Su una cosa sono tutti d’accordo: la tendopoli di San Ferdinando non la vuole nessuno. Ma per motivi diversi.
Che le condizioni di vita nella baraccopoli fossero invivibili lo sanno, meglio di chiunque altro, i 3mila lavoratori migranti che ogni inverno si spostano a Rosarno per la stagione di raccolta degli agrumi nella Piana di Gioia Tauro. Mancavano acqua corrente, servizi igienici adeguati e qualunque fonte di riscaldamento, che non fossero falò o stufette di fortuna. L’ultimo incendio era scoppiato pochi giorni prima dello sgombero, il 16 febbraio, e aveva ucciso Moussa Ba, un senegalese di 29 anni. A dicembre, sempre a causa di un incendio, era morto il diciottenne Jaiteh Suruwa, mentre a gennaio del 2018 Becky Moses aveva perso la vita nelle stesse circostanze.
“Era necessario”, afferma Angelo Sposato, segretario regionale Cgil Calabria, all’indomani dello sgombero avvenuto il 6 marzo.
“Il problema – aggiunge Peppe Marra dell’Usb Calabria – è che si tende a legare San Ferdinando all’emergenza immigrazione: questo è fuorviante perché si tratta di una questione legata al lavoro e allo sfruttamento, non all’accoglienza. Abbiamo seguito casi di persone che lavorano da 20 anni in Italia: dobbiamo parlare di lavoratori, prima che di migranti”.
Lo sgombero della baraccopoli
Lo sgombero era stato annunciato diverse volte dal ministro dell’Interno Matteo Salvini ed è stato deciso tramite un’ordinanza dal sindaco di San Ferdinando, Andrea Tripodi. La mattina del 6 marzo erano in 600 circa tra forze dell’ordine, vigili del fuoco e personale sanitario, per trasferire o allontanare più o meno 900 persone. “Sono felice e orgoglioso dello sgombero di San Ferdinando: è stata finalmente cancellata una delle più vergognose baraccopoli d’Italia dove proliferavano degrado, illegalità e sfruttamento. Dopo anni di chiacchiere, ora sono arrivati i fatti”, è stato il commento del titolare del Viminale all’indomani dello sgombero.
Ad essere stato “cancellato” però non è stato l’intero accampamento ma solo la cosiddetta baraccopoli. Tecnicamente infatti le tendopoli di San Ferdinando erano tre, una a ridosso dell’altra. C’era la tendopoli installata dalla Protezione civile all’inizio del 2012: inizialmente prevedeva 300 posti ma negli anni era arrivata ad ospitare tra le 2 e le 3mila persone. Rimasta senza gestore sei mesi dopo il suo allestimento, si era trasformata rapidamente in una baraccopoli (ed è dove si è intervenuto il 6 marzo). Era stata sgomberata una prima volta già nel dicembre 2013 ed al suo posto erano stato allestito un nuovo campo di accoglienza, dove le tende blu del ministero dell’Interno erano ormai lacere e i container adibiti a bagni a malapena utilizzabili.
E poi c’è la cosiddetta nuova tendopoli: allestita ad agosto 2017 e costata 600 mila euro (spesa sostenuta grazie a un finanziamento della Regione) è controllata da telecamere e circondata da mura alte un paio di metri e da grate in metallo. All’interno, 54 tende per 700 posti. Infine immediatamente all’esterno della tendopoli recintata, ci sono una serie di tende installate dopo l’incendio del gennaio 2018, tende a cui ne sono state aggiunte altre, per garantire un posto alle centinaia di persone sgomberate dalla baraccopoli. “Questa nuova tendopoli, questa ‘terra di mezzo’ mi sembra un’ottima candidata a trasformarsi in tempi brevi in una nuova baraccopoli”, afferma Mariateresa Calabrese, coordinatrice del progetto Terragiusta delll’associazione Medici per i diritti umani (Medu). “La tendopoli recintata attualmente è molto controllata, mentre la parte all’esterno ha un carattere di grande precarietà: cosa faranno per sistemarla, ancora non si sa”.
Secondo i dati del ministero dell’Interno, “al 5 marzo, la presenza stimata degli immigrati era di 1.592 persone. Di queste, 200 sono state trasferite negli ex Sprar e Cas (cioè i centri di accoglienza per i richiedenti asilo e i rifugiati, ndr), 932 sono rimaste nella tendopoli e circa 460 si sono spostate volontariamente”. Il criterio discriminante sono i documenti: centro di accoglienza per chi ha un permesso di soggiorno per richiesta asilo oppure ha lo status di rifugiato, trasferimento nella nuova tendopoli per chi ha solo la protezione umanitaria.
In realtà il calcolo di Medu, che ogni inverno è presente in zona con una clinica mobile, è che le persone che si sono allontanate volontariamente siano molte di più delle 460 stimate dal Viminale, forse il doppio, dato che molti probabilmente non erano nemmeno stati censiti.
“Abbiamo visto molte persone allontanarsi già nelle settimane e nei giorni precedenti allo sgombero”, racconta Calabrese. “Parliamo probabilmente di 900 persone senza permessi regolari, fantasmi che si è fatto finta di non vedere e che sono stati spinti ad allontanarsi e a disperdersi su tutto il territorio nazionale, con grandi difficoltà personali e con una situazione che nel lungo termine non sarà sostenibile”.
Difficile dire dove siano andate queste persone: chi ha amici o parenti in altre città italiane ha probabilmente chiesto loro un appoggio, altri con tutta probabilità hanno anticipato la partenza verso altre zone di raccolta, dato che in ogni caso la stagione degli agrumi è quasi alla fine. Ha scelto di restare chi ne aveva necessità: chi perché ha ancora lavoro, oppure aspetta i soldi dal datore di lavoro e chi per non allontanarsi dalla questura di Reggio Calabria, dovendo seguire le pratiche legate al rinnovo del permesso di soggiorno.
Nel frattempo sulle modalità dello sgombero è arrivata anche la condanna del consiglio Diritti umani della Nazioni Unite: “Le autorità non hanno adeguatamente vagliato le alternative per evitare le sgombero, come invece previsto dalla normativa internazionale sui diritti umani – si legge in un comunicato del 13 marzo. Lo sgombero forzato ha accresciuto la pressione a carico di donne e uomini, principalmente provenienti dall’Africa sub-sahariana, che ora si trovano ad affrontare difficoltà ancora più grandi”.Un ulteriore paradosso riguarda poi le 200 persone trasferite nei Cas e negli Sprar: molti di loro avevano infatti lasciato i centri di accoglienza proprio perché avevano bisogno di lavorare. Senza contare che molti di loro rischiano di essere mandati via dai centri tra poche settimane o mesi: “Almeno due persone che stiamo seguendo da vicino – spiega Marra –, e che sono state trasferite in un centro di accoglienza, hanno già fatto l’audizione in Commissione. Gli è stata riconosciuta la protezione umanitaria (abolita dal decreto Salvini, ma ancora in vigore per chi ha fatto domanda di asilo prima di ottobre, ndr) e tra pochi giorni, appena riceveranno la notifica ufficiale, saranno buttati fuori dal centro”.
Le alternative e il futuro
Il sindaco di San Ferdinando ha affermato che con lo sgombero è iniziata una nuova fase, augurandosi che “questa diventi un’occasione per tutti, soprattutto per le forze politiche e per tutte le altre istituzioni” e sottolineando che occorre un ripensamento critico complessivo di tutta la situazione, “che diventi l’inizio di un ripensamento per tutta l’area”.
Il 15 marzo si è tenuto un tavolo di confronto in Prefettura tra i sindaci di San Ferdinando, Rosarno, Gioia Tauro e i rappresentanti della Regione e dei sindacati. Marra che era presente a questo primo incontro, a cui dovrebbero seguirne altri, spiega che al momento la proposta sarebbe di distribuire nei vari comuni una serie di “moduli abitativi”: 30 container da 8 posti ciascuno, in grado di ospitare 240 persone in tutto. “Il nostro giudizio per ora è sospeso”, afferma Marra. Che cosa ne sia stato delle varie proposte di supporto all’affitto e di riutilizzo del patrimonio abitativo, come si sperimenta nella frazione di Drosi da anni, non è chiaro.
“Né noi, né altre associazioni del territorio siamo stati inviati a questo tavolo”, conclude Calabrese. Una scelta che la coordinatrice di Medu definisce sintomatica ed “esclusiva”, rispetto all’atteggiamento degli anni scorsi. “Hanno costruito una narrativa per cui ora è tutto risolto, ma non è così – conclude Calabrese – e confermo quanto diciamo dall’inizio: lo sgombero è stato un intervento affrettato e che non tiene conto dei reali bisogni delle persone”.