L’8 agosto del 1991, quando la nave Vlora arrivò nel porto di Bari dall’Albania, l’Italia scoprì di essere un paese di immigrazione e, proprio il tema delle migrazioni, divenne centrale nell’agenda pubblica, politica e comunicativa.
Fin da quel primo arrivo si sono imposti una serie di frame, di cornici narrative, all’interno del quale si sviluppa il dibattito sulle migrazioni. Una di queste cornici è legata al tema della sicurezza.
Si è infatti imposto il presupposto che l’immigrazione sia innanzitutto una questione di “sicurezza pubblica”, rafforzando la narrazione delle persone migranti come criminali o, comunque, come pericolo aggiuntivo alla propria incolumità fisica o alla violazione della propria proprietà.
Che questo frame abbia funzionato non c’è da sorprendersi. Per imporsi, infatti, le narrazioni hanno bisogno di ancorarsi a valori profondamente radicati e la sicurezza è senza dubbio un valore a cui noi tutti teniamo. Può avere molte declinazioni, può essere associata a luoghi specifici (città, quartieri) o a categorie specifiche di persone, può essere ricercata in modi diversi, ma tutti vogliamo essere e sentirci sicuri.
Per cui non sorprende che il connubio immigrazione/insicurezza sia così a fondo penetrato nel sentire dell’opinione pubblica e abbia contribuito a costruire una narrazione – smentita dai numeri, ma sostenuta dalla copertura mediatica – per cui l’aumento dei flussi migratori porta ad un aumento della criminalità.
E non è utile neanche additare come razzista chiunque manifesti approcci di chiusura verso le migrazioni, proprio perché preoccupato per la sicurezza.
Frank Sherry, fondatore e direttore dell’organizzazione America’s Voice, che negli Stati Uniti lavora per una riforma delle leggi sulle migrazioni, ha spiegato a un gruppo di democratici dell’Iowa – come racconta Silky Shah nel libro “Unbuild Walls” – che “ciò che non funziona, nella maggior parte dei casi, è dare del razzista ai propri avversari”. In quell’incontro Sherry evocò Martin Luther King Jr. che non convinse “un pubblico americano molto scettico sui diritti civili” chiamando le persone “cretini razzisti”, ma invocando “il sogno americano”.
I preoccupati per la sicurezza sono peraltro una categoria di persone che una ricerca del 2018, L’Italia frammentata, commissionata da More in Common a Ipsos/Mori, include all’interno di quello che venne definito “Centro incerto”, ovvero segmenti di persone che per ragioni diverse non hanno una posizione definita rispetto alla questione migrazioni, ma che le narrazioni possono spostare verso una maggiore chiusura o, viceversa, una maggiore apertura.
Proprio per questo è utile affrontare il tema della sicurezza, confrontandosi sulle paure, cercando di capirne le cause e offrendo una narrazione che faccia sentire queste persone “al sicuro” anche senza pensare a deportazioni, blocchi navali o altro di affine.
E qui ci viene utile anche quella che è stata l’attualità di questo paese dal 1991 ad oggi, richiamando alcuni ricordi e vissuti personali.
Il primo, lo racconto spesso quando parlo di questi temi, è un fatto di cronaca che sconvolse l’Italia all’inizio degli anni 2000, quando due fidanzati, all’epoca ancora minorenni, uccisero la madre e il fratello minore di lei. Interrogata la ragazza, nelle prime ore dopo l’omicidio, accusò di quel duplice omicidio delle persone straniere, albanesi, come frutto di un tentativo di rapina a cui lei era riuscita a fuggire. Per le strade della città dove ebbe luogo questo fatto si scatenò una caccia all’uomo alla ricerca dei due “killer” albanesi, con anche il fermo di un uomo, identificato dalla ragazza, ma rilasciato poco dopo, avendo un alibi inattaccabile. Alla fine si scoprì che a commettere l’omicidio furono quei due fidanzati. All’epoca erano gli albanesi ad arrivare in Italia e la narrazione sulla criminalità riguardava questa comunità, per spostarsi solo pochi anni dopo su quella rumena, su cui si concentrò la narrazione pubblica attorno al tema immigrazione/insicurezza.
In quegli anni, siamo intorno al 2008, collaboravo negli uffici del Sindaco di un comune alle porte di Roma e, in particolare, con l’Assessore alle Politiche Sociali. Un giorno in ufficio venne una donna che voleva delle informazioni relative ad un albo delle badanti che si stava implementando e, nel parlare, mi disse più o meno testualmente: “io sono ucraina, sono una persona affidabile, non sono rumena”.
Faccio questi due esempi perché oggi, a distanza di tanti anni, a nessuno probabilmente salterebbe in mente di incolpare due persone albanesi per nascondere le proprie responsabilità in un crimine efferato, così come a nessuno probabilmente salterebbe in mente di dimostrare la propria affidabilità mettendola a paragone con l’inaffidabilità di una persona rumena. Oggi quelle comunità sono infatti parte del paese, le loro posizioni sono regolarizzate, le famiglie sono riunite e la percezione di insicurezza che ci provocano è molto bassa.
Per questo, per creare sicurezza, abbiamo bisogno di regolarizzare le persone.
Questo ce lo dicono anche i dati sui reati e le presenze in carcere, laddove le persone straniere sono coinvolti nella grande maggioranza dei casi nei cosiddetti reati “di sopravvivenza”, quindi reati contro il patrimonio o reati legati alle droghe, tipici di chi cerca un sostentamento laddove la propria situazione personale sia precaria. E l’irregolarità aumenta ovviamente la precarietà, riducendo la possibilità di trovare un posto di lavoro e cancellando quella di trovare un lavoro “legale”. Come riportano alcuni studi, la percentuale dei migranti irregolari tra quelli incarcerati si attesta tra il 60 e l’80% a seconda del tipo di crimine. Invece le comunità ampiamente regolarizzate hanno tassi di criminalità molto simili a quelli dei cittadini italiani e, in alcuni casi, anche inferiori.
Parlando di lavoro, si è detto che l’irregolarità riduce le possibilità, ma certo non le cancella.
Nel 2020, sull’onda della pandemia di Covid-19, ci si è resi conto di quanto fondamentali siano per la nostra società le persone straniere, anche quelle irregolari, presenti soprattutto nel comparto agricolo e in quello di cura. Il governo promosse così una sanatoria e circa 200.000 persone, irregolarmente presenti sul territorio italiano, in accordo con i propri datori di lavoro, presentarono un’istanza di regolarizzazione (con un ritmo che va molto al rilento). 200.000 persone sono circa la metà di tutti gli immigrati presenti sul territorio italiano senza un valido titolo di soggiorno. Un dato altissimo, che non tiene conto dei molti altri che non la presentarono. Come raccontò bene Marco Omizzolo, in alcuni casi i datori di lavoro pretesero somme di denaro consistenti (5.000-10.000 €) per sostenere la richiesta, cosa che i lavoratori non potevano permettersi, dovendo così rimanere nell’irregolarità. Quest’ultima rende le persone facilmente ricattabili e le costringe spesso a condizioni di lavoro e di vita al di sotto degli standard, rendendoli indirettamente causa e vittime di un abbassamento generalizzato delle retribuzioni in alcuni settori.
Regolarizzare queste persone ci aiuterebbe ad avere dunque condizioni di vita e di lavoro migliori per loro e per tutti gli altri, ma anche condizioni abitative decorose, con un impatto positivo anche sulla sicurezza percepita, che non può essere costruita nei ghetti senza servizi in cui molto spesso queste persone si trovano a vivere tornati dai loro impieghi.
L’irregolarità impedisce poi anche un pieno accesso ai servizi, spesso anche quelli medici – da cui molti si tengono lontano per paura di denunce o di controlli, anche se il personale sanitario non è tenuto in alcun modo a segnalare le persone. Questo fa sì che sia complicato intervenire sul benessere fisico e mentale, quest’ultimo in molti casi messo a dura prova sia dal percorso migratorio che queste persone hanno dovuto affrontare, sia dalla condizione di profonda precarietà esistenziale in cui vivono.
Questo perché ad oggi, le attuali leggi sull’immigrazione, impediscono di viaggiare verso l’Italia in maniera sicura, con visti e permessi, e la strada unica da percorrere rimane quella di spostarsi senza documenti. Ciò comporta viaggi lunghi, sofferti, dove le persone rischiano la vita, in alcuni casi vengono sottoposti a violenze, torture, stupri, con un carico di sofferenza fisica e psicologica che poi può detonare laddove l’arrivo in un paese non corrisponda alle aspettative che si avevano.
Come scrive Silky Shah in “Unbuild Walls”, “creare barriere alle migrazioni non previene la volontà e il bisogno delle persone di migrare per sopravvivere o per riunificarsi con le famiglie. Le barriere rendono semplicemente il processo migratorio più pericoloso, consentendo a contrabbandieri e trafficanti di sfruttare i migranti durante il processo”.
La condizione di irregolarità può poi portare le persone ad essere recluse per alcune settimane o mesi nei Centri di Permanenza per il Rimpatrio laddove, come hanno sottolineato diversi esperti, questa detenzione può accrescere o far emergere problematiche di salute mentale. Per cui, al momento del rilascio e del molto probabile mancato rimpatrio (solo circa il 50% delle circa 6.000 persone che ogni anno vengono recluse in questi centri viene poi effettivamente rimpatriata), per le strade delle nostre città si possono trovare persone con una grande sofferenza mentale, che l’irregolarità e la conseguente invisibilità rende impossibile da seguire e di cui non ci rendiamo conto, a meno che questa non si renda protagonista di un fatto di cronaca.
Perciò abbiamo bisogno non solo di regolarizzare chi è qui, ma anche di creare canali legali e sicuri di accesso, gli stessi che i cittadini italiani e molti altri cittadini hanno quando decidono di spostarsi – per periodi più o meno lunghi – verso altri paesi.
Regolarizzare è l’unica strada percorribile per costruire sicurezza.
Immagine di copertina. Credit: foto di Ron Dauphin su Unsplash