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Homepage >> Idee >> Se “migrante” e “rifugiato” non spiegano le nuove diaspore
Saskia Sassen
Sassen è una delle figure più importanti della sociologia contemporanea. Insegna alla Columbia University e alla London School of Economics. Tra i suoi libri: "Globalizzati e scontenti", "Una sociologia della comunicazione", "Territorio, autorità e diritti". Il suo ultimo libro in italiano è "Espulsioni. Brutalità e complessità nell'economia globale".

Se “migrante” e “rifugiato” non spiegano le nuove diaspore

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17 febbraio 2016 - Saskia Sassen
È necessario ampliare ad altri contesti la protezione dei "profughi". Non è solo la guerra la ragione per cui avvengono le espulsioni di massa di popoli dalle loro terre. Carenza d'acqua, inquinamento, cambiamento climatico causano milioni di nuove vittime. Lo sguardo della grande sociologa sulle migrazioni contemporanee.

È importante capire in quale contesto emergono i flussi migratori. È possibile infatti dimostrare come quasi tutte le migrazioni più importanti degli ultimi due secoli, e molte delle precedenti, nascano in un momento preciso, ovvero abbiano avuto un inizio determinato.

Voglio concentrarmi su un insieme particolare di nuove migrazioni: apparse negli ultimi due anni, quasi sempre di più modeste dimensioni rispetto alle migrazioni di più lunga data, ma che sono ancora in corso.

Me ne interesso perché ci aiutano a capire la ragione per cui un determinato flusso ha avuto inizio, e così facendo ci dicono qualcosa di un contesto più ampio: in questo senso il migrante è l’indicatore di un mutamento avvenuto nella zona da cui proviene. Una volta che un flusso è contraddistinto da una migrazione a catena, occorrono molti meno elementi per spiegarlo. Da tempo quasi tutti i miei lavori sulle migrazioni sono incentrati proprio sul contesto più ampio da cui il nuovo flusso scaturisca, anziché sui flussi consolidati che si sono trasformati in migrazioni a catena (per esempio quelli del 1988, del 1999 e del 2014).

La perdita dell’habitat

Credo che le migrazioni di oggi segnino l’inizio una nuova fase storica. Esse indicano l’esistenza di una possente combinazione di forze che produce una perdita massiccia di habitat in un numero sempre crescente di zone del pianeta. Mi è difficile considerare queste persone come semplici migranti e rifugiati: la loro provenienza è infatti una parte importante della storia che si va scrivendo, ed è la parte a cui si dovrebbe dare risalto.

In varie parti del mondo c’è un intensificarsi di condizioni negative che porta a una massiccia perdita di habitat. Ed è proprio a quest’ultima che non viene dato spazio sufficiente nelle discussioni e nelle analisi odierne sulle nuove migrazioni. Qui la guerra è sì un fattore importante, ma ve ne sono molti altri a generare migrazioni, che per l’ennesima volta coglieranno di sorpresa gli esperti.

Accanto alla guerra, dobbiamo dunque considerare una quantità di altri fattori che causano la perdita dell’habitat ad almeno due miliardi di persone che vivono nelle zone rurali e semi-rurali di tutto il mondo.

Fra questi spiccano i cambiamenti climatici (desertificazione, innalzamento dei livelli delle acque, inaridimento del suolo per via del calore), le acquisizioni imponenti di terreni da parte di governi e gruppi industriali stranieri per soddisfare la domanda interna, la costruzione di nuove “città” e zone di uffici (spesso private), la forte espansione del settore minerario per soddisfare la domanda di nuovi componenti da parte dell’industria elettronica, l’avvelenamento crescente del suolo e delle acque interne causato dalla tossicità delle industrie agricola, mineraria e manifatturiera, e altri ancora.

Al di là degli effetti sulle popolazioni rurali, anche le aree urbane presentano da tempo spazi e condizioni tossiche e malsane. A ciò vanno aggiunte oggi alcune nuove carenze, specialmente di acqua, che stanno raggiungendo livelli spaventosi in un numero sempre maggiore di spazi urbanizzati.

Non basta parlare di “rifugiati” e “migranti”

Questo insieme di condizioni diverse, fra cui i conflitti armati esercitano un ruolo diretto, mi porta a sostenere che il linguaggio dell’immigrazione e dei rifugiati è insufficiente a descrivere gli eventi storici in atto. Nel caso della guerra dobbiamo prendere in considerazione due elementi che spesso vengono (comprensibilmente) trascurati rispetto alle morti, alle menomazioni e alla distruzione fisica. Il primo riguarda le tossicità e le altre forme di distruzione dell’habitat che la guerra porta con sé, rendendo spesso la vita impossibile anche dopo la sua fine. Il secondo, ancora più cruciale, è che quelle odierne sono guerre asimmetriche, e senza fine.

Quando facciamo entrare in gioco la perdita di habitat dobbiamo almeno considerare la possibilità che oggi i concetti e gli interventi politici tradizionali relativi all’immigrato e al rifugiato non siano più adeguati alla fase migratoria attuale.

Quelli di “immigrato” e “rifugiato” sono ancora concetti potenti, ma hanno avuto origine in un contesto storico e spaziale diverso. Molti elementi di quel contesto sono tuttora operanti, e molte delle politiche per la gestione dei migranti e dei rifugiati sono ancora efficaci, o quantomeno utili. La nostra domanda è più specifica, e non esclude la continuazione delle tendenze esistenti, ben rappresentate da quei concetti tradizionali. Quel che chiediamo è se ci troviamo di fronte a un insieme di flussi emergenti di individui disperati, per i quali dobbiamo affrontare un insieme di condizioni molto più ampio e difficile da trattare, ovvero quella che abbiamo chiamato perdita di habitat.

Sta suonando un campanello d’allarme

Oggi la tendenza generale delle politiche che si occupano degli sfollati è quella di considerare la guerra come unica causa. Ma le migrazioni forzate assumono molte forme: si può perdere la propria terra per via di espropri compiuti da gruppi industriali in barba alle leggi esistenti; oppure doverla abbandonare per via degli agenti tossici prodotti dalle vicine miniere, o per via dell’espansione della guerra asimmetrica, e via dicendo.

Insomma, la fase migratoria attuale dovrebbe essere un campanello d’allarme: le politiche esistenti non sono attrezzate per affrontare i nuovi tipi di condizioni che producono masse di sfollati, né le relative conseguenze. Occorrerà sviluppare delle reti globali di intervento che sappiano gestire le specifiche forme assunte di volta in volta dalle condizioni generiche nelle varie regioni o nei vari paesi, e riconoscere la necessità di nuovi ambiti di decisione e d’intervento transnazionale.

Occorre gestire una gamma di soggetti generatori della condizione di sfollato diversa da quella di cui si occupa sistema umanitario attuale. Ciò consentirebbe di adottare un atteggiamento più realistico nelle politiche chiave verso i flussi imponenti di profughi, in cui oggi l’accettazione dipende da una sorta di legittimazione di quella condizione, una legittimazione fornita principalmente dalla guerra.

Nuovi profughi

Affidare ai diretti interessati la decisione di dichiararsi legittimamente profughi può funzionare per la guerra, ma non per il tipo di migrazione forzata generato dall’espansione delle miniere, dagli espropri di terreni e corsi d’acqua, dall’avvelenamento delle riserve idriche e del suolo.

Gli sfollati a causa delle miniere e degli espropri vanno riconosciuti come vittime, e la responsabilità deve ricadere sulle miniere e su chi si accaparra le terre. Abbiamo bisogno di una mappa concettuale più ampia che tracci e stabilisca chi o cosa ha causato una migrazione forzata. E questo vuol dire che possono esistere masse di profughi anche là dove non ci sono guerre.

 

[Traduzione di Francesco Graziosi]

Etichettato con:ambiente, immigrazione, rifugiati

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