“Mi dicono che la recinzione possa avere la funzione di proteggere maggiormente i confini dei paesi al di fuori dell’Ue dai rifugiati, che continuano a percorrere – in massa – la cosiddetta rotta balcanica. Sarà così, ma io non sono d’accordo.”
A parlare così è stato Šćiprim Arifi, il sindaco di Presevo, città serba al confine con la Macedonia del Nord, in un’intervista a RadioFreeEurope. Proprio nella sua municipalità di competenza, infatti, c’è il villaggio di Miratovac, dove il governo serbo ha iniziato a costruire una barriera di filo spinato.
Secondo il sindaco, citato da fonti locali, riprese da Afp e media nazionali serbi, questa barriera (e i rispettivi finanziamenti per la costruzione della stessa) farebbero parte dell’accordo tra Belgrado e l’Ue per il contenimento dei flussi migratori. Né il governo serbo né Bruxelles hanno per ora chiarito la situazione.
“La popolazione locale avrebbe molto più bisogno della riapertura del valico di frontiera tra Miratovac e Lojane, chiuso trenta anni fa da Milosevic”, ha aggiunto nella sua dichiarazione Arifi. Non a caso. Arifi è esponente della minoranza albanese in Serbia, assolutamente maggioritaria a Presevo, come a Lojane in Macedonia del Nord. “Molta gente potrebbe passare e curare le proprie coltivazioni dall’altra parte del confine. Aprire un valico serve più di un muro alla comunità locale.”
Non si può escludere, anche considerando le parole amare del primo cittadino locale, che il governo serbo non si sia fatto troppi problemi a costruire una barriera dove c’è una minoranza che, al di là della retorica del recente dialogo mediato da Trump e Netanyahu, non rientra tra le priorità di Belgrado. E i migranti sono sempre un buon pretesto, con il Covid anche di più.
Proprio a Miratovac, infatti, sorge uno dei 18 centri per migranti che ci sono in Serbia. Qui i nuovi arrivati sono sottoposti a tampone e, se l’esito è negativo, trasferiti in altro centro. Durante tutto il lockdown, è stato l’esercito serbo a presidiare questi centri, recludendo i migranti e continuando a limitare le loro libertà anche ora che l’emergenza Covid in Serbia è molto meno stringente.
La costruzione della barriera, che ha una conferma in una foto circolata in rete, scattata da attivisti dell’Azil u Srbiji Asylum Protection in Serbia, stupisce particolarmente considerata la situazione dei migranti e dei richiedenti asilo in Serbia.
Mentre la situazione in Bosnia-Erzegovina è esplosiva, aggravata dall’ostilità crescente verso siriani, iracheni, afghani e altri da parte della popolazione locale, mentre restano brutali i respingimenti in Croazia, e illegali quelli dall’Italia alla Slovenia, per non parlare della situazione in Grecia e nelle sue isole, non si capisce il senso di questa misura, visto che la Serbia ha solo flussi di passaggio e senza numeri travolgenti.
Anzi, proprio in riferimento ai fondi europei, sembrano quasi sovradimensionati i 18 centri di vario tipo costruiti negli ultimi anni dal governo di Belgrado. O forse le due cose stanno assieme, visto che in qualche modo, per continuare a ricevere fondi, bisogna sempre avere ‘un’emergenza’ da scambiare con denaro europeo.
La Serbia si aggiunge alla catena di paesi che lungo la Balkan Route, dalla crisi del 2015 – quando quasi un milione di persone ha percorso la strada dal confine tra Grecia e Turchia e l’Ue, passando per le repubbliche della ex-Jugoslavia, hanno costruito muri e barriere.
Il primo recinto di filo spinato per i rifugiati è stato eretto dall’Ungheria, che nel 2015, ha realizzato una barriera lunga 150 chilometri sull’intero confine con la Serbia, dotata di video e telecamere termiche. Sempre nel 2015, la Slovenia aveva provveduto a blindare il confine con la Croazia, mettendo su una barriera di 180 chilometri, recentemente rafforzati da un altro tratto di 40 chilometri di recinzioni.
Nel 2016, la Macedonia del Nord ha protetto il confine meridionale con la Grecia con una doppia recinzione di filo metallico e, secondo i dati ufficiali, sono stati eretti 37 chilometri di una recinzione alta 2,5 metri con un filo spinato in cima. Nel 2018 fu la volta della Bulgaria, che nella città di Lesovo, al confine con la Turchia, ha edificato un muro di 200 chilometri. Il Montenegro, in passato, ha ventilato la possibilità di costruire un muro al confine con l’Albania.
Muri che, realizzati, hanno dimostrato di non servire a nulla, come ha commentato il segretario generale della ONG Legis di Skopje, Jasmin Rexhepi, che ha confermato l’inizio dei lavori dopo un sopralluogo sul posto con altri attivisti. “Sono stati piantati i piloni di sostegno, sembra voler diventare simile alla barriera che il governo macedone ha eretto al confine con la Grecia, che non serve a nulla. Secondo la polizia di frontiera macedone – ha spiegato a RadioFreeEurope Rexhepi – sono almeno 200 le persone che lo saltano ogni giorno, sono circa 50 quelle che passano il confine tra Macedonia del Nord e Serbia. Cinquanta. Che senso ha un muro? Non li fermerebbe comunque.”
I numeri, come sempre, aiutano. Secondo l’ultimo rapporto dell’Unhcr, il numero di stranieri arrivati in Serbia ad agosto 2020 è aumentato del 26%, con 4.044 persone, rispetto alle 3.203 di luglio. L’88% di queste persone è arrivato dalla Macedonia del Nord, il 6% dalla Bulgaria e il 5% dall’Albania (attraverso il Kosovo). Un aumento, quindi, ma si parla di poche migliaia di persone, in un territorio che conta su ben 18 centri di accoglienza e transito pagati dall’Ue.
L’ennesimo muro dei Balcani, l’ennesima barriera di filo spinato dopo trent’anni dalla caduta del muro di Berlino, sembra inutile come tutti gli altri. O comunque utile, sfruttando il tema migranti, per altre agende. Quella del premier Vucic, alla ricerca di consensi tra l’estrema destra serba (dalla quale proviene, prima della svolta ‘centrista’ ed ‘europeista’), furiosi con lui per le aperture al Kosovo. E quale miglior zona che una abitata, appunto, da ‘albanesi’? I terreni per la costruzione del muro sono stati espropriati (come mostra un documento pubblicato a giugno dal Republičke direkcije za imovinu, una sorta di catasto nazionale serbo) a proprietari locali che avranno poca voce in capitolo nelle proteste.
Come i migranti che, come sempre, non ne avranno nessuna. Nello stesso rapporto dell’Unhcr, spicca anche il dato che sono dodici quelli morti ad agosto in Serbia. Uno in una rissa a Belgrado, gli altri undici annegati nel fiume Tisza, al confine con l’Ungheria. Perché i muri non fermano nessuno, rendono sono la vita – e la morte – un inferno.