Viale Chernivetska guarda dritto alla facciata della stazione centrale di Lviv, gioiello dell’Art Nuveau della Galizia, preso ad esempio nei primi del Novecento per la costruzione degli scali ferroviari di Praga e Vienna. Percorribile a piedi o a bordo dei tram, oggi è un brulicare di persone che si muovono verso i binari e pure in senso opposto, andando incontro alla città, che affrettano il passo perché nevica o si fermano esausti per tirare il fiato, prendere in braccio un bambino, riafferrare la maniglia di un trolley finito per terra. Luogo di transito fra est e ovest, raccordo fra le altre città dell’Ucraina e l’Europa da poco più di un milione e duecentomila passeggeri al mese, ha raggiunto quasi gli stessi numeri in meno di due settimane, da quel 24 febbraio che ha cambiato per gli ucraini il modo di contare i giorni, e ha segnato un prima e un dopo la guerra.
Tutti i profughi che lasciano quotidianamente Kiev, Kharkiv, Chernihiv, Mariupol, Kherson e le altre località sottoposte agli attacchi aerei, transitano da qui, dopo aver atteso per ore, ammassati nelle stazioni di partenza, quei pochi treni disponibili, nel tentativo di salvarsi la vita. L’arrivo a Lviv, dopo tempi ormai incalcolabili sin dalla partenza, è altrettanto complicato, perché i convogli carichi di persone riversano donne, bambini, anziani e i loro animali domestici sulle banchine che non riescono più a contenere tutti. Da lì comincia la lentissima discesa verso il sottopasso che collega i binari alla sala d’ingresso della stazione, poche decine di metri in tutto, dove si mescolano le code di chi aspetta il prossimo treno per la Polonia, e spera di riuscire a salirci, e chi, appena arrivato, deve ancora capire come proseguire il viaggio, se in treno, in autobus, in macchina, o fermarsi qualche giorno in una città che ha ormai occupato tutti gli spazi disponibili per l’accoglienza: dagli hotel fino alle scuole elementari, le sale cinema, i teatri, le case private delle famiglie che aprono le porte ad amici e parenti, ma anche a sconosciuti bisognosi, entrati in contatto tramite richieste di aiuto che viaggiano sui social, sulle pagine Facebook, su Telegram, attraverso il passaparola.
Un chilometro di strada segna la distanza fra il caos dei treni, dei pullman che sostano poco lontano, dei bagagli ammassati ovunque, dei tendoni della Croce Rossa e dei banchetti che distribuiscono borsh, zuppa, e tè caldo, e d’un tratto Lviv sembra riacquistare l’aspetto di una città dove per qualche minuto la guerra si può ancora dimenticare. Ma la realtà è diversa: alcune delle statue presenti nelle piazze storiche sono state coperte con teloni ignifughi, come a volerle proteggere in caso di attacco, ed oggi appaiono come bianchi fantocci senza forma. Molti negozi, caffè e locali del centro restano chiusi anche di giorno, non solo la sera quando alle dieci scatta il coprifuoco; altri hanno scelto di restare aperti ma i clienti sono sempre di meno.
“Chi è che ha voglia di andare a pranzo fuori, con quello che sta accadendo? – racconta Vasil, titolare di un locale specializzato nella cucina messicana, con un’esperienza internazionale da chef alle spalle – io e i miei soci restiamo qui, ma abbiamo deciso di metterci a disposizione di chi ha bisogno e così ogni giorno prepariamo un pasto caldo per i profughi.”
Al primo piano del suo ristorante ha allestito un lungo tavolo che a mezzogiorno si riempie di vaschette di plastica: una porzione di riso, carne, legumi e una di insalata fresca. “Nessuno si immaginava che ci saremmo ritrovati in guerra così, da un giorno all’altro – racconta – eppure in un attimo la vita di tutti è stata stravolta. E non importa che questa città sia stata risparmiata dagli attacchi russi, per ora, perché ognuno di noi ha almeno un parente o un amico che può raccontare cose orribili, che è scappato da casa sua o è ancora intrappolato in un posto a rischio.”
Anche Dima, trentenne di Kiev, ha trasferito il suo quartier generale all’interno di uno spazio multifunzionale di quattro piani che prima ospitava alcuni studi fotografici e che ora è diventato in parte un dormitorio per gli sfollati e in parte un ufficio per coordinare l’invio degli aiuti e le evacuazioni delle persone in pericolo. Titolare di un tour operator fondato otto anni fa, poco più che ventenne, ha deciso di lasciare la capitale insieme alla famiglia e agli amici più stretti, diciotto persone in tutto, ed è arrivato a Lviv cinque giorni fa. “Non c’erano più le condizioni per restare a casa, purtroppo, ma non ho intenzione di prendere le armi perché non l’ho mai fatto e non saprei da dove cominciare – racconta – però ho pensato che la rete di contatti internazionali che abbiamo costruito in questi anni di viaggi organizzati potesse essere utile a raccogliere fondi per le persone che scappano dalla guerra come me e perdono ogni punto di riferimento, e anche per attivare una campagna social intorno al conflitto, con strumenti che normalmente usiamo per altro.”
Grazie al suo crowdfunding Dima ha già raccolto oltre ottomila euro, impiegati non solo per l’accoglienza ma anche per realizzare una serie di messaggi, diffusi su Instagram, sui corretti comportamenti da tenere in caso di attacco, su dove rifugiarsi, come scegliere le fonti di informazione evitando le fake news. “Abbiamo scelto anche di realizzare dei piccoli video nei quali mostriamo cosa sta succedendo nelle piazze del mondo – spiega Dima – dove la gente manifesta per supportarci. Anche questo è importante, ed è giusto diffondere messaggi positivi.”
Nel frattempo al Palazzo dell’arte di via Kopernyka, una delle strade centrali di Lviv, la gente si mette in fila per donare qualcosa o per mettersi a disposizione come volontario. Questo spazio espositivo è diventato il più grande centro di smistamento di aiuti di tutta la città, e raccoglie cibo, medicinali, vestiti, materassi e coperte che arrivano da privati cittadini e da associazioni, locali ed estere. “Qui raccogliamo il materiale e lo mandiamo a chi ha bisogno – spiega Yurii Vizniak, responsabile dei volontari – abbiamo aperto da dieci giorni e cerchiamo di far arrivare i generi di prima necessità non solo ai civili ma anche ai militari al fronte. Siamo oltre 300 persone e ci alterniamo su turni nelle ventiquattro ore, sette giorni su sette: naturalmente siamo in collegamento con altri centri più vicini alle città colpite che poi provvedono alla distribuzione sul campo.”
Al piano di sopra la sala cinema è diventata una distesa di capi d’abbigliamento, che un gruppo di ragazzi e ragazze è impegnato a esaminare e dividere per taglie e tipologia, per poi riporli in scatole di cartone o grossi sacchi di plastica che un’altra squadra trasporta giù per le scale di mano in mano, formando una catena umana che arriva sino al cortile esterno, dove c’è il camion pronto per essere caricato.
“Solo negli ultimi due giorni – dice Yurii con orgoglio – ne abbiamo riempiti 300. Purtroppo non riusciamo a reperire tutto il materiale per il primo soccorso di cui ci sarebbe bisogno, ma ci diamo da fare al massimo perché nulla resti indietro. Speriamo solo che ne serva sempre meno.”
In copertina: stazione centrale di Lviv, foto di Ilaria Romano.