“In Ucraina è diventato impossibile prenotare un bus per lasciare il paese, anche se ogni giorno da qui ne partono a centinaia; i biglietti non si possono più acquistare in anticipo, via internet, come si faceva fino al 23 febbraio.”
Irina cerca in rete fra le compagnie di viaggio un modo di riservare un posto per raggiungere l’altra parte del confine: una sua amica deve partire, e così chiede aiuto per lei con un messaggio a uno dei tanti gruppi di volontari che nelle ultime settimane sono nati su Telegram, Whatsapp, Facebook per coordinare gli aiuti, e spesso il trasporto delle persone in fuga. “Domani potrei averne bisogno anche io – spiega – meglio avere le informazioni per tempo.”
Da Lviv, oltre ai treni che collegano le principali città dell’Ucraina e della Polonia, prima della guerra si potevano prendere pullman e minivan economici diretti nella maggior parte dei paesi europei. Viaggi interminabili che però filavano lisci, ed erano la soluzione ideale per chi portava con sé bagagli pesanti. Oggi i mezzi si sono moltiplicati, ma anche le persone che si mettono in viaggio hanno raggiunto numeri altissimi: dall’inizio della guerra sono già tre milioni 556 mila i rifugiati che hanno lasciato l’Ucraina (dati Unhcr aggiornati al 21 marzo).
Intanto Irina ha trovato il modo di avere il biglietto: la soluzione è acquistarlo dalla compagnia di viaggio polacca, e pagarlo con carta di credito al prezzo di 100 dollari, un’enormità rispetto alle normali tariffe per una tratta di 150 km, in un paese dove uno stipendio medio si attesta attorno ai 200, 250 euro. Certo, c’è sempre l’opzione dei treni e pullman messi a disposizione gratuitamente, ma il rischio è di restare bloccati in attesa anche per giorni, prima di riuscire a prenderne uno.
Nei pressi della stazione ferroviaria, ogni parcheggio, strada, spiazzo anche sterrato è diventato un nuovo punto di sosta per i mezzi diretti fuori dal paese, come pure verso le città sotto assedio.
Il pullman con i posti prenotati è diretto a Praga: la partenza è prevista per le tre del pomeriggio, ma è talmente pieno che un’ora prima si chiudono le porte, mentre l’assistente di viaggio controlla la lista dei passeggeri scritta a mano su un foglio di carta. L’autista parte, e si immette nel traffico di Lviv, che pian piano si lascia alle spalle. Settanta chilometri separano i passeggeri, profughi di mezza Ucraina, dall’uscita dal loro paese, senza sapere quando potranno farvi ritorno.
Una ragazza col cappello di lana e una tuta sportiva siede con un trasportino di plastica in grembo. Non c’è spazio per lasciarlo a terra, fra le due file di sedili, almeno finché tutti non prenderanno posto, e riusciranno a sistemare alla meglio le buste con i viveri che hanno portato con sé per il viaggio. Se non ci saranno ritardi, pressoché certi al passaggio di frontiera, l’arrivo a Praga è previsto per 26 ore dopo. Rzeszów è la prima fermata, da lì si prosegue per Cracovia, poi Katowice, Ostrava, Brno.
La signora che occupa il posto dietro di lei le fa cenno di lasciare quel “bagaglio” nel corridoio, non importa quanto sia stretto, chi ha bisogno di alzarsi lo scavalcherà. La ragazza allora fa uscire il suo gatto, lo prende in braccio, lo avvolge in un maglione e ripone il contenitore vicino ai piedi. L’animale non emette un suono e resta accucciato sulle sue ginocchia, mentre lei prova a fargli bere qualche goccia d’acqua. Gli manca un occhio e con l’altro si guarda intorno. Arrivano da Kharkiv, lei, il gatto, suo figlio e suo padre anziano, che le siede di fianco, vicino al finestrino.
Poco più avanti siedono una mamma con la figlia adolescente che viaggia semisdraiata: ha le gambe ustionate, e non riesce a tenere i jeans addosso troppo a lungo. Così è costretta a toglierli, almeno fino alla frontiera, quando dovrà scendere dal mezzo per il controllo del passaporto.
In un’ora si arriva al confine, e tutti se ne accorgono perché si comincia a rallentare, fino a fermarsi, mentre il pullman viene assorbito in una delle lunghissime colonne di mezzi che aspettano di transitare da un paese all’altro.
Ai lati della strada ci sono alcuni operai che stanno costruendo delle strutture in legno dove probabilmente verranno realizzati altri spazi per la prima accoglienza. Nel frattempo decine di persone a piedi superano i mezzi in coda, chi con i bambini per mano, chi trascinando i bagagli. “Normalmente fino a Rzeszów ci vogliono due ore scarse – spiega l’assistente di bordo che nel frattempo è scesa per cercare qualcosa da mangiare ed è appena tornata con due bicchieri di carta pieni di cereali al cioccolato – con la guerra i tempi sono diventati incalcolabili, dipendono da quanta gente arriva nello stesso momento, con tutti i passaporti da controllare uno ad uno.”
Passano le ore e non si avanza di un metro. Il sole tramonta e si accendono le luci dei piccoli chioschi ai lati della strada. I gazebo di legno sono stati completati, mancano solo i teloni ma ormai il buio non consente di andare avanti con i lavori. La gente a piedi continua ad arrivare, lasciata qualche chilometro più indietro dai “driver” che si fermano prima della frontiera. Qualcuno scende dai bus, per sgranchirsi le gambe e respirare una boccata d’aria perché lo spazio nel pullman col passare delle ore si è fatto sempre più stretto. Una dottoressa della Croce Rossa polacca è salita a bordo per visitare la ragazzina con le ustioni, le ha portato delle bende che le proteggeranno la pelle dal contatto con la tela rigida quando dovrà rivestirsi.
Mancano pochi metri alla frontiera: passano altre tre ore, e ormai si sono fatte le dieci di sera. Quasi tutti avrebbero bisogno di mangiare, e di usare i servizi igienici. Nessuno parla, la ragazza del gatto si addormenta, la signora Nataliya, partita due giorni prima da Kyiv, prova a leggere un libro, l’unico che ha portato con sé nella fuga. A mezzanotte finalmente la polizia di frontiera sale a bordo: due giovani donne in mimetica si fanno largo nel corridoio e raccolgono ad uno ad uno tutti i passaporti; dicono di aspettare a bordo.
Il pullman avanza a passo d’uomo fino a raggiungere la pensilina degli uffici doganali ucraini. Molte persone decidono di scendere, anche se non è necessario per i controlli. All’interno degli uffici c’è una fila di decine e decine di donne, bambini e anziani in attesa, che oltrepassano un ingresso vuoto e poi si ritrovano ammassati in questo spazio poco illuminato, con due fioche luci al neon sulle pareti, ma che è stato comunque riadattato per fornire un minimo di accoglienza. Sulla destra ci sono dei banchetti con alcuni volontari che distribuiscono il borsh, mentre altri si avvicinano per offrire pacchi di patatine e barrette di cioccolato. La polizia di frontiera torna a bordo e consegna i documenti all’assistente della compagnia dei pullman, che chiama per nome tutti i passeggeri. Ne mancano tre, sono in fila per il bagno, ma arrivano poco dopo.
Si riparte, le tre colonne di mezzi si devono ridurre necessariamente a una, e questo collo di bottiglia segna l’ingresso in Europa, in Polonia, dal valico di Korczowa. Nel frattempo è passata quasi un’altra ora. Questa volta i passeggeri sono invitati a scendere, e a mostrare i documenti direttamente agli ufficiali che restano seduti nei box delle loro postazioni. Si creano due lunghe file di persone, ad ognuno viene chiesto il cognome e dopo il controllo si passa in una sala d’attesa dove è stato allestito un tavolo con panini, banane e te caldo.
L’uscita è dall’altra parte, e il pullman, con tutti gli altri mezzi che lo precedono e lo seguono, è parcheggiato a pochi metri. La gente riprende posto. Sono passate quasi dodici ore e sono stati percorsi ottanta chilometri scarsi. Si riparte, finalmente in Polonia, e il traffico svanisce in pochi minuti. L’insegna del motel del confine, è l’ultima luce che si vede dai finestrini, poi torna il buio. In un sospiro di sollievo collettivo, tutti i passeggeri sembrano essersi assopiti, la frontiera è stata attraversata, ora manca tutto il resto del viaggio, altre quindici ore per chi deve raggiungere Praga, meno per chi si ferma in Polonia, o continua il viaggio con altri mezzi.
Rzeszów è la fermata successiva, il pullman parcheggia nel piazzale deserto del terminal. A pochi passi c’è la stazione ferroviaria, che invece è ancora aperta con i volontari al lavoro alle due e mezza della notte.
Fra loro c’è Alex, che è arrivato dal Montenegro con una delegazione Caritas, e si fermerà qui per otto giorni.
“Quando ho sentito cosa stava accedendo in Ucraina mi sono immedesimato nella sorte di queste persone – racconta – perché anche il mio paese ha un passato recente difficile, con la guerra nei Balcani, il riconoscimento dell’indipendenza dalla Serbia, i territori contesi, la sofferenza. Ogni settimana arriva un gruppo di volontari, dormiamo in un ospedale a Przemysl perché non si trovano posti letto altrove. Ci sono donne e bambini che trascorrono la notte qui in stazione, ma fino alle cinque per oggi non dovrebbe arrivare più nessuno: avremo tempo di preparare dell’altro tè e mettere a posto gli ultimi pacchi di viveri.”
In copertina: foto di Ilaria Romano