Avendo vissuto a Khartoum dal 2015 al 2019, con il primissimo colpo di stato (2019), ho toccato con mano l’inizio di una strisciante contrapposizione tra potere politico, militare e società civile che oggi si è trasformata in una guerra lacerante. Il casus belli, già descritto in un precedente articolo su Open Migration, a distanza di appena 3 mesi è degenerato inesorabilmente riaccendendo anche dinamiche interetniche e intertribali nella già martoriata regione del Darfour. Dall’inizio del conflitto si contano oltre 5.000 vittime. Secondo le stime UN, più di 3,1 milioni di persone sono state sfollate, di cui oltre 700 mila fuggite nei paesi vicini. Chi ha potuto e voluto, ha tempestivamente lasciato Khartoum, rifugiandosi lontano, nelle zone delle tribù di appartenenza. Chi ha abbandonato direttamente il paese e chi, infine, è rimasto in città pregando che una bomba non disintegrasse la propria abitazione. In questo articolo ho raccolto le voci di amici e conoscenti che sono rimasti a Khartoum o che, per diversi motivi, sono fuggiti nei paesi limitrofi. Proprio chi ha lasciato la propria abitazione partendo per lidi più o meno lontani, ha potuto testimoniare la distruzione del paese condividendo il dolore scaturito dalla consapevolezza che, come riportato da Gaetano Papale, difficilmente riabbraccerà colleghi e compagni. Gaetano, dopo quasi cinque mesi di stenti, ha recuperato un briciolo di serenità per se stesso e per la sua famiglia riuscendo a scappare per raggiungere l’ospedale italiano di Emergency a Soba, Khartoum Sud. Così racconta in un lungo audio inframezzato da sospiri e attimi di commozione:
“Tutto è iniziato il 15 aprile mattina, un sabato. Ho portato i bambini a scuola ed era tutto tranquillo. Mia moglie dormiva. Dopo ¼ d’ora chiama mia suocera dicendo che sente colpi di cannone. Un ¼ d’ora dopo chiama mia cognata che abita ad Amarat, vicino alla scuola dei bambini e dice: “dove sono i bambini? Qui è in corso una battaglia”. Apriamo la finestra che guarda direttamente sulla base militare e sulla fabbrica di munizioni e vediamo militari e carri armati uscire a fiotti e al contempo stavano chiudendo la strada di casa nostra”.
Con queste parole si apre il drammatico racconto di Gaetano, nato e cresciuto a Khartoum, sposato con Mona, una donna sudanese nonché padre di due bambini, Dany e Lilly.
“Il primo mese e mezzo è andato tutto bene. C’era la corrente, si trovava ancora tutto”. Dopo di che, le RFS [le Rapid Support Forces, sono forze paramilitari sudanesi] sono avanzate occupando sempre più zone. Un giorno un aereo sudanese ha bombardato e distrutto il trasformatore principale di elettricità e quindi, per tre mesi e mezzo non abbiamo avuto più corrente, l’acqua un giorno sì e uno no. Piano piano hanno iniziato a chiudere tutte le strade, non arrivavano più rifornimenti”.
Lentamente si palesa “uno scenario di guerra” connotato dal rumore assordante degli spari e dei bombardamenti, dai cadaveri riversi per terra, dal blocco totale delle forniture commerciali, dalla mancanza di elettricità, internet, gas e dei servizi di assistenza specifica medica (fatta eccezione quella di Emergency). Sempre Gaetano racconta:
“I forni hanno finito la farina, non si trovava più pane, non arrivava latte, niente. Siamo sopravvissuti tre mesi e mezzo mangiando pasta e lenticchie e, una volta terminate le provviste, facevamo la pita, un tipo di pane che mangiavamo con la molokhia e la rigla (verdure sudanesi) e qualche dattero. Un giorno c’è stato un attacco di mortaio vicinissimo alla nostra abitazione, sono morte diverse persone e molte altre sono rimaste ferite. Da quel giorno è iniziato il dramma. Lo scambio di fuoco tra RFS ed esercito ha assunto proporzioni enormi, proiettili, cannonate, droni. E poi, una settimana fa (fine agosto) c’è stato un forte attacco al quartiere limitrofo dove sono morte 15 persone. Il giorno dopo è toccato alla nostra zona e sono morte altre 9 persone. Decine e decine di feriti. Allora abbiamo deciso di scappare. Siamo usciti alle 03:30 di notte, a piedi… eravamo una settantina, in marcia con bagagli e bambini. Al buio. Spaventati perché avevamo cecchini dell’esercito alle spalle e cecchini delle RSF davanti”.
Questa storia, pur tra stenti e paura, deve essere considerata “a lieto fine” se paragonata alle troppe vittime di questa guerra. Gaetano e i suoi cari, grazie a un’operazione congiunta con Emergency, sono stati portati dalle RSF all’ospedale italiano a Soba. Proprio dalla ONG riferisce: “siamo passati dall’inferno al Paradiso. Abbiamo corrente elettrica, acqua pulita, pane, latte, carne e internet.” Con tono nostalgico, inframezzato da molteplici sospiri, racconta di come i suoi occhi, usciti dalle quattro mura di casa, diventata una galera, abbiano potuto vedere la disintegrazione generale del paese.
“Durante il tragitto è stata dura. Ho visto tanta distruzione. Ho pianto. Il Sudan che conosco, dove sono nato e che amo non lo vedrò più. Chissà se rivedrò i miei amici e i miei compagni. Dio con noi.”
Gaetano e la sua famiglia adesso sono a Port Sudan, sulle sponde del Mar Rosso. Lì si giocherà il loro futuro poiché dovranno rinnovare i passaporti e chiedere il visto per l’Arabia Saudita. In questo frangente, come evidenzia un’altra testimone, l’illegalità dilaga placidamente. Non solo per gli stupri e i rapimenti, già abbondantemente rendicontati dai media, ma altresì per il mercato nero legato ai visti e ai “security pass”. Questi ulteriori accadimenti sono narrati da una giovane donna sudanese che ha chiesto l’anonimato. La chiamerò Amal (speranza, in arabo) per semplicità espositiva. Contrariamente a quanto riferito da Gaetano, fuggito a seguito dell’invasione massiva del suo quartiere, Amal e i suoi genitori hanno preso la decisione di lasciare il paese per motivi di salute legati al padre in dialisi.
“I primi giorni sono stati tranquilli, il quartiere era circondato dai militari sudanesi. Lentamente iniziarono a scarseggiare le risorse e soprattutto mio padre cominciava ad avere difficoltà ad andare ogni settimana in ospedale per fare la dialisi. Sono circa 40 minuti di auto da casa nostra. Avevamo paura perché sapevamo che le RSF fermano le persone e le derubano. Io non potevo accompagnarlo perché giravano notizie di rapimenti di ragazze e di stupri. Alla fine abbiamo assunto qualcuno che potesse guidare. Purtroppo, settimana dopo settimana, sono terminati i generi alimentari e di prima necessità. Non avevo neanche gli assorbenti. Dovevo camminare km per trovare una farmacia aperta”.
Questa testimonianza porta alla luce un giro di macabra illegalità. Amal racconta che era possibile reperire il gas al mercato nero a costi esorbitanti (100$ a gallone). Infine l’episodio decisivo:
“Siamo sopravvissuti tra gli stenti fino al 45esimo giorno. Poi c’è stata una fortissima esplosione vicino a noi… le RSF avevano attaccato l’ospedale di quartiere. Avevano ucciso i dottori e i pazienti per poi usare l’edificio come accampamento. Ho visto con i miei occhi i corpi bruciare. Ho vissuto cose che non dimenticherò mai. Il giorno 65esimo le RSF hanno attaccato anche l’ospedale dove mio padre faceva la dialisi. Hanno buttato fuori a calci persone attaccate ai macchinari”.
Questo episodio ha fatto maturare in loro la decisione di lasciare il paese.
“Quando ci hanno detto che potevamo portare un solo bagaglio a mano, per me è stato un momento di grande dolore. Sapevo che non avrei mai più trovato le mie cose. Ho guardato per l’ultima volta i miei vestiti, i miei libri, le mie fotografie. È stato il momento più doloroso in assoluto, sanguinavo da dentro. Ho salutato i miei pochi averi e basta. Ci hanno preso con un piccolo transfer del centro dialisi. In questo modo, se le RSF avessero voluto rapirmi, sarei stata protetta. Chi vuole una persona malata?”
Superati i checkpoint, Amal viene informata che il paese di destinazione non avrebbe accettato sudanesi senza visto.
“Ho lasciato i miei genitori e sono andata da sola a Port Sudan per ottenere i visti. Grazie al mio networking, ho risolto il problema al costo di 500$ a persona… Quindi, presi i miei genitori siamo partiti. Nel momento in cui iniziavamo a vedere un lume di speranza, ci annunciano che il paese ospitante richiedeva un security pass che noi non avevamo. Il comando era di inviarci indietro in Sudan. Ho chiamato tutti quelli che conoscevo, nessuno mi ha aiutato. Mio padre ha avuto un malore ed è stato trasportato subito all’ospedale più vicino e, il giorno a seguire mi hanno rimandato in Sudan senza notizie dei mie genitori. A quel punto, ho cercato il modo di ottenere questo security pass e alla fine ho pagato più di 1.200$ a persona. Solo così ho potuto lasciare definitivamente il paese”.
Anche questo caso, quantunque il dramma vissuto, può essere definito “a lieto fine”. Da quando hanno lasciato Khartoum, tre bombe sono cadute sulla loro abitazione, disintegrandola. Queste testimonianze trasudano dolore e al contempo speranza. Speranza di un tempo migliore. Così si esprime il Prof. Avv. Mohammed Al Fathih, un uomo coraggioso che, nonostante una famiglia numerosa, è rimasto a Khartoum, saldo nella fede in Dio.
“Secondo i rapporti delle forze armate, i ribelli sono quasi sconfitti. L’ampia diffusione delle milizie tra le case dei civili ostacola l’annuncio dell’evacuazione. Ci auguriamo una vittoria recente. Il devastante attacco da parte di questi arabi del Sahara è stato disastroso per il Sudan. Non avete idea e non potete credere alle perdite, alle distruzioni che abbiamo subito. Abbiamo perso ogni cosa. Alloggi, automobili, uffici e tutti gli oggetti di valore. Adesso io e la mia famiglia risiediamo a Omdurman. Siamo stati evacuati dal nostro appartamento a causa di una sparatoria orribile”.
Il confronto militare, per il prof. Mohammed, non sembra l’unico problema: “molte agenzie di intelligence concordano nel dire che trattasi di una guerra inventata che mira a dividere l’unità del Sudan. Si vogliono appropriare delle risorse del Paese. Gli arabi del Sahara sono semplicemente degli strumenti insensati. Non vi sarà un vero vincitore né tra le forze ribelli né tra quelle nazionali. Alamdulillah, siamo equipaggiati della pazienza e della fiducia in Allah, l’Onnipotente”.
Secondo questa tesi, non vi sarà un vero vincitore. Le forze belligeranti procedono per inerzia al fine di accaparrarsi quante più risorse possibili. Vivono nell’inferno quotidiano dimenticandosi della loro gente.
Foto di copertina di Антон Дмитриев su Unsplash