In Bangladesh vengono raccolte enormi quantità di dati personali e biometrici di centinaia di migliaia di rifugiati Rohingya. E questo dovrebbe far scattare diversi campanelli di allarme.
In quanto spettatrice di probabili crimini contro l’umanità commessi contro i Rohingya, la comunità umanitaria ha la particolare responsabilità di assicurarsi che i loro diritti non vengano ulteriormente violati attraverso i dati e la tecnologia. Il momento di creare maggiori tutele è adesso, prima che sia troppo tardi.
Raccogliere dati su gruppi marginalizzati può essere un’attività rischiosa, e per i Rohingya non è una novità vedere sminuiti ulteriormente i propri diritti umani attraverso l’utilizzo di informazioni personali. Quello che si propone in Bangladesh solleva ampie preoccupazioni sull’uso etico e responsabile dei dati, ed è potenzialmente pericoloso.
Il processo di registrazione del governo del Bangladesh include la scansione di dati “biometrici” – cioè, in questa fase, le impronte digitali – con le Nazioni Unite a fornire “assistenza tecnica”. Contemporaneamente, l’agenzia Onu per i Rifugiati, l’Unhcr, ha annunciato questa settimana [la versione originale dell’articolo è stata pubblicata lo scorso 23 ottobre, NdT] che sta portando avanti un’esercitazione di conteggio separata, che comprende la pratica di scattare fotografie. I profughi possono ragionevolmente pensare che il loro accesso ad aiuti e protezione dipenda da una o entrambe le forme di registrazione, e così, fra coloro che progettano ed eseguono la raccolta dei dati e coloro che la subiscono si crea una netta asimmetria di potere.
Le considerazioni sui dati responsabili sono numerose e complesse.
Quali dati bisognerebbe raccogliere, e chi li dovrebbe raccogliere? Chi ha accesso a quei dati? In caso di errore umano o delle macchine, quali processi di revisione e modifica si instaurano? Quali potrebbero essere le conseguenze indesiderate di questi database sempre più grandi? Che abuso di questi dati potrebbe verificarsi?Tutte queste domande, e altre ancora, vanno ponderate bene, e le conclusioni vanno incluse in modo ragionato nella progettazione di qualunque raccolta di dati sui Rohingya, prima che vengano fatti danni.
Registrare i Rohingya
Secondo i media locali, l’azienda bengalese Tiger IT ha fornito al governo un software per registrare i Rohingya. Il sistema registrerà le impronte digitali di ogni individuo, insieme al suo nome, genere, età, fotografia, nome dei genitori, luogo di nascita, nazionalità, paese e religione – e tutte queste informazioni verranno collegate a una carta di identità. La carta non usa il termine “Rohingya”, e a causa di questa omissione alcuni si stanno rifiutando di farsi registrare.
L’esperienza del Bangladesh riecheggia quella del Myanmar. Il censimento dei Rohingya del 2014 elencava 135 gruppi etnici, ma omettendo deliberatamente qualunque opzione per indicare “Rohingya”. Questo ha portato al rifiuto da parte di molti delle carte d’identità nazionali che sono seguite al censimento e che usavano il termine sostitutivo “Bengalese”, carico per loro di significati. I Rohingya erano preoccupati che questo fosse semplicemente un altro tentativo di cancellarli come comunità. In un’altra mossa speculare, un censimento in Bangladesh del 2016 ha etichettato i Rohingya come “cittadini del Myanmar” – uno status che lo stesso Myanmar non riconosce loro.
Questo mese, l’Unhcr ha annunciato di essere impegnato in un conteggio separato: una volta che le informazioni sul rifugiato, comprese le fotografie, vengono raccolte in modo digitale con una non meglio specificata “app”, la Commissione per l’Aiuto ai Rifugiati e il Rimpatrio assegna [a ogni individuo] una tessera laminata di colore giallo con un numero esclusivo. Non è chiaro come o addirittura se questo esercizio di conteggio si colleghi con l’altra forma di registrazione condotta dal Dipartimento Immigrazione e Passaporti.
Produrre database separati (e forse fornire più di una tessera ufficiale di identificazione) non è un utilizzo efficiente delle risorse, e potrebbe davvero portare a conseguenze per i rifugiati che si trovano ad essere i destinatari delle domande e delle tessere.
Usare i dati biometrici come prova di identità potrebbe rendere più efficace la consegna di aiuti e servizi ai profughi Rohingya, ma per molte ragioni è un’arma a doppio taglio.
Prima di tutto, può essere utilizzata per spingere al rimpatrio (volontario o meno). Il Ministro dell’Industria del Bangladesh Amir Hossain Amu ha dichiarato apertamente che il suo paese non ha “in programma di dare lo status di rifugiato ai Rohingya”, aggiungendo che “la ragione dietro a questo processo biometrico è di tenere traccia dei Rohingya. Vogliamo che tornino a casa loro”.
In secondo luogo, può facilitare per vie digitali la discriminazione. I Rohingya devono seguire un ”codice di condotta” che li obbliga a restare all’interno dei campi e limita le loro interazioni con la popolazione locale. Se il database delle persone di etnia Rohingya dovesse essere svelato, violato o condiviso (per esempio col governo del Myanmar), questo potrebbe rendere più facile negare ai Rohingya l’accesso ai servizi fondamentali, o prenderli di mira, o discriminarli. Per esempio, agli operatori di telefonia mobile del Bangladesh è stato proibito vendere schede SIM ai rifugiati Rohingya. Teoricamente, i dati biometrici potrebbero essere condivisi con gli operatori di telefonia mobile per far rispettare il divieto.
Terza questione: errori e omissioni possono diventare più difficili da risolvere. A differenza delle password, le impronte digitali non possono essere cambiate. Una volta raccolte, può diventare virtualmente impossibile sbarazzarsene o correggerle. Gli strumenti di lettura biometrica non sono accurati al 100 per cento – e non è chiaro quali azioni si vogliano intraprendere se venisse commesso un errore.
Dati responsabili
Quindi in che modo la raccolta di dati potrebbe aiutare la causa dei Rohingya?
Devono essere creati processi che obblighino a rispondere di eventuali errori, e devono essere seguite in modo chiaro pratiche responsabili nel maneggiare i dati. Secondo i principi della minimizzazione dei dati, andrebbero raccolti solo quelli necessari, e l’accesso ai dati personali immagazzinati dovrebbe essere strettamente limitata – molte decisioni che riguardano gli aiuti si possono infatti prendere usando i dati aggregati, piuttosto che i dati personali degli individui.
Le scelte su quali dati raccogliere andrebbero fatte con una strategia a lungo termine in mente. La raccolta, la conservazione e l’utilizzo di questi dati dovrebbero quindi essere pianificati con cura in linea con questa strategia.
I Rohingya sono perseguitati da molto tempo, da ancora prima degli orrori che affrontano oggi in Myanmar.
Abbiamo la responsabilità di assicurarci che il loro diritti vengano rispettati e tutelati – e che i dati che si dice di raccogliere come parte della risposta umanitaria vengano usati a quello scopo e non per ulteriori persecuzioni.
Questo articolo è stato originariamente pubblicato da IRIN News, agenzia di informazione specializzata nel racconto delle crisi umanitarie. Potete leggere l’articolo originale in inglese qui. IRIN non è responsabile per l’accuratezza della traduzione.
Foto di copertina: Tommy Trenchard/ Caritas/ CAFOD (CC BY-NC-ND 2.0).