiere è in perfetta sincronia con i processi di esternalizzazione, ossia la stipulazione di accordi con paesi terzi per il contenimento dei flussi migratori o per il trasferimento delle procedure di asilo. Che i Paesi Ue instaurino rapporti con paesi dove le violazioni dei diritti umani avvengono quotidianamente non è cosa nuova: lo si è visto con la Turchia nel 2016, lo si vede ancora oggi con paesi come la Tunisia o la Libia. Tra i Paesi Ue protagonisti di questi accordi, spunta sicuramente l’Italia che con il nuovo Decreto Flussi – specialmente in seguito alla sentenza del Tribunale di Roma che ha di fatto reso illegittime le detenzioni in Albania, rimandando il caso alla Corte di Giustizia Ue – ha deciso di cambiare la lista dei paesi “sicuri” per il rimpatrio, inserendovi Egitto e Bangladesh.
Le criticità di tali liste, volte ad aumentare le cosiddette procedure accelerate alla frontiera – con meno garanzie e tutele per le persone migranti provenienti da presunti “paesi sicuri”, secondo l’Italia, che sono costrette a chiedere asilo – consistono nel fatto che il Governo classifica sistematicamente come “sicuri” i paesi da cui semplicemente provengono più richiedenti asilo. “Pare”, come ha già riportato l’Asgi in un accesso civico agli atti del mese di giugno “che non si sia tenuto conto di comprovate situazioni di instabilità e/o di violazione dei diritti umani nei nuovi Paesi aggiunti” Infatti, ricordiamo che prima ancora dell’ultima modifica, con un decreto del maggio scorso, il ministero degli Affari esteri aveva modificato tale lista, ampliandone il numero “e includendovi stati nei quali, leggendo le relative schede fornite dalla Farnesina, avvengono gravi violazioni dei diritti umani”, riportava la giurista Vitalba Azzollini. Ricordiamo che nell’ultima inchiesta del Guardian di settembre è stato nuovamente dimostrato come le autorità tunisine – che Ue e Italia finanziano lautamente per fermare le migrazioni dai paesi del continente africano – oltre a respingere persone alla frontiera, violentano e bastonano adulti e minori per poi lasciarli morire nel deserto. Prima ancora, nell’inchiesta congiunta di Lighthouse Reports e Irpi Media e altre testate giornalistiche europee e tunisine, è stato dimostrato che i deserti dove vengono gettate le persone – perlopiù nere, discriminate e perseguitate dalle politiche razziste e anti-migranti del presidente Kais Saied – possono essere considerate delle vere e proprie “discariche” (Desert Dumps), lasciate senza cibo né acqua ma con i lividi delle percosse della guardia nazionale tunisina. “L’accordo”, riportava già IpriMedia “non riguarda solo la migrazione, ma prevede lo stanziamento di oltre 100 milioni di euro di fondi Ue per operazioni di ricerca e soccorso, gestione delle frontiere, lotta contro il traffico di esseri umani e politica dei rimpatri[…]”. Nonostante sia evidente da anni che tali accordi non tengano affatto in considerazione la tutela dei diritti umani, ricordiamo che “solo tra 2015 e 2021, l’Ue ha erogato complessivamente più di 400 milioni di euro a Tunisia (almeno 91 milioni di euro), Marocco (almeno 234 milioni di euro) e Mauritania (almeno 81,5 milioni di euro) nell’ambito del suo più grande fondo per la migrazione, il Fondo fiduciario di emergenza dell’Ue per l’Africa (Eeutf), lanciato come strumento di emergenza nel 2015 per affrontare la cosiddetta crisi migratoria”, riporta sempre IrpiMedia.
E laddove non basta il respingimento sistematico che, ricordiamo, è in violazione sia delle stesse norme Ue contenute all’interno della Carta dei diritti fondamentali che nella Convenzione di Ginevra all’art. 33, ecco che la detenzione delle persone migranti entra in gioco, trattate come criminali semplicemente perché non possiedono un documento di soggiorno. Sebbene il Protocollo Italia-Albania sia di fatto stato un fallimento – e i centri siano rimasti vuoti – ciò non toglie la gravità insita nell’ideazione di un piano simile, in cui le persone “soccorse” dalla guardia costiera italiana – che in quel momento rappresenta territorio dello stato – vengono deportate illegittimamente in un altro paese. Il presupposto sottolineato dal Governo è che si tratterebbe solo di “adulti non vulnerabili” che provengono da paesi considerati “sicuri”, ma si tratta di una copertura che, di nuovo, mina gravemente i diritti delle persone migranti. Tale presupposto non solo si è rivelato essere falso, alla luce della liberazione di minori e persone vulnerabili che invece erano state deportate comunque, ma è stato dimostrato come gli screening effettuati a bordo per decretare chi sia più o meno vulnerabile siano del tutto sommari e illegittimi. Come hanno denunciato varie Ong, tra cui Emergency e Sos Mediterranea, in un comunicato congiunto, “[…] in mezzo al mare, a bordo della nave militare Libra come a bordo delle motovedette italiane, non sussistono le condizioni perché possa essere effettuata una valutazione adeguata dello stato di salute di una persona”. E ancora: “non è presente, infatti, un ambulatorio medico né stanze adibite a tale scopo che garantiscano un’adeguata privacy e una opportuna percezione di luogo sicuro, come non sono presenti strumenti in grado di diagnosticare determinate condizioni cliniche e patologie, acute o croniche. Questo forte limite si rende ancora più evidente in presenza di un numero elevato di persone da valutare in poco tempo”.
Tenendo conto che gran parte delle persone soccorse ha spesso dovuto affrontare terribili abusi in Libia o in Tunisia, c’è da chiedersi su quali basi si fondano tali screening, che quindi non tengono in considerazione i traumi psicofisici subiti. Traumi che continuano a essere ignorati, ad esempio, anche nei Centri di Permanenza per il Rimpatrio (Cpr) in Italia costantemente segnalati in numerosi rapporti come luoghi insalubri, dove imperano condizioni inumane e degradanti. L’ultimo rapporto della Coalizione italiana per le libertà e i diritti civili (Cild), “Chiusi in gabbia” sul Cpr di Roma (Ponte Galeria), – attualmente gestita dalla multinazionale Ors – rivela una condizione insostenibile, con una completa deresponsabilizzazione da parte delle istituzioni adibite al monitoraggio. Dal 2021 ad oggi “la Asl ha dichiarato di aver svolto, in questi 3 anni, una ispezione, solo perché sollecitata dalla Procura della Repubblica di Roma; (ii) la Prefettura si è limitata a svolgere solo 6 sopralluoghi, irrogando ad Ors decreti di penalità per un complessivo di 47.359 euro a causa delle gravissime criticità riscontrate (es. mancata distribuzione dei beni di prima necessità; problematiche riguardanti la conservazione e qualità del cibo; mancata informatizzazione dell’ambulatorio e irregolare compilazione della documentazione sanitaria: quest’ultima solo dopo che l’ex Garante aveva presentato esposto in Procura per il rischio le lacune ed i rischi di manomissione dei registri degli eventi critici)”, riporta Cild. Inoltre, il Comitato per la prevenzione della Tortura (Cpt) del Consiglio d’Europa, in seguito a diverse ispezioni, ha di recente condannato l’Italia per i trattamenti disumani all’interno dei Cpr, tra abuso nella somministrazione dei psicofarmaci e violenze da parte delle forze dell’ordine. E’ in queste condizioni che Ousmane Sylla, poco più che ventenne, originario della Guinea, si è tolto la vita, tuttavia più che di semplici “morti in Cpr” – come Moussa Balde – si tratta di omicidi di stato, dove la negligenza, in tutti i Cpr d’Italia, regna sovrana in un contesto che continua a criminalizzare, detenere – e punire, dato che non mancano le violenze da parte della polizia all’interno dei Centri – le persone migranti, senza fornire soluzioni strutturali al loro status di irregolarità e di conseguenza di marginalità sociale.
Marginalità sociale come struttura
E’ per via di questa stessa marginalità che è stato ucciso Satnam Singh, bracciante indiano che lavorava sotto sfruttamento in un’azienda dell’Agro Pontino, lasciato morire per omissione di soccorso dopo aver perso un braccio. Nonostante il clamore iniziale sullo stato di sfruttamento sistemico che caratterizza il settore agricolo, anche questa notizia è subito passata in sordina: in Italia, donne e uomini migranti continuano a lavorare, in una condizione di segregazione occupazionale, nei settori maggiormente pericolosi, guadagnando molto poco e/o dove vige un sistema semi schiavistico. Secondo l’ultimo rapporto Idos 2024, “più di 6 lavoratori stranieri su 10 svolgono mansioni operaie o non qualificate (61,6% vs il 29,5% degli italiani) e non vedono migliorare le loro condizioni con l’anzianità occupazionale, mentre meno di 9 su 100 esercitano una professione qualificata (8,7% vs il 38,6% degli italiani). A loro continua a essere riservato un segmento assai ristretto del mercato, visto che le prime 19 professioni ne assorbono già oltre il 50% (per gli italiani ce ne vogliono 47), con una drastica contrazione nel caso delle donne, più della metà delle quali è impiegata in appena 4 professioni: collaboratrici domestiche, badanti, addette alla pulizia di uffici ed esercizi commerciali, cameriere”. Infine, il Governo si appresta ad approvare il Ddl Sicurezza (Ddl 1660), che oltre a ridurre drasticamente le libertà individuali, soprattutto per quanto concerne la libertà di protesta, riduce gravemente forme di dissenso anche per le persone rinchiuse in Cpr, impedendo alle persone prive di permesso di soggiorno persono di avere una sim per le telecomunicazioni, l’ennesima discriminazione che porta ad eslcusioni sociali.
Un inesorabile deterioramento dei diritti fondamentali
Ci troviamo di fronte a un punto di non ritorno, dove i diritti delle persone migranti non solo non vengono tutelati, ma vengono sistematicamente violati da quelle stesse istituzioni che dovrebbero, in teoria, farsi baluardo della loro salvaguardia. Occorre un urgente cambiamento di rotta che tuteli non solo il diritto alla libertà di movimento, garantendo vie sicure per chi desidera spostarsi o è costretto/a a farlo, ma anche processi di regolarizzazione, accesso ai servizi perché è solo così che possibile contrastare marginalità e discriminazioni sistemici.
Foto copertina via Alessia Perretti/Creative Commons