È l’una e mezza della notte di Santo Stefano. Sono nella mia cabina al secondo piano della nave; qualcosa scivola sul piano inclinato della scrivania e cade a terra, con un tonfo che mi sveglia. Accendo la luce, vedo oscillare le tendine verdi e azzurre dei due oblò e il mio laptop sul pavimento vicino alla porta. C’è mare grosso con onde di quattro metri in aumento, come aveva previsto il meteo che Klaus – search and rescue coordinator di SOS Méditerranée – ha condiviso con l’equipaggio nel meeting mattutino delle 8.15.
Sono a bordo di Aquarius, la nave gestita in partnership da SOS Méditerranée con Msf che dal febbraio del 2016 a oggi, in coordinamento con il Mrcc (Maritime Rescue Coordination Centre) di Roma, ha soccorso in mare 18.386 persone, oltre a 7.980 trasferite a bordo dopo essere state tratte in salvo da altre imbarcazioni, per un totale di 26.366 persone salvate e accolte.
Stanotte a bordo con noi ci sono 373 persone, trasferite nel tardo pomeriggio dall’imbarcazione di Proactiva Open Arms e poi più tardi, con il buio, dalla nave militare spagnola Santa Lucia. Vengono da Sudan, Somalia, Senegal, Nigeria, Chad, Costa d’Avorio, Pakistan, Nepal, Mali, Eritrea e altri paesi africani, per un totale di 18 nazionalità diverse. Quarantuno sono donne, due di loro incinte, 69 sono minori, sei i bambini sotto i cinque anni.
Prima sono scesa nel locale mensa e Marco – il medico dello staff di Medici senza frontiere – mentre faceva due minuti di pausa per un caffè mi ha detto che stanotte non sa a che ora finiranno le medicazioni. Molte donne e alcuni uomini hanno ustioni da carburante sui glutei e sulle gambe perchè nel gommone sono stati costretti a sedere sul fondo, e riportano ferite profonde causate dalla miscela di benzina e acqua di mare. Poi c’è un uomo molto denutrito, pesa solo 35 chili e non smette di tossire. L’hanno trasportato in barella, troppo debole per camminare. In Libia era stato tenuto chiuso in un container per tre mesi e ha perso la mobilità delle gambe.
Madre e figlia
Lo shelter dell’Aquarius è pieno di donne e bambini. I vestiti bagnati dal mare sono appesi ad asciugare, e quasi tutti sono scalzi: sulle spiagge in Libia sono stati spinti sul gommone e costretti a lasciare le scarpe a terra.
C’è una bambina somala di poco più di un anno che cerca di raggiungermi. Deve aver imparato a camminare da poco: nel tentativo di corrermi incontro cerca l’equilibrio nei passi, sorride tantissimo poi si gira a guardare la madre. Questa è una giovane ragazza somala. È seduta sul pavimento verde dello shelter e ha in braccio la più piccola delle due sorelline. Tesla, l’ultima nata, ha solo due mesi. Dalla tutina con i gufi e le stelle sbucano le manine completamente ricoperte di scabbia. Anche le guance e il mento portano i segni dell’infezione, nonostante la pelle sia ancora quella di una neonata.
Mentre la sorella le saltella intorno, lei apre gli occhi, la madre si infila una mano nella felpa nera che ha ricevuto a bordo al posto dei suoi vestiti zuppi e fa il gesto di allattarla. Il seno è livido, denutrito e ricoperto di scabbia, come il resto del corpo. Ha partorito in Libia, in un centro di detenzione, e non ha un goccio di latte.
Nel 2017 si è registrato un incremento sensibile dei casi di scabbia: lo staff medico di Msf a bordo di Aquarius ha registrato che il 40 per cento delle persone visitate presenta questa infezione della pelle, e nemmeno i più piccoli ne sono esenti. Insieme ai racconti di violenze, stupri, minacce e morti per stenti, è la testimonianza del peggioramento delle condizioni nei centri di detenzioni libici, che ormai non si distinguono più dalle prigioni.
Seduta vicino alle sorelline somale c’è Zeyna. Figlia di senegalesi, ha 23 anni e qui a bordo l’abbiamo notata tutti per la sua intensa bellezza. Quattro mesi fa ha lasciato il Marocco dove lavorava come modella, e ha passato l’ultimo mese in Libia nel centro di detenzione di Tariq Al Matar, nella periferia di Tripoli. “In prigione non mi sono mai tolta il cappello”, mi racconta, “lo tenevo giorno e notte per cercare di nascondermi, per non dare nell’occhio: i libici sono attratti dai capelli lunghi quando devono scegliere la ragazza da prendere”.
“Alcune di noi sono morte lì, altre vengono stuprate davanti ai loro mariti, costretti con la forza ad assistere alla violenza”. Deglutisce, come a ricacciare qualcosa di bestiale, poi mi guarda con questi enormi occhi profondi, e aggiunge: “tutti noi preferiamo morire che stare in Libia”.
Il giorno dopo, qualche ora prima dello sbarco ad Augusta, la ritrovo nello shelter vicino agli oblò arancioni da cui si vede, in lontananza, la costa orientale della Sicilia con le luci addolcite dell’alba: si è tolta il cappello grigio, ha sciolto i capelli lunghi fino alla schiena.
Il naufragio dell’Epifania
Il giorno dell’Epifania, all’una del pomeriggio avrei dovuto partecipare all’esercitazione che il team di SOS Méditerranée svolge nei momenti in cui la nave non è coinvolta nei soccorsi e non ha migranti a bordo. Lo scopo è allenare l’equipaggio nelle manovre di salvataggio più complesse. Quella mattina, per la prima volta, decido di non andare e mi ritrovo sul ponte, nella cabina di comando, a guardare l’orizzonte con il binocolo.
Sul cielo azzurro spuntano gruppi intermittenti di nuvole che poi se ne vanno, e il mare se lo guardi troppo a lungo ti abbaglia con i suoi biondi luccichii. Il termometro sul ponte segna 21 gradi. A più di 70 miglia da noi si sta consumando il primo naufragio del 2018.
Quaranta miglia marittime a est di Tripoli c’è un gommone, partito da Garabulli, che sta affondando con un carico di 150 persone: imbarca acqua e ci sono almeno 20 persone in mare senza giubbotti di salvataggio. Lo scopriamo dalla radio.
“Le condizioni sono critiche”, sentiamo dire in inglese da una voce che proviene da un aereo dell’operazione Sophia di Eunavfor Med che sta sorvolando la zona. Aquarius è a ovest di Tripoli, troppo distante, così come la nave di Sea Watch. I soccorsi servono ora, immediatamente, mentre noi impiegheremmo più di otto ore per raggiungere la zona.
Interviene sul posto l’imbarcazione Charlie Papa 941 Ubaldo Diciotti, della Guardia Costiera italiana, in quel momento la più vicina e la più veloce in zona. Poco dopo arrivano altri mezzi della Marina militare. La cabina di comando di Aquarius si riempie, siamo tutti lì a seguire quella drammatica conversazione. “Avete alcuni migranti incastrati tra i parabordi dei vostri gommoni”, scandisce una voce dall’aereo che dall’alto guida la Diciotti nelle complicate operazioni di recupero delle persone.
Klaus Merkle, capo delle operazioni di soccorso in mare, si copre la bocca con la mano mentre non stacca gli occhi dalla radio. Mathilde Auvillain, responsabile della comunicazione di SOS Méditerranée, chiede scossa qual è la temperatura del mare oggi. Aquarius, troppo lontana per essere d’aiuto, assiste al dramma attraverso le voci.
La radio poco dopo si ammutolisce, la trasmissione è interrotta.
Le persone salvate saranno 86. Otto i corpi senza vita recuperati dalla nave Diciotti – sei donne e due uomini. Decine i dispersi in mare.
il 7 gennaio, il giorno dopo il drammatico naufragio, Aquarius sta pattugliando le acque internazionali a ovest di Tripoli quando l’Mrcc di Roma segnala, in prossimità della piattaforma petrolifera Sabratha Oil Field, un gruppo di 27 persone tratte in salvo dal cargo italiano Asso Ventiquattro. La nave di SOS Méditerranée si dirige lì. Tutte provenienti dall’Africa sub-sahariana, queste persone viaggiavano su un’imbarcazione in legno di sette metri e arrivano su Aquarius stremate, in stato di shock, alcune con sintomi di ipotermia. Tra di loro due donne e sei minori non accompagnati.
Dominic
Dominic sta sempre sdraiato a pancia in giù o rivolto verso la parete in un angolo dello shelter, come a ripararsi da ciò che ha intorno. Tra le mani, sotto la testa, tiene un foglio a quadretti su cui ha scritto una preghiera. Accanto ha un quaderno giallo su cui sta studiando le prime parole di italiano. “Buongiorno” mi dice.
Ha 23 anni, ha lasciato la Nigeria più di un anno fa e ha trascorso l’ultimo periodo in Libia nella prigione chiamata Osama, vicino a Zawiya. Ha segni feroci sul corpo, i solchi della Libia negli occhi, ma quando mi racconta la sua storia, a tratti mi sorride con una dolcezza pura. Immagino con orrore che possano averlo preso di mira anche per questo.
È stato ripetutamente torturato dai carcerieri libici. “Mi hanno tenuto legato a colpi di frusta. Mi hanno fatto inginocchiare e camminare sulle pietre”. Abbassa lo sguardo, sui polsi ha la cicatrice di una corda stretta a lungo e sulle ginocchia le ferite fresche di quelle torture. Dormiva in una camerata con più di 70 persone, senza acqua da bere se non quella non potabile di un rubinetto. In quella prigione, il cibo è un pezzo di pane la mattina e la sera un piatto di pasta da dividere in sei.
Medici senza frontiere riporta che sono almeno 300 le vittime di tortura registrate a bordo di Aquarius nel 2017.
Mentre Dominic mi mostra la preghiera che ha scritto, si avvicina anche Sekou, 24 anni. Ha lasciato il Senegal due anni fa e ha trascorso nove mesi in una prigione a Sabratah. “Ho visto morire un amico che aveva solo 27 anni. È morto di stenti”, mi dice. “Quello che mi fa male è che le persone che non possono pagare restano nelle prigioni. Quella è una delle peggiori: alcuni impazziscono. O paghi e ti lasciano andare o lì dentro puoi morire”. Lui ha pagato 1.500 dinari per uscirne e garantirsi il viaggio in mare verso l’Italia. Come molti dei migranti con cui ho parlato, Sekou mi racconta questa cosa sottovoce, quasi sillabandola: “quando in Libia dici che vuoi andare in Italia, ti portano in un centro di detenzione o in una prigione, da quell’inferno l’unico modo per uscire è pagare”.
Sono le 5 di sera, tra mezz’ora nel locale mensa sarà servita la cena e anche oggi, come accade ormai da tre settimane, un piccolo gruppetto di noi, senza darsi appuntamento, si ritrova qui sul ponte, nella cabina di comando.
Stiamo in silenzio per non disturbare e guardiamo fuori dalle vetrate che corrono lungo tutto il perimetro della cabina. Osserviamo la prua di Aquarius che procede verso l’Italia, e mentre il sole scende commentiamo a bassa voce quanto siano impressionanti i colori di oggi, rispetto a quelli del giorno prima e del giorno prima ancora. Lo diciamo ogni giorno. Viviana, soccorritrice di SOS Mediterranée, studia le carte nautiche in un angolo in cui l’unica luce è l’alone di una lampada da tavolo. Andreas, chief officer di Aquarius, la guida spiegandole come leggere la nostra posizione. Sempre più lontana dalla Libia, sempre più vicina a Pozzallo, al sicuro.
In copertina: 26 dicembre 2017, acque internazionali, al largo delle coste libiche. Nella notte tra Natale e Santo Stefano, le operazioni di trasferimento di 234 persone, tra cui molti bambini, da una nave militare spagnola del dispositivo EuNavForMed all’Aquarius (foto: Federica Mameli/SOS Méditerranée come tutte le fotografie di questo articolo)