Per i primi nove mesi Mohammad ha preso un appartamento in affitto, lontano dalla casa di proprietà. Un’ora e mezza dal lavoro, dall’hotel a quattro stelle nel cuore di Aleppo, dove curava la manutenzione. Almeno la famiglia sarebbe stata al sicuro, pensava. Ma quando il conflitto è diventato armato ha capito che non bastava cambiare zona. Gli spostamenti erano sempre più difficili e i combattimenti avevano ormai coinvolto anche la popolazione civile. Fino a quando un bombardamento chimico lo ha spinto alla decisione finale: lasciare la Siria era ormai inevitabile.
Ha chiesto le ferie non retribuite ed è scappato al confine con il Libano. “Mia sorella che abitava a Beirut mi ha detto che ci avrebbe ospitato per un periodo. Ho pensato che sarebbe stata una questione di mesi, al massimo un anno” racconta, “ma dal 2013 siamo qui, senza la possibilità di tornare a casa”.
52 anni, 3 figli e una moglie, Wafa, sempre al suo fianco, Mohammad ha lo sguardo commosso nel rimettere insieme i ricordi di quella che fino a pochi anni fa era una vita tranquilla. Il lavoro sicuro, la passione per il cinema, i tre figli che andavano regolarmente a scuola. Poi tutto è iniziato a scivolare verso il basso. “Sono venuto qui per raggiungere mia sorella. La situazione in Siria era degenerata, diventando troppo pericolosa. Ho pensato: staremo qui il tempo necessario perché le cose tornino a posto. Abbiamo scelto il Libano per questo, mai avrei pensato che sarebbe stata una storia così lunga, che portava con sè tanta devastazione”.
Una famiglia di classe media la sua, con il suo stipendio di 700 dollari al mese potevano fare una vita più che dignitosa. Ora vivono nella periferia al sud di Beirut, Mohammad fa qualche lavoretto, Wafa da sempre casalinga, si arrangia con piccole commissioni di sartoria. Anche i tre figli, di 21, 19 e 17 anni provano ad arrotondare. Ma al massimo si portano a casa 50/100 dollari al mese. “La vita è diventata a mano a mano sempre più difficile, senza speranza – dice il capofamiglia – ho capito che per dare un futuro ai miei figli deve rinunciare al sogno di tornare a casa mia”.
Il 4 giugno Mohammad, Wafa, Ibrahim, Osama e Ahmed, arriveranno in Italia, con un corridoio umanitario in partenza dal Libano, insieme ad altre 53 persone. Mentre parliamo, all’interno del cimitero ebraico, al centro di Beirut, non nascondono l’emozione per questo viaggio che, dopo anni, li mette davanti a un nuovo inizio: “Vogliamo solo che i nostri figli possano studiare. Il resto non ci spaventa”.
Per farsi un’idea hanno cercato su Google le immagini dell’Italia, Ibrahim il più piccolo dei figli, con la passione per la pasticceria, ha anche iniziato a studiare italiano con un’app. “Vogliamo solo un paese in cui trovare la stabilità e finalmente tranquillità” ripetono. Quella tranquillità che nel loro paese ancora manca. Le quattro sorelle di Mohammad e il padre di Wafa sono ancora in Siria. “Li sentiamo di rado, ma sappiamo che la loro situazione è tragica, stanno cercando di scappare al confine con la Turchia, ma per ora non riescono a passare oltre”.
In Libano, uno Stato grande poco più di una regione italiana come le Marche, si stimano circa un milione e mezzo di profughi siriani, su una popolazione totale di 4,5 milioni di persone. La percentuale più alta al mondo rispetto al numero degli abitanti. Non è un caso che da qui sia partito il progetto dei corridoi umanitari di Sant’Egidio, Federazione delle chiese evangeliche in Italia (Fcei) e Tavola Valdese. L’idea, mutuata sul modello canadese delle sponsorship private, è quella di favorire una via legale di ingresso per i rifugiati nei paesi dove possano essere accolti e integrati. Finora sono 1475 le persone arrivate in Italia con il progetto, regolato da due protocolli di Intesa con il ministero degli Affari esteri e della cooperazione internazionale e con il ministero dell’Interno. Il primo Protocollo è stato firmato il 15 dicembre 2015, prevede il rilascio di visti umanitari con validità territoriale limitata. Le organizzazioni promotrici si fanno poi carico dell’accoglienza nel paese di destinazione.
“Siamo venuti in contatto con questa famiglia tramite un’associazione che si occupa di sostegno ai migranti, il Migrant community center, che si trova ad Achrafie, in centro a Beirut – spiega Simone Scotta coordinatore di Mediterranean Hope, l’organizzazione della Fcei che gestisce i corridoi umanitari dal Libano all’Italia. Ci sono stati segnalati perché Mohammad ha un problema sanitario, alla schiena. Li abbiamo inizialmente seguiti per la parte medica, poi, a mano a mano, è stata avanzata la proposta di andare in Italia”. Scotta spiega che le segnalazioni arrivano di continuo, dalle tantissime organizzazioni e Ong, che lavorano al fianco dei rifugiati nel paese, dall’Unhcr a Medici senza frontiere, a Terres des hommes: “Di solito le organizzazioni umanitarie ci indicano le famiglie che seguono e che hanno una possibilità di relocation. Noi dopo il primo contatto iniziamo le interviste, di media ne facciamo tre o quattro. Cerchiamo di focalizzarci sulla storia del nucleo per capire se ci sono i criteri per una preselezione, se ci sono i mezzi per portare a termine l’inclusione nel paese ospitante e per diventare pian piano autosufficienti dopo l’accompagnamento iniziale dell’accoglienza. Incontriamo persone che vengono da diverse zone del paese, che è abbastanza piccolo: – aggiunge – dal sud di Beirut fino alla Bekka, la zona a est, la più povera del Paese dove vive il 30 per cento dei rifugiati siriani. L’altro bacino importante è la parte nord, Akkar, la zona di confine dove si sono stabilite inizialmente tantissime persone”.
Nel campo degli italiani
Non tutti vogliono partire, c’è chi ancora spera di tornare in Siria, c’è chi, a fatica, dopo anni sta abbandonando questa speranza. Altri dopo anni nel limbo dei campi profughi al confine o in attesa di un’opportunità nel paese, stanno ormai decidendo di tentare altre vie. Chi, infine, indietro non può tornare perché considerato oppositore al regime.
Nel campo di Tel Abbas, a tre chilometri dal confine della Siria, il progetto dei corridoi, passaggio sicuro verso l’Italia, ha preso corpo, la prima volta, nel 2015. Qui, in due campi adiacenti, vivono circa 600 persone, molti sono qui da almeno sei anni. In molti lo conoscono come “il campo degli italiani”, anche l’autista del van che ci accompagna da Tripoli. Qui dal 2014 c’è la presenza fissa dei volontari di Operazione Colomba, i corpi civili di pace dell’Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII. Ragazzi, spesso molto giovani, che decidono di passare dai 3 ai 9 mesi nel campo, vivendo insieme alle famiglie dei profughi siriani. “Qui sono tutti rifugiati, ma in realtà, non possono permettersi neanche di essere chiamati così – ci spiega Caterina Ferrua, una dei volontari.
In Libano non esiste lo status di rifugiato come in Europa, chi non ha un permesso regolare per risiedere nel paese è automaticamente un ‘clandestino’. La maggior parte delle persone nel campo sono irregolari sul territorio libanese da anni, perché avere un permesso di residenza è difficile e di solito ci vogliono molti soldi”. La linea del confine è molto vicina, muovendo le mani sulla cartina, appesa a una delle pareti della tenda dei volontari, Caterina ci mostra come la maggior parte delle persone si sia mossa da Homs e Hama, verso la linea viola che traccia la frontiera. Alcuni sono invece scappati da Idlib, dalle zone in questi giorni di nuovo sotto i bombardamenti.
“Nelle ultime settimane ci sono persone che continuano ad arrivare – aggiunge Caterina. Chi si è fermato qui pensava che fosse uno stallo temporaneo, oggi sanno che tornare a casa è quasi impossibile. In molti pensano al viaggio via mare. E sempre più spesso vengono a chiederci della possibilità dei corridoi”.
Mentre consumiamo insieme la cena dell’iftar, al tramonto, i volontari ci spiegano che oltre all’aiuto concreto per risolvere i problemi quotidiani, da quelli sanitari a quelli legali, il loro ruolo è anche quello di segnalare le persone che hanno la possibilità di poter arrivare in Europa attraverso la via legale. “Quello che facciamo noi è conoscere in maniera più approfondita le famiglie, capire che storia hanno e che possibilità di integrazione potrebbero avere in italia. In caso positivo facciamo la segnalazione alle organizzazioni promotrici dei corridoi, che faranno l’intervista. Poi deve seguire il nulla osta delle autorità libanesi e di quelle italiane”. Luca, che di mestiere fa il fisioterapista, è arrivato da poche settimane: “il bello è condividere la vita con queste persone, anche se non possiamo capirli fino in fondo perché il nostro passaporto è forte. E la carta, il passaporto, qui sembra valere più delle persone. Se il nostro status privilegiato riusciamo a metterlo a servizio almeno per degli accompagnamenti, tanto di guadagnato”.
La guerra in diretta
“Guarda, questo è di ieri, guarda, guarda”. Shaifaq mi porge il telefono aperto su una delle tante chat WatsApp dove in questi giorni arrivano di continuo le immagini dei bombardamenti su Idlib. “Qui c’era casa mia, ora ci sono i nostri cari rimasti lì e che non riescono a scappare” ripete, mentre versa il the che consumiamo seduti sui tappeti della loro nuova casa. Un garage a pochi metri dal campo di Tel Abbas. Dopo anni Shaifaq, 39 anni, e suo marito Ahemd, 49, sono riusciti a sostituire le tende con queste quattro mura, grazie a un piccolo commercio di abiti e scarpe usate, che gli permette di pagare un affitto. “Siamo in Libano dal 2013 – spiegano. I nostri figli sono nati tutti in Siria, quando siamo arrivati qui il più piccolo aveva un mese e mezzo. Per un anno e mezzo abbiamo vagato spostandoci da una zona all’altra. Avevamo la terra, le pecore, ma a un certo punto era diventato impossibile restare. Aisha, la bambina, è stata ferita da una scheggia durante un bombardamento a Ras Al Ayn. Abbiamo deciso allora di andare via, siamo entrati in Libano facilmente. Ma oggi siamo irregolari, non abbiamo i documenti, viviamo con la paura di essere scoperti o rimandati indietro”.
Il 28 marzo scorso la sorella di Shaifaq è arrivata in Italia con un corridoio umanitario e ora vive a Trento. “Spero anch’io di poter partire presto, andare via di qui, ovunque purché lontano – aggiunge. A casa nostra non è rimasto più niente. Da giorni ricevo immagini strazianti, che non riesco più nemmeno a guardare. Tutto è andato in fumo. Ora l’unica cosa che vorrei è il viaggio, per me ma soprattutto per i miei bambini”.
Un corridoio europeo per i migranti in Libia
Nati come una sperimentazione dall’idea delle chiese cattoliche e protestanti oggi i corridoi umanitari rappresentano una delle poche possibilità di arrivo legale in Europa. Oltre a quello dal Libano, attraverso un accordo tra Conferenza Episcopale Italiana e Comunità di Sant’Egidio, è stato aperto un altro corridoio umanitario dall’Etiopia per 498 rifugiati africani.
Da qualche anno il progetto si è esteso anche ad altri paesi europei, in particolare Francia, Belgio e Andorra. Le persone finora arrivate nel vecchio continente sono in totale 2.438. A fine aprile i presidenti della Comunità di Sant’Egidio, Marco Impagliazzo, e della Federazione delle chiese evangeliche in Italia, Luca Maria Negro, hanno scritto al Presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, per avanzare la proposta di un “corridoio umanitario europeo” e dichiarandosi pronti a collaborare in virtù dell’esperienza di questi anni. Il meccanismo proposto è analogo a quello adottato attualmente per i “corridoi umanitari”, che prevede rilascio di “visti umanitari” ai sensi dell’art. 25 del Trattato sui visti di Schengen.
“La nostra proposta nasce da questa esperienza realizzata sul campo – spiegano Negro e Impagliazzo – e ha come obiettivo l’arrivo in Europa di 50.000 profughi in due anni ripartiti tra i paesi che intendano dare concreta attuazione ai loro impegni internazionali in materia di asilo e di diritti umani. L’Italia dovrebbe fare da capofila di questo programma, aprendo un altro corridoio dalla Libia, per almeno 2.500 persone all’anno. Per parte nostra – aggiungono i due leader religiosi – abbiamo già avviato dei rapporti con Terres des Hommes e altre Ong che operano in Libia per dare concreta attuazione a questo progetto che parte dall’Italia ma che si rivolge ai paesi e alle istituzioni europee.
Di fronte alle notizie che arrivano dalla Libia, con migliaia di profughi esposti non solo a ricatti, violenze e torture, ma anche alla violenza degli scontri militari, non possiamo rimanere fermi a guardare. Forti degli incoraggiamenti ricevuti da papa Francesco, ultimo dei quali domenica scorsa, da varie chiese sorelle in Europa e dal Consiglio Ecumenico delle Chiese rinnoviamo quindi la nostra disponibilità ad operare da subito per tutelare la vita, l’incolumità e i diritti umani di migliaia di profughi ostaggio di violenze ogni giorno più diffuse e brutali”.
*Nell’articolo alcuni nomi sono stati modificati per tutelare l’incolumità delle persone intervistate
Immagine di copertina: il campo di Tel Abbas, a tre chilometri dal confine con la Siria. All’interno vivono circa 500 persone. (Foto di Federica Mameli, come tutte quelle presenti nell’articolo)