Lo scorso 11 gennaio il ministro della Giustizia ha riportato i dati ufficiali dell’amministrazione penitenziaria (DAP) rispondendo a un’interrogazione parlamentare. Secondo i dati trasmessi dal DAP i detenuti che sono sottoposti a specifico “monitoraggio” sarebbero 170, a cui se ne aggiungono 80 “attenzionati” e 125 “segnalati”, per un totale di 375 individui a vario titolo radicalizzati. Ho volutamente riportato le esatte definizioni usate dalle istituzioni penitenziarie.
Il ministro Andrea Orlando ha anche ricordato che i soggetti detenuti in Italia per reati legati al terrorismo internazionale sono 45 e si trovano ristretti nelle sezioni di “Alta Sicurezza 2” delle case circondariali di Benevento, Brindisi, Lecce, Nuoro, Sassari, Tolmezzo, Torino, Roma Rebibbia e Rossano. Di questi, 27 sarebbero quelli ristretti presso gli istituti della Sardegna.
Le parole contano: qual è la definizione di detenuto radicalizzato?
Dunque ci sono quattro categorie di persone detenute che hanno a che fare in qualche modo con la radicalizzazione violenta: i terroristi, i monitorati, gli attenzionati, i segnalati.
Mentre è assolutamente chiaro chi sono i terroristi, in quanto sono in carcere perché imputati o arrestati per una specifica fattispecie di reato, non è così chiara la costruzione delle altre tre categorie entro cui sono collocati i detenuti ritenuti ‘radicalizzati’. Probabilmente saranno stati pensati e utilizzati indicatori che attestino un diverso grado di ‘radicalizzazione violenta’.
E qui c’è il primo punto di domanda. Quali e di che tipo sono questi indicatori? Sono l’esito di indagini? Sono fondati su prove tangibili? Oppure sono basati sul sospetto? Sono indicatori costruiti su basi criminologiche serie oppure sull’esperienza? Sono l’esito di analisi statistiche o di approcci empirici e talvolta estetici?
Per salvare delle vite, si dirà, si può pur sorvolare su dettagli linguistici. Probabilmente sì se questo non comporti un rischio ancora maggiore per le vite di cui prima. Le ingiustizie e gli errori di valutazione rischieremmo di pagarli in termini di radicalizzazione al quadrato.
Fa bene il DAP a monitorare quanto accade nelle carceri per la sicurezza di tutti. L’importante è che non si costruiscano sul sospetto destini ‘penitenziari’ tragici. Definire ‘radicalizzato’ chi non lo è significa etichettarlo e rendergli ben più dura la vita penitenziaria. Dunque vanno evitati errori fondati sul sospetto. Potrebbero indurre a scelte violente persone che invece non avevano minimamente simili intenzioni.
Il sistema della giustizia e carcerario commette un errore gravissimo ogniqualvolta è responsabile di percorsi di vittimizzazione.
Radicalizzazione, il problema è davvero l’Islam?
È ora utile soffermarsi su chi è a rischio di radicalizzazione nelle carceri italiane.
A oggi la popolazione detenuta è di circa 55 mila persone, tra cui circa 18 mila detenuti stranieri.
I detenuti che si professano esplicitamente di fede islamica sono – secondo rilevazioni di qualche mese fa – 6.138, ma quasi 15mila persone detenute non hanno dichiarato qual è la loro fede religiosa. Tra loro, si può legittimamente immaginare vi siano un bel po’ di detenuti islamici che non intendono essere controllati a vista. In uno stato di diritto ognuno è totalmente libero di non dichiarare se crede, a chi crede o se non crede. La sondaggistica religiosa è ai limiti dell’invadenza in una sfera per sua natura evidentemente e inconfutabilmente intima. Nessuno dovrebbe ricevere un trattamento penitenziario differenziato, più o meno rigido, in base alla propria religione di appartenenza o al proprio rifiuto di dichiararla.
Se questi sono i numeri perché le prigioni d’Italia sono così a rischio di ‘radicalizzazione’ violenta?
Il primo motivo è logistico. Il carcere è un luogo chiuso, dove si sta insieme per tante ore al giorno parlando sempre delle stesse cose. In molte carceri non sono organizzate attività. Si ozia. Non c’è quindi spazio e modo più semplice per convincere qualcuno a ‘incattivirsi’.
Il processo di vittimizzazione e radicalizzazione sarà ancora più lineare e con maggiori possibilità di riuscita se la persona detenuta è trattata male, se è emarginata, se è costretta all’inedia, se non ha opportunità di recupero.
Mettere al centro i diritti per combattere la radicalizzazione
Contro la radicalizzazione è necessaria una riforma delle norme e della pratica penitenziaria mettendo al centro i diritti religiosi e i diritti degli stranieri detenuti. C’è una legge in questo senso che pende al Senato. È stata già approvata alla Camera. È all’interno di una proposta ben più ampia sulla giustizia che si occupa di mille temi. Andrebbe estrapolata e approvata subito.
Bene di recente ha fatto l’amministrazione penitenziaria ad affidare la formazione della Polizia penitenziaria a un Imam dell’Ucoii. È questo un tassello contro la radicalizzazione. La conoscenza della cultura e della religione altrui aiuta a capire, a decostruire pregiudizi, a distinguere i religiosi dai radicalizzati, i radicalizzati dai radicalizzati violenti. Gli altri tasselli sono a portata di mano. Così come a portata di mano sono politiche sociali e lavorative che favoriscano percorsi individuali di deradicalizzazione. Tutto ciò è faticoso. È ben più faticoso rispetto a tentazioni sommarie di segregazione, etichettamento, espulsione. Ma è sicuramente più utile ai fini della sicurezza. Ed è sicuramente più rispettoso della dignità di tutti.
FOTO DI COPERTINA: Sara Jo (CC BY-ND 2.0).