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Homepage >> Approfondimento >> SSAW, Support Survivors of african wars, un ponte fra i rifugiati e il Sudan in guerra

SSAW, Support Survivors of african wars, un ponte fra i rifugiati e il Sudan in guerra

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16 luglio 2025 - Ilaria Romano
La riacutizzazione periodica di crisi e violenze diffuse in quasi tutto il continente è la prima causa dell’emigrazione: in Africa sono almeno 25 milioni le persone che vivono al di fuori del paese di nascita, all’incirca una ogni cinquanta, e questo dato è destinato a crescere. Ce ne parla Ilaria Romano.

Il numero di conflitti nel mondo raggiunto nel 2024 è stato il più alto dal 1946. Secondo i dati raccolti nel Rapporto 2025 del Peace research institute di Oslo, lo scorso anno è stato anche il quarto più violento dal 1989, e ad incidere su questo record negativo sono state soprattutto la guerra in Ucraina e il genocidio di Gaza, ma anche le violenze, le vittime e i disastri causati dagli altri conflitti che attualmente interessano 36 paesi del mondo, se si parla di conflitti statali, ossia dove una delle parti in causa è lo stato con il suo esercito contro un gruppo armato, un’organizzazione o una milizia. Se si considerano invece i conflitti non statali, ossia quelli tra fazioni armate che non sono legate al governo in carica, il numero sale a 74.

In entrambi i casi, nel Rapporto sono presenti diversi paesi africani: Burkina Faso, Camerun, Repubblica Centrafricana, Repubblica Democratica del Congo, Etiopia, Mali, Mozambico, Niger, Nigeria, Somalia, Sudan e Sud Sudan, sono stati e sono tuttora interessati da conflitti di diversa intensità, nei quali i civili sono vittime di gruppi armati ma anche delle forze di sicurezza ufficiali.

Le guerre in atto

In Burkina Faso, l’operazione Green Whirlwind 2, condotta tra febbraio e aprile scorsi dalle forze speciali e dalle milizie dei Volontari per la difesa della patria contro il gruppo jihadista Jamaat Nustrat al-Islam wal-Muslim si è trasformata nel massacro di 130 civili, al quale hanno fatto seguito una serie di rappresaglie del Jnim contro altri civili accusati di essere collaborazionisti del governo. 

Nella Repubblica Democratica del Congo, l’avanzata dei ribelli del Movimento 23 Marzo o M23, partita nel dicembre 2024 e sostenuta dal Rwanda, si è affiancata alle azioni militari delle Forze Democratiche Alleate Adf, un gruppo islamista legato allo Stato Islamico e già attivo nel Nord Kivu. Con il cessate il fuoco accordato tra il presidente congolese e quello rwandese, l’esercito regolare è stato meno coinvolto nelle ostilità ma al suo posto è emersa la coalizione Wazalendo, un’associazione di milizie alleate con il governo, che continua a combattere contro i ribelli. 

In Etiopia le milizie Fano, formate da giovani reclutati dalla regione di Amhara, stanno combattendo contro le forze militari federali per il controllo della regione centro-settentrionale. Secondo ACLED, Armed Conflict Location and Event Data, nel solo mese di marzo di quest’anno nell’area ci sono stati oltre 150 scontri armati, il numero più alto dall’inizio dell’insurrezione Fano del 2023. 

In Nigeria le forze militari governative hanno intensificato le operazioni contro Boko Haram e la Provincia dello Stato Islamico dell’Africa Occidentale Iswap, con attacchi di terra e aerei, mentre in Sud Sudan la milizia dell’Esercito Bianco, un gruppo armato legato alla figura del vice presidente Riek Machar, ha aumentato le incursioni contro le forze governative, che hanno risposto con una serie di attacchi aerei e con droni, che secondo Acled avrebbero colpito quasi sempre civili, provocando lo sfollamento di almeno 50 mila persone. 

Il Sudan, la crisi più grande

In Sudan la guerra fra le Saf, forze armate sudanesi del generale Abdel Fattah Abdelrahman Burhan e le Forze di supporto rapido, Rsf, il gruppo paramilitare che fa capo a Mohamed Hamdan Dagalo, va avanti dall’aprile del 2023. Prima di quest’ultimo conflitto il paese stava già affrontando una grave crisi umanitaria, causata da altri vent’anni di guerra, con quasi 16 milioni di persone bisognose di assistenza, che oggi sono poco meno del doppio. 

Secondo i dati dell’Unhcr aggiornati alla fine di giugno, gli sfollati interni sono più di 10 milioni, dei quali almeno 7 sono fuggiti dal proprio villaggio o da una grande città dopo il 15 aprile di due anni fa, mentre gli altri lo avevano già fatto in precedenza, a partire dal 2003 con l’inizio della guerra del Darfur. In totale il 13% dell’intera popolazione dei 18 stati sudanesi è sfollata, e la più alta percentuale di “idp”, internal displaced people, il 30%, proviene da Khartoum, oggi ex capitale del paese dopo il trasferimento provvisorio del governo a Port Sudan. 

Altri 4 milioni di sudanesi hanno lasciato il paese e si trovano in uno dei campi profughi degli stati confinanti: il Ciad ne ospita circa un milione e 200 mila, con una media di 1.400 nuovi ingressi al giorno (soltanto nell’ultimo mese 68.556 persone hanno attraversato il confine, principalmente dal Darfur settentrionale, secondo i numeri diffusi dal Wfp, World Food Programme).  

Gli ingressi in Egitto sono stati finora un milione e mezzo, il Sud Sudan un milione e 100 mila, l’Etiopia 100 mila, la Repubblica Centrafricana 25 mila, l’Uganda 81 mila e la Libia 50 mila. 

“La situazione umanitaria è grave in tutto il Sudan – spiega Khalid Abaker, direttore nazionale di SSAW, Support survivor of african war, un’associazione nata nel 2023 con lo scopo di aiutare chi sta vivendo le conseguenze di un conflitto – ma in particolare in Darfur, dove non arriva alcun tipo di aiuto. Nell’Est, a Port Sudan, ci sono delle organizzazioni umanitarie che lavorano e quindi chi vive o è fuggito in quella parte del paese ha qualche possibilità in più di ricevere un supporto, mentre nell’Ovest l’accesso degli aiuti è quasi impossibile.”

L’azione di Support survivor of african war

SSAW ha appena terminato una raccolta di farmaci, presidi sanitari come stampelle e sedie a rotelle, generi alimentari e materiale scolastico, e ora il container è in viaggio su una nave partita da Genova e diretta a Port Sudan. 

“Siamo un gruppo di rifugiati sudanesi che oggi vive in Lombardia – continua Abaker – e ci siamo attivati sin dall’inizio della guerra per cercare di aiutare il nostro paese. Sul posto lavoriamo con associazioni locali che conoscono i reali bisogni delle persone e soprattutto hanno la possibilità di muoversi sul territorio.”

Quale sarà il viaggio del container una volta approdato in Sudan?

Grazie alla Sudan Resilience Organization, che a differenza di altre ha l’appoggio del governo, gli aiuti attraverseranno il paese ed entreranno in Darfur. Non abbiamo deciso in anticipo le località di distribuzione, che dipenderanno dalle condizioni sul campo, dato il conflitto in corso. Le strade principali spesso non sono percorribili, e quindi gli operatori umanitari locali si spostano in tempo reale su strade secondarie, cambiando percorso di volta in volta.

Quello che stiamo cercando di fare è di creare un ponte con le aree più remote del Sudan, affinché nessuno sia abbandonato. Siamo ancora una piccola realtà e non abbiamo la pretesa di raggiungere tutti, ma abbiamo sentito la necessità di fare qualcosa, per le nostre possibilità.

Come siete organizzati come SSAW?

Abbiamo un direttivo composto da sei persone e una squadra di 86 volontari. Siamo tutti rifugiati, e quindi abbiamo un background migratorio che abbiamo deciso di mettere a disposizione di chi arriva in Italia e in Europa, oltre che lavorare come “ponte” con i nostri paesi d’origine.

Oggi state lavorando sul Sudan, che rappresenta una crisi umanitaria di proporzioni enormi, e che sta vivendo una guerra di cui non si parla abbastanza: quali altri progetti avete per il futuro?

Siamo partiti dal Sudan perché nel direttivo siamo tutti sudanesi, quindi ci toccava da vicino la situazione dei nostri cari, ma l’intento è quello di essere dove c’è più bisogno. L’Africa è attraversata da tanti conflitti e confidiamo di poter allargare l’aiuto anche ad altri paesi. Cerchiamo di fare informazione su quale sia la situazione del nostro paese, che sta vivendo una guerra sottotraccia. Abbiamo organizzato incontri in diverse città italiane, io sono stato anche in Germania a raccontare cosa stia succedendo. La conoscenza è il primo passo.

Avete scelto di mettere da parte il discorso politico a favore degli aspetti umanitari: quanto è difficile intervenire in un paese diviso all’interno?

Come associazione l’intento è quello di fare gruppo attorno ad azioni concrete di aiuto umanitario, senza creare divisioni. Ognuno di noi ha la sua idea politica, e io personalmente penso che finché non si arriverà ad elezioni realmente libere, chiunque prenderà il potere con la forza non avrà interesse a cambiare in meglio il paese. La mentalità dei nostri governi è ormai vecchia, e nessuno vuole dare un’opportunità di cambiamento alle nuove generazioni. In cento anni non abbiamo mai avuto un voto che non fosse pilotato, e il potere è sempre stato preso con i colpi di stato. Non parteggio per nessuna delle fazioni in lotta, c’è chi invece ha un’altra idea, ma come SSAW vogliamo partire dal supporto ai civili che subiscono le conseguenze della guerra, terribili per tutti. Purtroppo si sono create delle divisioni anche fra noi sudanesi della diaspora, a causa del conflitto, ma noi dobbiamo puntare a superarle, pensando a chi non ha nulla e aspetta un aiuto.

In Italia, e in particolare in Lombardia, lavorate per dare un supporto a chi è appena arrivato, ha affrontato un viaggio spesso traumatico e deve ricominciare da zero: come vi muovete?

Ci occupiamo dei migranti perché noi per primi siamo stati migranti: diamo informazioni su come avere un permesso di soggiorno, su dove dormire, se serve ci occupiamo di fornire cibo e vestiti. Abbiamo anche partecipato a un bando dell’Unhcr per un progetto di quattro mesi sull’insegnamento dell’italiano, dell’inglese e per l’alfabetizzazione digitale che, come cerchiamo di spiegare, è fondamentale. Adesso stiamo cercando una sede per nuove attività e nel mentre facciamo quotidianamente supporto anche psicologico nei confronti di chi si ritrova a ricominciare da zero, è spesso spaesato e con traumi importanti alle spalle. Anche questo serve a superare certe paure che chi ha affrontato un viaggio di migrazione dall’Africa, e non solo, si porta dentro. Io stesso, quando sono arrivato in Italia, avevo memoria della Libia, dei centri di detenzione, e ho imparato solo col tempo a non guardarmi le spalle quando cammino per strada, mentre all’inizio avevo continuamente paura di essere aggredito perché erano dinamiche che avevo vissuto.

A Milano facciamo una cosa molto semplice: andiamo in Stazione Centrale, cerchiamo le persone appena arrivate, gli offriamo un caffè ed entriamo in contatto con loro, da pari a pari. L’aiuto parte da un piccolo gesto di benvenuto.

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