“A Peshawar avevo una mia bottega. Era piccola, ma andava bene. Vendevo zucchero, sale, olio, sapone. Non potevo lamentarmi. Ora eccomi qui, vendo meloni e angurie che compro da altri. Lo faccio da pochi giorni e non so per quanto ancora. Ma non mi basta per mandare avanti la famiglia”.
Rabihullah ha 45 anni e 12 figli. Nato in Afghanistan, fuggito dalla guerra, ha trascorso gran parte della vita in Pakistan, ma pochi mesi fa è stato costretto a tornare. Lo incontriamo all’inizio di una via sterrata che si dipana verso i campi coltivati, all’incrocio con la strada principale che conduce fuori città dal centro di Jalalabad, capoluogo di Nangarhar, provincia orientale al confine con il Pakistan. Seduto sulla paglia, alle spalle decine e decine di meloni profumati, in testa uno zuccotto chiaro, Rabihullah indossa un semplice vestito bianco, rattoppato qua e là. “Sono nato nel distretto di Bati Kut, qui nel Nangarhar. Ci siamo trasferiti in Pakistan quando ero adolescente. Di preciso non saprei quando. Ricordo che il mio primo digiuno per il Ramadan l’ho fatto lì. Non stavamo male a Peshawar. Ma 3 mesi fa siamo dovuti tornare. I poliziotti pachistani prima hanno cominciato a chiederci i documenti, poi a picchiarci. Ci attaccavano perfino di notte. Entravano nelle nostre case all’una, alle due del mattino. Ci dicevano di andar via. Nel nostro quartiere, che era come un villaggio, eravamo tutti afghani. Ci attaccavano per questo”.
La storia di Rabihullah è simile a quella di decine di migliaia di connazionali, costretti a rientrare in Afghanistan a causa delle politiche repressive del governo di Islamabad. Già nel 2015, Human Rights Watch denunciava “minacce ripetute, arresti frequenti, richieste regolari di mazzette, violenze occasionali da parte della polizia pachistana nei mesi successivi all’attacco alla scuola di Peshawar”, l’attentato terroristico che il 16 dicembre 2014 ha provocato la morte di 145 persone, tra cui 134 bambini.
Anche se l’attentato è stato rivendicato dai Talebani pachistani, per le autorità i responsabili andavano cercati all’interno dell’ampia comunità di rifugiati afghani che, sin dalla fine degli anni Settanta, hanno trovato protezione dalla guerra sull’altro lato della Durand Line, in Pakistan. Quei rifugiati erano parte della più ampia diaspora che ha reso l’Afghanistan per molti anni, fino allo scoppio della guerra siriana, il primo Paese al mondo di provenienza per numero di rifugiati. Una diaspora ancora oggi numerosa.
Secondo i dati dell’ultimo rapporto dell’Alto Commissariato dell’Onu per i rifugiati (Unhcr), Global Trends. Forced Displacement in 2017, nel mondo ci sono 2,6 milioni di rifugiati afghani, il 5% in più rispetto all’anno precedente. L’Afghanistan è il secondo paese di provenienza dei rifugiati dopo la Siria (6,3 milioni). La maggior parte vive in Pakistan (poco meno di 1,4 milioni) e in Iran (poco meno di 1 milione), ma i due Paesi ospitano anche un gran numero di emigrati privi di documenti, non registrati dalle Nazioni Unite (circa 1 milione in Pakistan, 1 milione e mezzo in Iran). “Nel corso degli ultimi 40 anni, dall’inizio della guerra in Afghanistan nel 1978, l’Iran e il Pakistan hanno ospitato il più alto numero di rifugiati afghani”, ricorda la ricercatrice Jelena Bjelica, che incontriamo nell’ufficio di Kabul dell’Afghanistan Analysts Network, il più accreditato centro di ricerca del Paese.
Molti sono tornati. Dal 2001, dal Pakistan sono rientrati ben 3,9 milioni di rifugiati afghani. Quanti non lo hanno fatto sono diventati armi diplomatiche nelle mani del governo di Islamabad, il cui establishment militare è accusato di alimentare il conflitto per ragioni strategiche. “I rifugiati vengono usati per esercitare pressioni politiche su Kabul. La prassi di non estendere la validità dei documenti di registrazione è uno degli strumenti più comuni”, nota Jelena Bjelica.
“Nel 2016 e in parte nel 2017, le autorità pachistane hanno esercitato molte pressioni sugli afghani affinché tornassero indietro” conferma il ricercatore indipendente Wali Mohammad Kandiwal, autore di diverse pubblicazioni sui processi migratori, che incontriamo a Jalalabad. Alle pressioni si sono aggiunte minacce e violenze crescenti, come testimoniato nel 2017 da un altro rapporto di Human Rights Watch. La strategia ha funzionato. Lo certificano i numeri. Tra gennaio 2016 e dicembre 2017, almeno 1,2 milioni di afghani sono rientrati dall’Iran e dal Pakistan. Nel 2017, 460.000 afghani senza documenti sono rientrati o sono stati deportati dall’Iran, 100.000 dal Pakistan e 7.000 da Paesi europei, a cui vanno aggiunti almeno altri 60.000 rifugiati registrati, tornati dal Pakistan. “Il loro è stato un vero dilemma: rimanere o tornare? Entrambe le opzioni erano rischiose. Chi è tornato, spesso non è convinto di aver fatto la scelta giusta”, aggiunge Kandiwal.
Anche Rabihullah non ne è certo. “Il lavoro non c’è, la casa costa troppo, non parliamo della sicurezza: qui si combatte dovunque”, spiega sconfortato mentre ci guida lungo i viottoli del quartiere in cui vive, nella periferia di Jalalabad. Dietro un cancello di metallo c’è casa sua. Un atrio di pochi metri quadrati, delimitato da alte mura. Sulla destra, un ripiano di legno con una bombola del gas e qualche stoviglia: “è la cucina”. Appena sopra, un filo con dei panni stesi. Una porta blu spicca contro il marrone delle pareti di fango. “Come vedi, la casa è fatta di un’unica stanza”. C’è un’unica finestra e, di fronte all’entrata, un letto di corde intrecciate con la base in legno, tipico di queste parti. Una scala in bambù raggiunge il tetto della stanza, dove sono stesi altri panni. “È tutto qui”, dice guardandosi intorno e lamentando la scarsa assistenza del governo, inefficiente e corrotto. “Le risorse ci sono, ma vengono dirottate su progetti privati, sottratte, rubate”, ci dice un funzionario della sede locale dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), che chiede l’anonimato.
Non si tratta soltanto di denaro. La risorsa più importante, qui, è la casa. Meglio ancora, la terra. Secondo il “Policy Framework on IDPs and Returnees” del governo, “l’assegnazione della terra sarà un contributo fondamentale nel successo di soluzione durature” per i rifugiati. Ma la realtà è diversa. “Il piano governativo è molto ambizioso, e i politici non fanno mai mancare promesse elettorali su questo tema. Ma l’assegnazione delle terre è uno dei processi più corrotti che ci siano”, nota Jelena Bjelica, che sull’argomento ha scritto un articolo molto informato.
Lo conferma Wali Mohammad Kandiwal, che ci anticipa i risultati della sua ultima ricerca, promossa dal Feinstein International Center dell’Università statunitense di Tufts. Si intitola “Homeland, but no land for home. A Case Study of Refugees in Towns: Jalalabad” e l’autore la sintetizza così: “la terra è il problema principale soprattutto qui, nella provincia di Nangarhar. Il governo punta a far tornare gli emigrati, ma non riesce a soddisfarne i bisogni e le legittime richieste. La burocrazia e soprattutto la corruzione sull’assegnazione delle terre rendono l’intero sistema dell’accoglienza del tutto fallimentare”.
Alla corruzione e all’inefficienza del governo si sommano altri ostacoli. Il primo è il costo della terra, il bene più ambito. Secondo i dati riportati dallo Special Inspector General for Afghanistan Reconstruction (Sigar), l’organo di controllo che riferisce al Congresso degli Stati Uniti sui soldi pubblici spesi nel Paese centro-asiatico, dal 2001 il costo della terra è aumentato del 1.000%. Un aumento ancora più significativo si registra nella provincia di Nangarhar, a causa delle speculazioni legate al rientro dei profughi dal Pakistan, delle mafie locali, delle dispute sui terreni e del landgrabbing.
C’è poi il problema strutturale dell’enorme peso demografico, sociale ed economico delle migrazioni forzate. Secondo una recente ricerca coordinata dall’Oim, in 15 delle 34 province afghane con la maggiore mobilità transfrontaliera e interna, tra il 2012 e il 2017 più di 3,5 milioni di persone sono ritornate dall’estero o sono state costrette a lasciare la propria casa, per trasferirsi in altre zone del paese. Tra coloro che sono rientrati in patria, 1 milione e 355 mila provenivano dal Pakistan, 398 mila dall’Iran. Il 25% di tutti i returnees si sono stabiliti proprio nella provincia di Nangarhar, che ha registrato 499,194 nuovi arrivi – ufficiali – tra il 2012 e il 2017.
Tra questi c’è Hejrat, 33 anni, carnagione scura, occhi celesti e un sorriso rassicurante. “Siamo tornati nel giugno 2017. Era un periodo in cui tante famiglie decidevano di tornare indietro”, racconta. “Sono nato in Pakistan, ma la mia famiglia è originaria del distretto di Rodat, non distante da Jalalabad”. Hejrat ha vissuto a lungo in Pakistan, a Peshawar, prima di essere costretto a tornare: “per i pachistani, gli afghani sono un fastidio. Abbiamo sopportato a lungo, poi siamo partiti”. Per farlo ha dovuto chiedere un prestito: “I miei genitori erano già tornati. Ho chiesto un prestito di 10.000 rupie pachistane (circa 70 euro, ndr), ho fatto i bagagli e sono partito. Eravamo 5 persone, tutta la mia famiglia. Al confine, l’Onu ci ha dato una tenda, 100 chili di farina e 3 coperte. Ora eccoci qui”. Hejrat sostiene che l’assistenza ricevuta sia insufficiente. “Abbiamo bisogno di tutto: cibo, lavoro, soldi. Con i soldi potrei cominciare un’attività e restituire quel che devo. Ho ancora debiti da pagare in Pakistan”.
Hejrat è tornato in Afghanistan nel giugno 2017, quando la morsa delle autorità pachistane cominciava ad allentarsi. “In quel periodo le autorità hanno prolungato la validità dei documenti degli afghani e il ministero afghano per i Rifugiati ha trovato un accordo con la controparte a Islamabad”, ricorda Kandiwal. Nel 2018, la pressione è ulteriormente diminuita. Eppure, i rientri dal Pakistan continuano, così come gli abusi. Da gennaio a oggi, secondo l’Oim circa 23.000 afghani senza documenti sono tornati in Afghanistan dal Pakistan (mentre sono circa 510.000 quelli rientrati dall’Iran, a causa delle crescenti pressioni delle autorità iraniane e della svalutazione del rial). “Siamo tornati da 5 mesi”, racconta Hakim, 25 anni. “Siamo stati costretti ad andarcene. I poliziotti ci picchiavano ogni giorno con i bastoni, ci perseguitavano, continuavano a crearci problemi. Quando hanno esagerato, abbiamo deciso di partire. Molta gente ha preso la nostra stessa decisione”.
Hakim si considera afghano, ma è nato in Pakistan. “Sono nato vicino a Peshawar, nel campo (rifugiati, ndr) di Akora. Poi siamo finiti a vivere su Charsadda road, fuori dai campi, con altre famiglie afghane. La mia famiglia si è trasferita in Pakistan 35 anni fa a causa della guerra”. La guerra continua ancora oggi, ma Hakim – pur non essendoci mai vissuto – è tornato nella patria dei genitori. “Non era più possibile vivere a Peshawar: troppi problemi”.
Anche qui non mancano. “In Pakistan facevo il lavoratore a giornata, lo stesso provo a fare qui. Ma è più difficile. Ho provato ad andare a Kabul, ma non ho trovato niente. Vivo con mia madre e mio padre, con mia moglie e i miei 5 figli. In tutto, siamo 8 persone”. Hakim ci mostra casa, una tenda di plastica marrone, fornita dal Norwegian Refugee Council. Il tetto è in lamiera, le pareti in plastica e tela. Sopra l’ingresso svetta una bandiera afghana. Sui lati, una stampella di fil di ferro sorregge un vassoio di metallo con qualche utensile. Un intricato giro di fili porta l’elettricità. “Ma va e viene”. All’interno, diversi materassi, arrotolati per risparmiare spazio, un peluche spelacchiato e qualche pentola. La tenda si trova in un ampio parcheggio sterrato, per gran parte occupato da ferraglia e calcinacci. Dietro la tenda c’è un palazzo in costruzione, lasciato a metà. Accanto, un’altra tenda, più bassa e più piccola.
Qualche metro più in là, un orticello di due metri per due. Pomodori, melanzane e poco altro. Hakim vorrebbe tornare nel villaggio dei genitori, nel distretto di Bati Kut, ma non può: “lì c’è la guerra”.
In copertina: un panorama lungo la strada che collega Kabul a Jalalabad (fotografia di Giuliano Battiston, come tutte le immagini di questo articolo)