La crisi sudanese degli ultimi mesi, e con essa i fenomeni migratori in entrata e in uscita, legali ed illegali, legati agli altissimi livelli di instabilità sociale ed economica nel Paese, ha origini profonde e si iscrive in un quadro regionale, il Corno d’Africa, di già endemica e generalizzata insicurezza militare, comunitaria, climatica ed ambientale. L’Etiopia è profondamente impegnata in una complessa opera di ricostruzione e pacificazione sociale post bellica; la Somalia, con difficoltà, cerca di contenere i fenomeni terroristici legati a una presenza ancora invasiva di Al Shabaab. L’Eritrea continua a perseguire un grigio isolamento ai danni di una popolazione privata di gran parte dei diritti umani e sociali. Il Sud Sudan dal 2011, anno della sua secessione da Khartoum, non ha mai completato il processo di costruzione istituzionale ed è oggi ancora preda di lotte intestine per la conquista del potere.
In tale scenario, per un breve periodo, il Sudan ha rappresentato la speranza di “soluzioni africane a problemi africani”, con gli accordi dell’agosto 2019 che avevano portato a un governo di transizione militare/civile con il compito di traghettare il paese verso la democrazia e la ricostruzione delle istituzioni e degli organi dello Stato centrali, come l’Assemblea legislativa, dopo trent’anni che il paese aveva subito la dittatura di Al Bashir. Un sogno durato poco, sino all’ottobre del 2021, quando i militari hanno deposto il Primo Ministro Hamdok, reo di non aver messo il Paese in sicurezza e, al contrario, di aver aggravato la crisi economica e i tassi di povertà. Un colpo di Stato che, in qualche modo, ha fatto rivivere la storia degli ultimi settant’anni del Sudan: tra momenti di dialettica politica, l’uso dell’Islam più costrittivo come quello della Sharia per creare consenso forzoso ai danni della società civile, e le fragilità istituzionali in ambito militare. Inoltre si è potuta constatare la presenza di troppi protagonisti avidi e spregiudicati (forze militari canoniche, milizie paramilitari, mercenari, servizi segreti, polizie urbane) in mancanza di un controllo centrale per frenare la corsa al potere e al predominio finanziario, conseguito attraverso il possesso delle imprese di Stato. Un colpo di Stato che, oggi, vede confrontarsi due figure entrambe con ambizioni più grandi, l’attuale capo delle Forze Militari (SAF) nonché presidente del Consiglio Sovrano di transizione, gen. Burhan, e il suo vice nella compagine governativa, il gen. Hemedti, anche capo delle forze paramilitari (RSF), nonché protagonista di pagine buie della storia sudanese, avendo comandato le truppe paramilitari, allora “Janjaweed”, agli inizi del 2000, per sedare i conflitti etnici scoppiati nelle regioni occidentali del Darfur. Una lotta di potere, per accaparrarsi il diritto a ricostruire e rigovernare il Paese quando uno dei contendenti sarà stato sconfitto.
Una lotta insensata che, rispetto agli anni passati, ha escluso nei suoi processi decisori la società civile ed, anzi, l’ha resa oggetto di violenza, soprusi e disperazione, oppressa dalla virulenza di un conflitto armato (a Khartoum come in altre città sudanesi) che ad oggi, secondo stime ONU, ha fatto più di 800 vittime accertate, di cui quasi 200 bambini e oltre 5.500 feriti. Le cifre presentate da OCHA nelle ultime settimane e ribadite di recente in audizione al Consiglio di Sicurezza dell’ONU dal rappresentante dell’organismo UNITAMS a Khartoum lasciano atterriti. Sono più di 1 milione e 400 mila gli sfollati interni, principalmente dagli Stati di Khartoum, Blu Nile, North Kordofan e dal Darfur occidentale e meridionale. Oltre 250.000 sono invece i rifugiati sudanesi nei Paesi vicini (Egitto, Sud Sudan, Chad, Eritrea, Etiopia), in un turbinio di dinamiche migratorie incrociate – generatesi in scenari parimenti instabili (come nei territori di Fashaga al confine con l’Etiopia, a Gedaref al confine con l’Eritrea, ad Abyei, contesa con il Sud Sudan) – che si incontrano, e generano nuovi processi di adattamento sociale e comunitario. Processi non più spontanei nella loro complessità (come l’ancestrale convivenza di nomadi e stanziali), bensì obbligati. Processi osteggiati dalla popolazione locale allo stremo che aprono il varco a confronti intra ed interetnici. Così aumenta chi si dedica ai commerci illegali, ai contrabbandi e alla criminalità, in assenza di diritto, in violazione dei diritti umani, nell’isolamento delle popolazioni più vulnerabili che vivono oggi condizioni umanitarie e sanitarie allo stremo. Ed anche chi in Sudan aveva trovato riparo dai paesi vicini afflitti da guerra, violenza, terrorismo, cominciando un lento ma sostanziale processo di integrazione, ha dovuto riprendere la strada dell’incertezza, scappando dalla guerra, trovando riparo nei campi rifugiati degli stati sudanesi di White Nile e Kassala, ove recenti stime OIM fanno registrare lo spostamento di oltre 33.000 rifugiati di altri paesi africani dalle principali città sudanesi verso i suddetti stanziamenti temporanei.
Come sempre accade, il prezzo più alto in questo scenario – nonostante i tentativi di tregua favoriti da USA, Arabia Saudita, UA (Unione Africana), IGAD (Intergovernmental Authority on Development), che ad oggi non hanno sortito effetti duraturi – è pagato dalla popolazione più fragile e indifesa. Sempre secondo stime dell’Onu, il 61% delle strutture sanitarie del paese è fermo, con un sensibile aumento del tasso di mortalità anche per patologie non a rischio. Parimenti, i rischi epidemiologici e pandemici sono aumentati sensibilmente. Si accresce vertiginosamente il livello di popolazione in stato di assoluta indigenza, in uno scenario dove l’unico porto di accesso riaperto agli aiuti umanitari internazionali (in particolare del WFP) è quello di Port Sudan. Infine, la chiusura delle scuole, secondo dati UNICEF, porterà nell’immediato futuro sensibili peggioramenti in termini educativi, in un Paese che oggi fa registrare circa il 70 per cento di bambini attorno ai 10 anni incapaci di leggere e circa 7 milioni di bambini mai iscritti ad istituti scolastici. Non sono molti gli esperti che scommettono su una chiusura rapida delle ostilità in Sudan. Sono tanti invece gli “expat” della comunità internazionale (tra cui la scrivente) che hanno vissuto il Sudan e hanno conosciuto la geniale creatività dei suoi giovani, la vitalità delle sue donne e la nobiltà d’animo nonché la religiosità della sua popolazione, che si dolgono grandemente per l’immensa perdita in termini di capitale umano che il Paese, senza dubbio, pagherà alla fine delle ostilità.
*Sociologa, specializzata in criminologia, dal 2015 al 2019 ha vissuto a Khartoum dove ha conseguito un dottorato in Sharia and criminal islamic Law presso l’International Univeristy of Africa. Ha collaborato con diverse Università e dal 2019 è docente a contratto di Islam e Sharia islamica (facoltà di sicurezza e cooperazione) all’UNISS.
La foto di copertina e quella nell’articolo sono entrambe dell’autrice.