Il caso di A.S.R.D.
S. R. D. è un cittadino cileno, detenuto presso la Casa Circondariale “Regina Coeli” di Roma. Durante la detenzione ha sempre tenuto una condotta esemplare e dato prova di partecipare all’opera di rieducazione, tanto che gli era stata concessa la detrazione dei giorni di pena prevista dall’istituto della liberazione anticipata (art. 54 dell’Ordinamento Penitenziario) e l’ammissione al beneficio del lavoro esterno (art. 21 O.P.). Lavoro che, come testimoniato da tutto il personale dell’istituto, ha sempre svolto con attenzione e puntualità. Il detenuto, inoltre, è ben radicato sul territorio italiano, dove ha forti legami affettivi e familiari: ha una moglie e dei figli, l’ultimo dei quali nato tre anni fa, durante la detenzione.
A.S.R.D. avrebbe finito di scontare regolarmente la sua pena il 7 marzo di quest’anno.
Tutto questo non impedisce che venga raggiunto da un decreto di espulsione emesso dal Magistrato di Sorveglianza di Roma nell’ottobre del 2016. A nulla sono valse le impugnazioni contro il provvedimento, presentate dal suo avvocato al Tribunale di Sorveglianza e alla Corte di Cassazione. La sera di venerdì 24 febbraio A. S. R. D. è stato prelevato dalla sua cella e accompagnato alla frontiera con l’ausilio della forza pubblica, in esecuzione di un provvedimento di “espulsione come misura alternativa alla detenzione”. Detenzione che sarebbe finita soltanto pochi giorni dopo.
Gli stranieri e il carcere
Per quanto questo caso possa sembrare straordinario e inspiegabile, è in realtà emblematico delle difficoltà e contraddizioni in cui incorre il legislatore italiano nell’affrontare lo spinoso problema del rapporto tra stranieri e carcere.
Analizzando i più recenti dati ufficiali provenienti dal Ministero della Giustizia, possiamo farci un’idea di come la presenza degli stranieri nelle carceri italiane sia un fatto ormai consolidato e con cui occorre il prima possibile approcciare con atteggiamento diverso da quello della rincorsa affannosa a provvedimenti spot e legislazione emergenziale.
Secondo le ultime rilevazioni, infatti, su 55.381 detenuti presenti, a vario titolo, negli istituti di pena italiani, 18.825 sono di origine straniera, pari al 33,99% della popolazione carceraria complessiva. Leggendo le analisi che coprono il periodo dal giugno 1991 al dicembre 2016, scopriamo che questo dato non costituisce un record né in termini assoluti, né in termini percentuali, ma si inserisce comunque in una tendenza di crescita costante e inarrestabile. Nel 1991 gli stranieri in carcere sono 5.356, pari al 15,13% del totale; il loro numero raddoppia già nel 1997, passando a 10.825 (22,32%); quadruplica nel 2008 arrivando a 21.562 (37,09%); il picco di presenze percentuali viene raggiunto nel 2007 (37,48%); quello delle presenze assolute alla fine del 2010, con 24.954 unità (36,72%).
Le espulsioni
Per far fronte alla crescente presenza degli stranieri in Italia, nel 1998 il legislatore emana il c.d. “Testo Unico sull’Immigrazione” (Decreto Legislativo n. 286 del 25 luglio). Ad esso si aggiungeranno, modificandolo, numerosi successivi interventi normativi, ultimo dei quali il già controverso Decreto Legge n. 13 del 17 febbraio 2017 (“Disposizioni urgenti per l’accelerazione dei procedimenti in materia di protezione internazionale, nonché per il contrasto dell’immigrazione illegale”), entrato in vigore dal 18 febbraio e in attesa di conversione in legge. Il risultato è un intricato reticolato di norme, molte delle quali volte ad allontanare dal territorio dello Stato gli stranieri che non hanno (o hanno perso) il diritto di soggiornarvi: lo strumento principale sono le espulsioni.
Esistono, semplificando, due diversi tipi di espulsioni, che, tuttavia, non di rado finiscono per lambirsi e sovrapporsi: quelle di carattere amministrativo, disposte dal Ministro dell’interno per motivi di ordine pubblico, sicurezza o contrasto al terrorismo, e dal Prefetto, per irregolarità nell’ingresso o nel soggiorno e violazioni delle norme sull’immigrazione; e quelle demandate all’autorità giudiziaria. Sono le espulsioni a titolo di misura di sicurezza, decise dal giudice per il soggetto condannato e ritenuto socialmente pericoloso; a titolo di sanzione sostitutiva della pena, detentiva, se non superiore a due anni o, pecuniaria, se comminata per ingresso o soggiorno irregolare o inosservanza dell’ordine di allontanamento del Questore; come misura alternativa alla detenzione, destinata allo straniero privo dei requisiti per il soggiorno, che sia identificato o identificabile e abbia una pena detentiva, anche residua, non superiore ai due anni.
La legge, in alcuni casi, stabilisce limiti e garanzie. L’art. 19 del T.U. sull’immigrazione, ad esempio, prevede il divieto di espulsione e di respingimento verso uno Stato in cui lo straniero possa essere oggetto di persecuzione (per motivi razziali, linguistici, religiosi, politici, sociali e di genere) o in cui non sia protetto da tale persecuzione. Così come vieta, salvo esigenze di ordine pubblico e sicurezza dello Stato, l’espulsione dello straniero minore o convivente con parenti stretti purché di nazionalità italiana o delle donne in stato di gravidanza o madri di figli neonati.
Quale rieducazione?
Ci sono casi, tuttavia, in cui queste tutele appaiono solo formali e sembrano perdersi in una asettica burocratizzazione delle procedure, che comporta un’attuazione delle espulsioni secondo rigidi automatismi. Soprattutto nei confronti degli stranieri detenuti, infatti, non si tiene conto del vissuto del soggetto, della sua storia di cambiamento e riscatto, del suo percorso personale di inclusione e integrazione.
Tutti sappiamo che, secondo l’art. 27 della Costituzione, le pene devono tendere alla rieducazione del condannato. E tale obiettivo vale sia per gli italiani sia per gli stranieri. Ma di tutto questo non c’è traccia nella disciplina delle espulsioni.
Il caso di A.S.R.D., detenuto modello espulso a titolo di misura alternativa alla detenzione a pochi giorni dalla sua fine, è un esempio di come, per le leggi italiane, non importa se lo straniero condannato abbia reagito positivamente ai trattamenti penitenziari, dando prova di aver aderito al progetto di reinserimento; non importa che abbia ottenuto benefici e misure premiali, né che dal carcere abbia trovato un lavoro; non importa che abbia vissuto per anni in Italia e che qui abbia costruito una famiglia. Se una norma prevede l’espulsione, questa deve essere eseguita.
Ed è un esempio di come, troppo spesso, un’applicazione meccanica di leggi lontane dalla realtà possa, non solo vanificare il faticoso recupero di un condannato, ma anche dimenticare la funzione rieducativa della pena prevista dalla nostra Costituzione.
Foto di copertina: Alexander C. Kafka (CC BY-ND 2.0).