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Senza documenti e vulnerabili: la realtà delle donne migranti in Europa

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22 marzo 2023 - Oiza Q. Obasuyi
In Europa, le donne migranti prive di documenti costituiscono uno dei gruppi a più alto rischio in ambito lavorativo e sociale, con conseguenze gravi e spesso tragiche sulle loro vite. Prendendo come casi di studio Malta, Irlanda e Polonia, Frohar Poya, ricercatrice dello European Network for Migrant Women, descrive l’impatto che il periodo post-Covid ha avuto sulle vite delle lavoratrici migranti.

Quando si parla di persone migranti, raramente viene fatta emergere la condizione delle donne, doppiamente discriminate e penalizzate in quanto tali e in quanto persone straniere. Insieme al razzismo strutturale e sistemico, la violenza di genere, il rischio di finire nelle trame dello sfruttamento sessuale, il non riuscire a ottenere i documenti per poter rimanere in Europa è un altro elemento che penalizza ancora una volta le donne migranti, come spiega la ricercatrice Frohar Poya, in Undocumented migrant women in europe in the post-covid period: cases of ireland, malta and poland and eu-wide implications.

A fine 2017 il numero di richiedenti asilo ammontava a 1 milione, con oltre 765mila domande pendenti nel mese di dicembre 2020.  Queste cifre includono donne e ragazze, ma non ci sono dati specifici al riguardo donne migranti prive di documenti, la cui posizione di vulnerabilità e precarietà è significativamente peggiorata durante la pandemia.

Innanzitutto, nel rapporto viene evidenziato che le donne migranti sono state particolarmente penalizzate per tre fattori: l’impatto negativo sul lavoro e sui loro documenti; la perdita della casa; lo sfruttamento sessuale e abusi.

Per quanto riguarda la questione del lavoro e dei documenti – tenendo presente che la maggior parte delle donne intervistate nella ricerca lavora in ristoranti, in piccoli supermercati o come colf – gran parte delle lavoratrici migranti ha di fatto perso la propria mansione. “Ad esempio”, si legge nel rapporto “in Irlanda le lavoratrici domestiche o che svolgono “lavori poco qualificati” […] sono state gravemente colpite perdendo la loro fonte di reddito”. A questo si aggiunge il fatto che molte donne non hanno avuto accesso ai documenti per via di ritardi burocratici. Sempre in Irlanda, sono stati registrati notevoli ritardi nel processo di rilascio dei visti in scadenza, mentre a Malta è stato introdotto un sistema di domanda online che ha comportato difficoltà per le donne migranti che non conoscevano la lingua o mancavano di risorse per poter accedere a Internet e compilare le domande di asilo o di estensione del visto.

Gravi conseguenze dovute alla precarietà sono state riscontrate quindi anche per quanto riguarda l’accesso alla casa. “Secondo le intervistate”, riporta Poya, “in Irlanda, […] molte donne prive di documenti hanno perso il loro alloggio […]. A Malta, un’intervistata ha riferito che il governo aveva istituito servizi che fornivano riparo alle donne prive di documenti durante la pandemia di Covid, tuttavia a causa della scarsa diffusione delle informazioni su tali servizi – e della generale mancanza di accesso alle informazioni tra le donne migranti – pochissime donne prive di documenti hanno beneficiato dei rifugi”.

A queste condizioni di vulnerabilità si somma un ulteriore aspetto che colpisce le donne migranti prive di documenti, lo sfruttamento sessuale e gli abusi. Infatti, stando a quanto riporta la ricerca, durante il lockdown e il periodo successivo, in concomitanza con la perdita dell’alloggio, l’impossibilità di accedere ad alcun servizio, e la perdita del lavoro, è aumento anche il rischio di sfruttamento sessuale per molte. Secondo quanto riferito dalle intervistate, molte donne sono state sfruttate sessualmente e abusate senza ottenere alcuna tutela. “Ad esempio, a Malta”, scrive Poya, “alcune donne prive di documenti sono state avvicinate da uomini che hanno chiesto loro di avere una relazione in cambio di un supporto finanziario”. Poya sottolinea che le donne che hanno subito questa forma di coercizione sessuale non sono riuscite a ottenere alcun tipo di supporto materiale o legale: la carenza di denunce rivolte alle autorità sui casi di abusi e sfruttamento sessuale, infatti, derivano principalmente dalla condizione di massima vulnerabilità socio-economica e dalla paura di essere rimpatriate nel proprio Paese di origine. Secondo Poya, tra i fattori che impediscono alle donne migranti di rivolgersi alle autorità emergono la paura di perdere l’affidamento dei propri figli; la paura di essere deportate nel paese di origine; la paura di ritorsioni da parte di chi abusa di loro; la mancanza di consapevolezza di meccanismi, organizzazioni e autorità dove potevano tranquillamente denunciare la violenza e le barriere linguistiche. Le cinque circostanze che si intersecano tra loro si applicano anche a donne discriminate o abusate sessualmente a lavoro. In primo luogo, secondo le intervistate, le donne lavoratrici prive di documenti venivano pagate ben al di sotto la media – talvolta non venivano pagate affatto – perché il datore di lavoro sfruttava la loro condizione di irregolarità minacciandole di denunciarle alle autorità. Inoltre, similarmente, poiché prive di documenti, si sentivano totalmente incapaci di poter denunciare molestie o abusi sessuali da parte degli stessi datori di lavoro o dai colleghi, per paura di essere rimpatriate.

Infine, per quanto concerne l’accesso alla sanità, quest’ultima rimane un ostacolo per tutte le persone migranti, specialmente se prive di documenti soprattutto perché, generalmente, per accedervi sono necessarie la carta d’identità nazionale di riferimento o l’assicurazione sanitaria. “Secondo le intervistate”, afferma Poya, “indipendentemente da quanto acuta o grave fosse la loro condizione di salute, l’assenza di una carta d’identità nazionale e/o assicurazione,  ha impedito alle donne migranti di cercare assistenza medica professionale, anche quando erano molto malate […]. La maggior parte evita di andare al pronto soccorso per paura di essere detenute e deportate”.

Nonostante le gravi falle burocratiche e sistemiche che discriminano le donne migranti – tenendo presente che i diritti delle stesse potranno essere veramente tutelati solo con un radicale stravolgimento delle politiche migratorie securitarie degli stati dell’Ue – Poya delinea alcune possibili soluzioni. Innanzitutto è necessario rendere effettivo l’accesso ai documenti: “questo può essere fatto”, spiega Poya, “canalizzando maggiori risorse a organizzazioni specializzate guidate da donne (migranti e non) in modo da consentire loro di soddisfare le esigenze delle donne che accedono a queste organizzazioni” e “garantendo un sistema legale efficace dove le donne migranti prive di documenti possano accedere ai servizi, all’alloggio e al supporto – anche per denunciare violenze e discriminazioni senza aver paura di essere deportate”. Infine, scrive Proya, è necessario che gli Stati Ue rispettino le normative vigenti sui diritti umani, a partire dalla Carta dei Diritti Fondamentali dell’Ue, così come una maggior implementazione della Convenzione di Istanbul (contro la violenza sulle donne, del Consiglio d’Europa) e della CEDAW (Convenzione per l’eliminazione della discriminazione contro le donne, delle Nazioni Unite) negli ordinamenti legislativi nazionali.

 

Questo studio è stato prodotto all’interno di Humming Bird. Humming Bird è un progetto Horizon 2020 che mira a migliorare la mappatura e la comprensione dei flussi migratori in evoluzione.

 

Foto via Flickr, William Hamon

Etichettato con:abusi, donne migranti, European Network for Migrant Women, HumMingBird

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