Ventimiglia, “la porta occidentale d’Italia”, rappresenta per molti migranti in transito l’ennesimo stallo a tempo indeterminato di un viaggio che spesso va già avanti da anni. Eppure potrebbe esserne l’ultimo miglio, dal quale si intravede il traguardo. Ma nessuno sa quanto dovrà attendere, in questa città che dista solo sette km del confine francese, per andare dall’altra parte, né quante volte dovrà tentare di attraversare il valico, e come, se a piedi, in treno, nascosto nell’auto di un passeur.
Il campo Roja
Fino al 31 luglio scorso esisteva un centro di accoglienza gestito dalla Croce Rossa, il campo Roja, sorto quattro anni prima, nell’estate del 2016, per limitare gli accampamenti spontanei lungo l’omonimo fiume, sull’altra sponda, intorno alla parrocchia di Sant’Antonio di via Tenda, già luogo di ospitalità ma ormai inadeguato per gestire un numero di persone sempre in aumento.
Invisibile al resto della città, la struttura sorgeva nella frazione di Bevera, in una delle più grandi aree dismesse della zona, di proprietà in parte comunale e in parte delle Ferrovie dello Stato, l’ex stazione di smistamento internazionale che prima degli accordi di Shengen serviva a convogliare i treni merci tra Italia e Francia. All’inizio era composta da trenta moduli da sei posti ognuno, oltre ad una mensa e ai bagni, poi col tempo diventati più di settanta, e l’accesso era regolamentato tramite un badge magnetico consegnato ad ogni ospite per monitorarne ingressi e uscite. Dal 6 maggio 2020, Comune e Prefettura avevano chiuso il campo a nuovi arrivi per evitare possibili contagi da Covid, e negli ultimi tempi vi risiedevano in non più di una trentina. Due mesi dopo è arrivata la chiusura definitiva, e da allora il numero di persone che vive per strada, non di rado anche minori, ha ricominciato a crescere. Ma tra i comuni della zona, nessuno finora si è reso disponibile alla realizzazione di un nuovo campo sul proprio territorio: l’amministrazione di Ventimiglia afferma di non poter gestire da sola il carico, e gli altri comuni interpellati, Vallecrosia, Bordighera e Camporosso, sostengono di essere troppo lontani dalla frontiera per rappresentare il sito di destinazione di un centro di transito per coloro che non vogliono restare in Liguria, ma sperano di passare il confine.
Gli invisibili dello scalo ferroviario
Nel frattempo l’accoglienza è da mesi demandata a Caritas e alle altre associazioni volontarie nate in maniera spontanea e con la collaborazione di giovani provenienti da tutta Europa. Quella che era la zona dell’ex campo resta non solo fatiscente e in attesa di una riconversione, prevista per il 2022 e già finanziata dal Fondo strategico della Regione Liguria con oltre sei milioni e mezzo di euro, ma è tornata a essere un punto di riferimento per chi la notte cerca un riparo, specialmente dopo l’esondazione del fiume Roja del 2 ottobre.
I cancelli sono chiusi, ma basta scavalcare la recinzione o costeggiare il retro degli edifici in fondo ai binari per trovare tracce di accampamenti di fortuna: pareti annerite da piccoli fuochi accesi per scaldarsi o per cucinare qualcosa, indumenti, materassi e coperte sul pavimento, fra spazzatura, resti di cibo, vetri rotti e porte divelte, fra gli uffici Fs dove ancora oggi si possono trovare documenti e mappe di treni e rotte.
Pian piano, dalle decine di stanze fatiscenti compaiono anche questi “invisibili”. Un gruppo di ragazzi afghani si affaccia e raggiunge la banchina: sono arrivati qui tre giorni prima, e spiegano che in 72 ore hanno già tentato di attraversare il confine e sono stati respinti, collezionando il primo “refus d’entrée” di una potenziale serie che solo la fortuna di sfuggire ai controlli potrebbe interrompere. Fra loro c’è anche un bambino, che continua a dichiarare di avere 15 anni ma di essere affetto da una malattia della crescita. È il fratello minore di un altro di questi giovani, e non vuole rischiare di essere separato da lui. Qui non hanno acqua né corrente elettrica, sono in viaggio da almeno un quarto della loro intera vita ma assicurano che in Croazia sono stati molto peggio che a Ventimiglia.
“Gli spazi sono stati divisi per provenienza geografica – spiega Rahmani, mediatore culturale afghano del Kunar, in Italia da sei anni e volontario Caritas – qui ad esempio ci sono afghani e iracheni, nell’altro palazzo i sudanesi. Ogni sera si spostano a piedi da Ventimiglia e risalgono la strada lungo il fiume, per venire ad accamparsi qui, dato che l’alternativa è dormire in spiaggia.”
La spiaggia
Anche il lungomare, che da qui dista oltre un’ora di cammino, se ci si muove a piedi, è per la maggior parte dei migranti il luogo dove trascorrere la giornata, e per alcuni anche la notte, come si può capire dai giacigli che affollano i chioschi dei lidi in attesa della riapertura estiva.
Un giovane sudanese, seduto sui ciottoli con altri ragazzi, racconta di essere partito dal suo paese nel 2006 e di avere chiesto asilo in Kenya, perché come ex membro di un gruppo paramilitare non poteva più restare in patria. Oggi ha 39 anni, ed è partito quando ne aveva 23. “Sono rimasto in un campo profughi gestito dall’Unhcr per dieci anni, e nel 2017 sono arrivato in Italia, dopo un anno di viaggio – dice – qui mi hanno preso le impronte e da allora non sono più riuscito ad attraversare nessuna frontiera. Ho provato ad andare in Svizzera, dove mi hanno dato l’allontanamento per il Sudan, in Francia, in Belgio, in Olanda, ma sono sempre stato respinto perché già identificato in Italia.”
Anche Moussa, somalo, aspetta da 14 anni la fine dell’attesa. Porta con sé una piccola borsa di cuoio a tracolla, con tutti i documenti collezionati finora. Ha una carta d’identità italiana e un codice fiscale scaduto. Ha lavorato nelle campagne del foggiano, nelle estati della raccolta del pomodoro, poi ha vissuto a Torino. Oggi dorme sulle panchine di Ventimiglia e la mattina passa dalla sede Caritas che si trova vicino alla stazione a prendere una tazza di cioccolata calda, una brioche e qualcosa per il pranzo. Come lui tanti altri si mettono in fila. C’è anche un gruppo di ragazzi sudanesi appena scesi dal treno: sono partiti da Roma la sera prima, e sul binario a Ventimiglia hanno conosciuto un coetaneo egiziano che li ha indirizzati qui, dai volontari. Sono in Italia da circa un mese, prima di Roma erano a Palermo, prima di Palermo erano sbarcati a Lampedusa, dopo tre, quattro giorni di mare. Prima ancora c’è stata la Libia, ma nessuno ha voglia di parlarne. Nel futuro c’è la Francia, o almeno la speranza di arrivarci.
Il valico della frontiera
Ci sono vari modi per superare il confine: c’è chi prova a piedi, dal valico basso di San Ludovico, camminando lungo la ferrovia. Chi invece tenta di passare dalla montagna, e si inerpica sulle pareti rocciose. Chi si affida ai cosiddetti passeurs, che offrono, sotto lauta ricompensa, un passaggio in auto dall’esito tutt’altro che scontato. Il modo più “facile” è senza dubbio il treno: si sale sui convogli diretti a Nizza, sperando di sfuggire ai controlli. “Dall’inizio di Aprile abbiamo registrato un calo nel numero di respingimenti rispetto ai primi mesi del 2021”, raccontano i referenti di Progetto20K, una rete di solidarietà che opera da anni sul territorio. “Attualmente – dicono – si aggirano fra 30 e 50 le persone respinte giornalmente dalla Polizia di frontiera”. Una diminuzione di numeri che, secondo il collettivo, è ascrivibile alla militarizzazione della stazione di Ventimiglia, “dove squadre miste formate da Polizia di Stato, Carabinieri, Vigili, Polizia Francese e militari dell’Esercito, controllano tutte le persone non bianche, attraverso pratiche di profilazione razziale, impedendo di fatto anche solo di provare ad attraversare il confine in treno”.
Il presidio solidale
L’ultimo centro abitato ligure prima del confine è la frazione di Grimaldi; una serie di tornanti che si affacciano sul mare portano al Ponte San Luigi, il valico alto di frontiera. Una manciata di metri separano il presidio della Polizia italiana da quello francese, ed è qui, su questo tratto di strada, che ogni giorno si assiste alla triste processione dei respinti. Uomini, donne, spesso anche con bambini, che hanno provato a raggiungere Mentone, ma sono stati fermati. Vengono trattenuti il tempo dell’identificazione (che nel caso della polizia francese può durare anche intere nottate), ci si accerta che le loro impronte digitali siano già state registrate, e poi si rispediscono indietro.
Sulla strada del ritorno, a poco più di un chilometro dalla dogana, c’è il presidio di Kesha Nya Kitchen, un banchetto solidale mandato avanti da un gruppo di volontari di mezza Europa. Un tavolino imbandito con caffè caldo, pane, biscotti, frutta, mezz’ora di corrente elettrica e un cavo per ricaricare il cellulare. Con il sole, la pioggia, al freddo e al caldo, i volontari sono lì, tutti i giorni, dalle nove del mattino alle sei del pomeriggio. “Chi passa da qui e arriva da noi è appena stato respinto, è importante che sappia di non essere solo”, racconta una giovane tedesca, al suo decimo giorno “sul campo”. Gli attivisti di Kesha Nya Kitchen arrivano dalla Francia, dall’Olanda, dalla Germania, dal Belgio. Organizzano delle vere e proprie staffette per essere sempre presenti e garantire uno sprazzo di umanità e un luogo dove potersi sedere, rifocillarsi e sentirsi al sicuro, anche solo per poco. I volontari lasciano traccia del lavoro fatto attraverso un diario: “Raccogliamo le storie di chi è passato di qua – racconta la giovane – segnaliamo eventuali abusi compiuti durante il trattenimento da parte della Polizia francese, cerchiamo di monitorare quante persone riescono nell’impresa”.
La domenica
“La domenica è facile trovare donne con bambini, anche molto piccoli – racconta un poliziotto di frontiera, che non nasconde l’amarezza dell’assistere, passivamente, a questo andirivieni – noi non possiamo far altro che dargli qualcosa da mangiare, perché se non hanno precedenti penali non siamo autorizzati a prenderli in carico”. La rotta più battuta è sempre quella Mediterranea, i migranti arrivano dai paesi dell’Africa Subsahariana o del Maghreb, soprattutto Sudan, Eritrea, Mali e Mauritania. Ma ci sono anche quelli che hanno affrontato la rotta balcanica a piedi, e che si sono messi in viaggio dall’Afghanistan, dall’Iraq o dalla Siria.
“Nel weekend viene meno anche l’identificazione, perché gli uffici sono chiusi, e loro questo lo sanno”, aggiunge il poliziotto. Ma nei giorni festivi l’autobus che dalla frazione Grimaldi va a Ventimiglia non effettua corse. E così, in una domenica qualunque, alle otto del mattino, dal ponte San Luigi spunta una giovane mamma eritrea che trascina una vecchia valigia malconcia. Al suo fianco due bimbi camminano ordinati sul ciglio della strada, tenendosi per mano. Sono infagottati in giubbotti decisamente troppo pesanti per quella giornata di sole. Non riesce a parlare questa donna, è spaventata. Ha trascorso la notte in un container della Polizia francese. Da mangiare hanno ricevuto una porzione di insalata russa e uno yogurt. Erano una quindicina, tutti assiepati, in barba alle norme anti-Covid. Non sa dove si trova ora, non sa cosa è successo, non capisce il perché. Sa solo che non ce l’ha fatta, neanche questa volta.
In copertina: la banchina dell’ex scalo ferroviario dove oggi trovano riparo i migranti in attesa di tentare di attraversare il valico. Foto di Romina Vinci.