Negli ultimi anni la Tunisia è diventata sempre più un paese di immigrazione per i cittadini dei paesi subsahariani, e il numero di persone è progressivamente aumentato, anche grazie agli accordi con alcuni dei paesi di provenienza che hanno abolito il visto d’ingresso. La comunità presente in maggior numero è quella degli ivoriani, seguita dai camerunensi, dai congolesi e dai sudanesi, in aumento negli ultimi mesi a causa dell’ultimo conflitto in corso. Questi paesi rappresentano all’incirca il 75% del totale degli arrivi, mentre il restante 25% è formato principalmente da eritrei, somali, maliani e nigeriani.
Se nei primi anni Duemila il principale motivo di trasferimento era lo studio, la situazione è cambiata dopo la Rivoluzione del 2011, e da allora la Tunisia ha cominciato progressivamente a trasformarsi in un paese di transito, ultima frontiera di terra prima di attraversare il Mediterraneo.
“Prima della cosiddetta Rivoluzione non c’erano altri motivi di immigrazione in Tunisia eccetto i percorsi di studio – spiega Kahlifa Chibani, analista ed esperto di sicurezza che incontriamo a Tunisi – ma dopo il 2011 le cose sono profondamente cambiate, e non parlo solo del nostro paese, ma di quanto accaduto in Libia, ad esempio, dove da allora non c’è più stato un governo unitario. E questo ha indebolito non solo il paese, ma tutto il Nord Africa.”
Chibani, ex colonnello, è stato prima portavoce della Guardia Nazionale tunisina, poi Direttore dell’Informazione del Ministero dell’Interno da novembre 2017 a giugno 2018. Oggi non ricopre più un incarico istituzionale ed è considerato fra i massimi esperti di geopolitica del paese. La sua posizione nei confronti delle politiche dell’attuale presidente Kais Saied è cautamente ottimista, mentre resta molto critico nei confronti dei partiti islamisti, che ha spesso accusato di voler screditare l’attuale Governo.
Com’è cambiata l’immigrazione di oggi?
L’instabilità libica ha portato molti migranti subsahariani a spostarsi dalla Libia in Tunisia anche per tentare la rotta del Mediterraneo. Prima la maggior parte delle persone si imbarcava direttamente da lì: salpavano barche di 300, 400 persone dirette in Italia. Oggi dal Ciad, dal Niger, dal Mali, dal Sudan si transita in Libia alla volta della Tunisia. D’altronde noi non abbiamo un confine diretto con i paesi della fascia subsahariana, per arrivare qui bisogna per forza passare dalla Libia o dall’Algeria.
La frontiera algerina rappresenta una rotta relativamente nuova: perché si stanno intensificando gli arrivi da quel confine?
Il flusso di migranti che attraversano dall’Algeria verso Kasserine o Nefta è in crescita perché si tratta di un confine permeabile, con meno controlli. Poi molte persone scelgono di non passare dalla Libia proprio per i rischi che corrono, anche se in molti sono comunque transitati da lì, prima di arrivare in Algeria. Stanno cambiando le rotte: prima i cittadini dei paesi del Corno d’Africa (Somalia, Eritrea, Etiopia, Sudan) arrivavano tutti dalla Libia, mentre quelli della fascia ovest dall’Algeria. Oggi invece ritroviamo anche somali o sudanesi che hanno percorso migliaia di chilometri in più. Ci siamo accorti di questo aumento degli arrivi dalla frontiera algerina dopo quanto avvenuto a Sfax la scorsa estate, perché in tutto il paese si sono intensificati gli spostamenti dei migranti.
La città di Sfax resta ancora oggi il principale punto di partenza via mare, nonostante i disordini, le manifestazioni contro le comunità straniere e i trasferimenti che si sono verificati negli ultimi due mesi?
Il 50% del totale delle partenze verso l’Italia continua ad essere da Sfax. Un altro 30% avviene da Mahdia, un po’ più a nord, il restante 20% è rappresentato dalle altre città costiere, come Kilibia a Nord, o Zarzis, a sud. Un recente naufragio si è verificato a Gabes, che non è fra le città di partenza più usuali. In generale la costa di Sfax presenta molte aree praticamente incontrollabili, e poi c’è una grandissima concentrazione di barche, quindi è più facile passare inosservati, nonostante i controlli si siano intensificati enormemente. E poi a Sfax è più facile trovare lavoro e mettere insieme i soldi che occorrono per partire perché è la capitale industriale del paese. In città c’è anche un business importante con l’affitto delle case ai migranti, e possiamo dire che la presenza di numerose comunità straniere abbia già cambiato il tessuto sociale della zona.
Anche i nomi delle strade sono cambiati: se prima si indicavano con località tunisine, ora sentiamo dire via Camerun, via Burkina Faso, via Guinea, e così via. Ci sono stati casi in cui alcuni gruppi hanno creato zone off limits nelle periferie, con proprie “istituzioni”, come tribunali indipendenti, ma anche propri circuiti “bancari” per gestire parallelamente i flussi di denaro diretti al finanziamento delle partenze. Quello che ha fatto esplodere la situazione con la comunità locale è stato l’assassinio di un uomo coinvolto in una rissa fra gruppi di tunisini e di migranti, avvenuto il 2 luglio scorso. Dopo le manifestazioni e gli episodi di guerriglia che ne sono seguiti, molti cittadini stranieri hanno lasciato Sfax, alcuni sono stati anche cacciati, ma altri sono rimasti e altri ancora sono arrivati dopo.
La Tunisia è stata accusata di razzismo per quanto accaduto a Sfax e per quello che è successo dopo, con i casi di deportazione sommaria ai confini. Cosa ne pensa?
Il paese sta affrontando una crisi economica e sociale senza precedenti, e di questo bisogna tenere conto. La popolazione non è razzista perché i migranti subsahariani sono “neri”, ma certo rifiuta la loro presenza in queste condizioni di totale abbandono. Quando nel Governo è stato proposto di fare della Tunisia una terra di accoglienza a lungo termine, la società civile ha fatto pressione, e il presidente Said ha dovuto fare marcia indietro dichiarando che il paese non può diventare un hub permanente. Non dimentichiamo però che spesso è proprio la gente comune a rappresentare l’unico supporto per i migranti, perché qui le organizzazioni internazionali fanno ben poco, ad eccezione della Mezzaluna Rossa, seppure con evidenti limiti economici. Qui un piano d’accoglienza non esiste, sarebbe da costruire da zero. Ma non dimentichiamo che oggi nessuno dei migranti subsahariani ha come obiettivo quello di stabilirsi in Tunisia.
Cosa ne pensa del memorandum siglato con l’Unione Europea?
L’accordo con l’Ue è ancora una bozza, ha un lungo iter da affrontare. Il problema è che ci deve essere un piano di sviluppo che coinvolga tutti i paesi del Nord Africa, della fascia subsahariana e tutta l’Europa. Ma vedo che la stessa Ue non sempre ha una visione univoca della questione migrazioni, e soprattutto lavora secondo due pesi e due misure. Pensiamo ai finanziamenti elargiti alla Turchia: non sono nemmeno paragonabili a quelli che dovrebbero arrivare in Tunisia.
Le migrazioni fanno parte della storia, ci sono sempre state, e ogni volta che si è provato a fermare una rotta se ne sono aperte altre. Pensiamo ai tunisini che partivano dalla Serbia quando l’Italia annunciava la chiusura dei porti. Se non si risolvono i problemi che affliggono i paesi di provenienza, chi vuole partire troverà sempre il modo di farlo. Non dimentichiamo che negli anni Novanta non c’erano i visti, poi quando l’Est si è aperto all’Ovest le cose sono cambiate.
Negli ultimi anni la rotta balcanica è diventata un’alternativa al mare anche per i tunisini in grado di potersi permettere un viaggio in aereo dal loro paese alla Turchia, per poi dirigersi verso Belgrado e da lì tentare di entrare in uno stato Schengen, come l’Ungheria. Una scelta forse meno rischiosa ma ancora più dispendiosa della traversata del Mediterraneo. Ma quali sono i rischi oggi per le persone che si mettono in viaggio?
Il viaggio dei migranti è diventato un business, dove c’è chi lavora nei paesi di partenza, in quelli di transito e di arrivo. Ci sono organizzazioni vere e proprie, che si finanziano attraverso canali differenti, anche con il traffico di droga, di organi, e che spesso hanno a che fare con le reti del terrorismo. I governi dei paesi di partenza sono quasi tutti corrotti, nell’indifferenza di quelli europei che ci fanno affari, altrimenti in Africa non avremmo stati così ricchi con le popolazioni più povere del mondo. I migranti in transito incappano in ogni tappa in queste reti criminali, dove tutti cercano di guadagnare il più possibile, in spregio alla vita umana.
La Tunisia sta investendo nei controlli lungo la costa, ma le partenze avvengono comunque. Cosa non sta funzionando?
Negli ultimi dieci anni la Tunisia ha investito molto nella sicurezza, ma il mare non lo puoi chiudere una volta per tutte e pensare di aver risolto il problema. Gli arresti non bastano ad affrontare la questione nella sua complessità, e soprattutto la Tunisia non può farlo da sola, quando è circondata da situazioni di grave instabilità che vanno oltre i confini nazionali.